Il libro islandese

di Enrico Dotti

La radio continua a trasmettere strani messaggi, eppure il cielo è azzurro, sebbene con qualche sgraffio di nuvola. D’altra parte, chi ascolta più la radio? Giusto su un’isola, giusto Pietro, nelle pause del lavoro, per accordare la sua insopportata solitudine alle voci del mondo. I libri da tradurre glieli portavano dalla terraferma ogni tre mesi, due o tre, una volta cinque, spesso uno solo. Traduceva dall’inglese – e questa era la sopravvivenza – e dall’islandese, ma questa è una lingua rara e inumana, esercitata da qualche tecnico stravagante o dai poeti nazionalisti. I traduttori letterari sul continente erano tre o quattro, si spartivano coscienziosamente il lavoro; a lui rimanevano quei pochi reports che non erano scritti in inglese. Ora però, in cima alla pila che aveva fatto emergere snodando lo spago e svolgendo l’involucro, in cima alla torretta che aveva alla base un romanzo d’amore ed un giallo, della stessa autrice e dello stesso editore di Canberra (tre settimane di lavoro per ognuno), in alto, insomma, per graziosa cortesia, volontaria o meno, di chi l’aveva disposto, c’era una piccola brossura di 60 pagine spesse, 18×15 cm; ad un terzo dal margine superiore della copertina grigia, in un carattere che faceva pensare al Caslon di Joseph Fry, in corpo 18 e stampato con un luminoso blu oltremare, si leggevano le parole: Hreyfa steinana, spostare pietre. Il frontespizio riportava il titolo al centro ed in calce, su due righe, allineate a sinistra, l’editore e l’anno: Jón Sigurðsson / 1973; non c’era autore. Seguiva una carta bianca e poi una tavola, più spessa, con un’incisione eseguita con un vecchio torchio che aveva lasciato sul foglio una percettibile depressione. Rappresentava una nave a vela, probabilmente un brigantino. Dentro, ancora nel bel carattere del frontespizio, versi. Si trattava proprio di un lungo poema. Quando aveva tradotto poesia l’ultima volta? Trenta, quarant’anni prima? Quando aveva dato un’anapestica forma di fanfara a The naming of cats di Eliot per contribuire al primo numero di una piccola rivista di traduzione, o quando aveva cercato di riprodurre l’audace malinconia di Sad eyes lady of the Lowlands per la sua amica, guadagnandone una notte d’amore? Molto tempo era passato, non era più lo stesso uomo. La sua cassetta degli attrezzi era cambiata. Ma chi gli mandava poesia, poi?

Fer yfir hafið þú sem elskar ævintýri

Letteralmente: “attraversa il mare, tu che ami l’avventura”, cominciava così. Decise di lasciar perdere e di rimandarlo.

In tre settimane finì la traduzione dei due libri australiani: il giallo, una sentina di banalità, col solito commissario rude e problematico; e l’improponibile romanzo d’amore, innocuo, volgarmente audace per un pubblico aduso alla pubblicità dei profumi. Chiuse tutto, anche il libro islandese, prima col pluriball e poi con la carta da pacchi legata bene con lo spago. Quando arrivò Andrea con la barca per la posta, spedì.

Passarono altre due settimane, ed arrivò il nuovo pacco. C’era un piccolo Dickens e ne fu contento, perché amava gli scritti minori del poeta di Portsmouth che avevano l’andamento di una cima che, legata una pietra ad un capo, veniva lanciata da una mano abile; seguivano due volumi dello stesso autore, pubblicati da Palgrave, uno sull’agricoltura cinese e l’altro su quella del sud-est asiatico; in fondo, un grande tomo rilegato in tela e con una sovracoperta colorata, l’Handbook of Critical Environmental Politics, che avrebbe implicato noiose ricerche di termini specialistici, ma Elgar pagava abbastanza bene il disturbo. Era tutto. No, schiacciato dal possente repertorio, nascosto ma ostinatamente occhieggiante, inopinatamente redivivo si manifestò il poema islandese. Eppure aveva chiarito al suo agente che non lo poteva, non lo voleva tradurre. Ma in fondo al pacco c’era ancora qualcosa, una busta color avorio, di carta pergamenacea e spessa, che conteneva un foglio piegato in tre – come si fa con le lettere commerciali – che conteneva un testo scritto in inglese, indirizzato a lui e firmato Vigdís Ragnadóttir, publisher. Ecco, l’editrice della Jón Sigurðsson in persona lo pregava di tradurre il volume ed era disposta ad aumentare il compenso (che rimaneva comunque modesto). Si era rivolta proprio a lui su indicazione di Davíð Grimmson, un collaboratore della casa editrice, che lo riteneva il più adatto ad affrontare un lavoro del genere. Teneva molto alla traduzione italiana del poema, anche nell’ottica della diffusione in Europa della poesia islandese. Una versione inglese era già stata prodotta, Beauchesne e Kampf stavano provvedendo per i rispettivi Paesi. La lettera terminava con un’ulteriore, sobria preghiera di accoglimento della richiesta, la firma e gli estremi del mittente.

Questo Davíð Grimmson non se lo ricordava. Era forse uno dei tanti islandesi conosciuti all’Istituto Magnùsson di Copenhagen? Era, piuttosto, costui incespicato sul suo nome, normalmente ben nascosto in un angolo segreto dei volumi che contenevano le sue rare traduzioni di racconti classici della letteratura islandese? Fece una rapida ricerca: Davíð Grimmson era uno scrittore ed un traduttore dal francese e dall’inglese; aveva tradotto opere di Perec, Queneau, Beckett (doveva essere uno bravo!) e poi Chesterton e addirittura Shakespeare; era autore di due romanzi, uno dei quali tradotto (da lui stesso) in francese: Leita að Licorne (Essayer la Licorne). In Rete c’era una fotografia: un volto grassoccio sorridente che non gli ricordava niente. Propese per la seconda ipotesi. Forse aveva suggerito il suo nome all’editrice perché era l’unico traduttore italiano che conosceva.

Scrisse al suo agente per chiarimenti. Questi rispose:

Caro Pietro, Vigdís (che è una signora gentilissima), mi ha espresso tutta la sua costernazione quando le ho detto che avevi rifiutato il lavoro. Le ho proposto i nomi di due bravi traduttori ma ha insistito con la sua richiesta adducendo ragioni tecniche che, sinceramente, non ho capito. Mi sono permesso di suggerirle di scriverti direttamente e me ne scuso; questa volta non sono riuscito a farti da filtro. Forse non ho voluto, perché l’editrice è veramente una persona perbene e non volevo darle un dispiacere. Così ti ho rispedito il libretto e ho allegato al pacco la sua lettera, magari ti convince. In fraterna amicizia, Eugenio.

La proprietà transitiva agì, e determinò che Pietro non avrebbe dato un dispiacere a Vigdís perché non avrebbe voluto darne al suo agente e che avrebbe provato a tradurre il poema.

Dopo pranzo, però, afferrò un libro a caso sull’agricoltura (era quella cinese) perché le cose belle le traduceva la sera, se non aveva troppo sonno, oppure la mattina presto. Lavorò senza interruzione per cinque ore, poi cosse un pesce, arrostendolo su un fuoco di ginepro e lo mangiò aiutandosi con un bicchiere di vino locale, delle viti coltivate a strapiombo sulla scogliera. Verso le dieci rientrò in casa e sedette di nuovo alla scrivania, dove c’era l’islandese. Però prese Dickens. Era una raccolta di brevissimi racconti, riuniti in un volume di Very short stories; il primo era davvero singolare: si intitolava Gone Astray e l’inizio era promettente come ogni inizio dovrebbe essere:

When I was a very small boy indeed, bothin years and stature, I got lost one day in the City of London.

Suonava come un’onda, ed a Pietro ricordò curiosamente l’inizio del celebre poema di Coleridge: In Xanadu did Kubla Khan / A stately pleasure-dome decree. Il vacuo indeed, il banale one day sembravano produrre in quella corda di frase una tensione drammatica verso qualcosa, verso la frase successiva. Cominciò a scrivere e verso le tre di notte considerò che forse aveva fatto un discreto lavoro.

La mattina dopo si alzò cha albeggiava. Col caffè nella destra ed il computer sotto il braccio sinistro uscì nella veranda e sedette al tavolinetto della mattina; poi rientrò e riuscì con l’islandese. Quando lo aprì, comparve il brigantino: dietro l’oscura linea dell’orizzonte, nell’acqua che lanciava baluginii di pirite, era così vicino che si vedevano le manovre dei marinai sulla tolda. La nave avanzò ancora per un paio di miglia e poi ammainò le vele e gettò l’ancora; pochi minuti dopo una scialuppa se ne staccò, tre uomini ai remi e due seduti a poppa: li vedeva chiaramente anche se erano ancora lontani, abbigliati come gentiluomini del XVIII secolo. Raggiunsero il molo, deserto, e provvidero all’ormeggio; i due di poppa presero terra. Ora avanzavano, lentamente perché uno di loro aveva una protesi alla gamba destra, avanzavano verso di lui finché non giunsero al cancelletto di legno, lì si fermarono ed egli fece un gesto per invitarli ad entrare. Lo zoppo era alto e possente, si aiutava nella marcia con un pesante e minaccioso bastone, l’espressione volitiva del volto abbronzato gli conferiva una certa nobiltà; l’altro era più basso, l’asciutta figura di muscoli e nervi, lo sguardo fisso degli occhi infossati trasmetteva una caparbia spaventosa determinazione. Al cenno entrarono e rimasero impalati di fronte al tavolino. Poi lo zoppo parlò e parlò in islandese: Tilbúinn? È pronto? Solo questo disse, ed egli capì subito a cosa si riferisse, e rispose: Nei, ekki enn. No, non ancora. L’uomo col bastone lo guardò severamente per un tempo che parve lungo, un lungo, temibile silenzio. Poi disse: Allt í lagi, þrjár vikur. Sta bene, tre settimane. Allora il suo compagno silenzioso allungò il braccio nodoso ed aprì il pugno: sul palmo era disteso un piccolo brandello di carta annerito nel centro da una macchia di carbone; lo tenne in mostra per qualche secondo e poi lo ripose. Senza dire altro la coppia si congedò, oltrepassò di nuovo il cancelletto, raggiunse il molo, prese posto sulla scialuppa e poi sul brigantino, che scomparve rapidamente oltre l’orizzonte. I gabbiani ne accompagnarono la corsa per un pezzo con le loro risa volgari. Quella gazzarra svegliò Pietro. Il sole era già alto.

Aveva sognato Long John Silver, va bene. Aveva sognato Silver che parlava islandese, e quell’altro che gli aveva mostrato il black spot poteva essere Israel Hand, o qualcun altro dei pirati di Flint. Non era la prima volta che sognava qualche vecchio compagno letterario, era successo con Huck Finn, con Jean Valjean e una volta addirittura con Hari Seldon. Ma quello che Silver voleva era senza dubbio la traduzione di quel libro islandese; lo aveva capito sùbito, da prima che il pirata parlasse; aveva temuto che non gli avrebbe concesso proroghe, e, alla fine, si era sentito sollevato, nonostante il gesto minaccioso di mastro Hand. Ma che se ne faceva Silver di una traduzione italiana di un poema islandese? Ovvero perché lui (perché il sogno era opera sua) aveva messo insieme il poema e i pirati di Treasure Island? Riprese il volumetto, rilesse il primo verso

Fer yfir hafið þú sem elskar ævintýri

Era per questo? Anche il romanzo cominciava in versi

If sailor tales to sailor tunes

Storm and adventure, heat and cold

C’era, indubbiamente, una certa somiglianza di famiglia.

Il cielo si scurì, si fece color cenere; voleva piovere. Entrò nello studiolo ed accese la lampada sulla scrivania, la luce di fuori non era sufficiente, anche perché l’islandese era stampato in grigio, un grigio con una sfumatura viola che affondava un po’ nella carta giallastra. Il testo cominciava a metà della prima pagina, che conteneva sei versi. Li lesse e li rilesse: avrebbero preteso un duro lavoro. Le difficoltà si manifestarono subito su due fronti: quello lessicale, per l’occorrenza di molte parole che non conosceva, il cui numero sfiorava quella soglia oltrepassando la quale il lavoro di traduzione diviene miseramente improduttivo; quello, più generale, del senso complessivo, perché l’autore esercitava un vero trobar clus, che rendeva difficile disegnare quella cornice che delimita e dà forma ad ogni traduzione poetica. Ma, innanzi tutto, bisognava capire. Entrò nel sito di Lexia, il grande work in progress frutto della collaborazione dell’Istituto Magnùsson con l’Institut Vigdís Finnbogadóttir de langues étrangères, un dizionario Islandese-Francese che contava già 54.000 lemmi, ma il sostegno non era abbastanza robusto. Lexia forniva la traduzione francese della maggior parte delle parole ricercate, ma questa traduzione non andava bene, non era adeguata alla frase. Provò per un paio d’ore, che scivolarono via in pochi minuti. Intanto pioveva. La pioggia, spinta da un vento di nord-est, era finita sul pavimento della cucina. Chiuse la finestra, asciugò sommariamente, aprì il rubinetto e si riempì un bicchiere. L’acqua scrosciava dentro e fuori, chiuse quella dentro e bevve. Pensò al Marchio Nero ed ebbe un brivido. Un brivido sciocco, pensò. Certo il sogno lo aveva turbato. Sono turbato, si disse. Dickens era lì, aperto sul ritratto del bambino, very small boy indeed, both in years and stature, che Ruth Cobb – l’autrice delle illustrazioni originali, saggiamente riprese nell’edizione moderna che aveva tra le mani – aveva abbigliato con redingote ed alto cilindro da cui spuntavano lunghi capelli; l’immagine fantasmagorica di un benevolo folletto o di un mago da vaudeville che sta per estrarre una gallina dal cappello o fiori dalla punta della bacchetta. Questo Mastro Pulce gli sarebbe saltato nell’orecchio per suggerirgli l’esatta traduzione degli sfuggenti versi islandesi? Il vetro della finestra era una lente deformante, i ciclamini tremavano e si scomponevano in scintille viola, prendevano forma visitatori immaginari. La luce della lampada schiariva solo il piccolo campo della scrivania, il resto della casa era in penombra. Fortunatamente c’era altro lavoro da fare, lavoro semplice.

La mattina dopo la barca della posta gli portò un pacco. Arrivò mentre finiva di fare colazione, nel tavoletto di fuori, perché già la sera prima la pioggia era cessata, la notte era stata limpida e la mattina, a parte la solita corsa di nuvole, era serena. Oltre ai libri, che arrivavano con cadenza regolare, Pietro non riceveva molta posta: amici, non ne aveva; i colleghi preferivano telefonargli, ed erano telefonate brevi, o scrivergli e-mail; Rosa scriveva sempre più di rado, l’ultima lettera era vecchia di due anni (una vecchia lettera terribilmente buona, da Pulitzer). Questo pacco era una novità. Rimase chiuso fino alla fine della colazione e oltre, fino alla fine di un programma alla radio sulla musica dei giovani d’oggi. Quando l’ultima canzone fu cantata, provvide a malincuore alla dissoluzione dei nodi. Era un grosso libro, in-quarto, con una rigida copertina bluastra e scolorita, apparentemente di un migliaio di pagine. Lo aprì, superò una carta ingiallita ed arrivò al frontespizio, che recava: An Icelandic-English Dictionary based on the MS. collections of the late Richard Cleasby, enlarged and completed by Gudbrand Vigfusson, with an introduction and life of Richard Cleasby by George Webber Dasent, D.C.I., poi: Oxford, At The Clarendon Press, M.DCCC.LXXIV. Sul pacco non c’era mittente. Nessuna lettera, o biglietto, che ne indicasse la provenienza. Non era un libro fantasma, era arrivato per posta, regolarmente, era stato pubblicato da un ben noto editore di Oxford, del quale Pietro possedeva quattro o cinque volumi. Questo però no, non l’aveva, e forse avrebbe dovuto averlo. Ma non lo conosceva, ne aveva ignorato, fino ad allora, l’esistenza. Consultò la Rete: Richard Cleasby, un filologo inglese che aveva studiato con Schelling, era malato di fegato e morì di tifo; Gudbrand Vigfusson, linguista, bibliotecario, noto a Copenhagen e ad Oxford, sapeva l’Edda a memoria. E poi il libro era citato, era in vendita, costava parecchio. Chi glielo aveva mandato? Pensò sùbito a Vigdís Ragnadóttir, l’editrice. Oppure, Davíð Grimmson, il collega traduttore. Entrambi avrebbero potuto possedere quel volume, il traduttore con maggiore probabilità. Non aveva dubbi sulla ragione dell’invio: la traduzione del poema islandese. Allora si mise al lavoro e le cose cominciarono a funzionare.

Piano. Non così bene. Ogni parola tradotta era frutto di un negozio, di una contrattazione; il dizionario era un cliente ostico, che non cedeva senza resistenza i suoi significati: indicava percorsi, suggeriva vie che conducevano a rovinosi deragliamenti o a sentieri interrotti; bisognava ricominciare, imbastire una frase con punti lenti, facili da sciogliere, non compromettenti. Alla fine, faticosamente il senso arrivava, ovvero nell’opacità si intravedeva una forma che sembrava adatta, le tessere si incastravano lasciando solo un piccolo vuoto margine di dubbio. Comparve un prologo, un invito al lettore; quel primo verso che Pietro aveva tradotto ad orecchio prima di rimandare il volume poteva andar bene. Ne seguivano altri su un’isola, misteriosa e con un tesoro, sintesi delle due famose isole dell’atlante letterario. Un mistero da svelare, un tesoro da trovare. C’era anche una terza isola, Montecristo. Era un coacervo di isole. Uomini andavano per mare e i loro vascelli venivano travolti dai tifoni, ribaltati da enormi cetacei o squarciati da iceberg; oppure, giunti alle viste dell’isola la perdevano, Isola-Non-Trovata. Ma poi, era isola o continente? Isola Lincoln o Atlantide? Il poema era una mappa, un isolario, una sequela di toponimi islandesi irriconducibili. Un portolano. Perché c’erano partenze, innumerevoli, e ogni sorta di legni, e ogni sorta di equipaggi, si staccavano da piccoli o grandi moli, spinti da quel primo verso, Fer yfir hafið þú sem elskar ævintýri, che suonava così stranamente affine a quegli altri, If sailor tales to sailor tunes/Storm and adventure, heat and cold, ma anche a When I was a very small boy indeed, bothin yearsand stature, I got lost one day in the City of London. Ora però, un brigantino si faceva largo attraverso il popoloso Bristolflòa, lasciando il confortevole porto di Brycgstow, laddove l’Avon ed il Severn sono un’irruzione del mare sulla terra, facendo rotta a S-O per poi virare a tribordo ed immettersi nel Canale di San Giorgio dopo aver doppiato il Pembrokeshire e puntare decisamente a nord, verso Mön, l’isola dei gatti-senza-coda. Ancora un colpo di barra per mettere la nave a tribordo prima di raggiungere il mare aperto, e costeggiare il Rhins of Galloway, e tralasciare la tumultuosa Belfast per guadagnare la vista di Skosku hálöndin, le terre selvagge, ed immaginare, invisibile e solenne, il Ben Nevis dei Grampiani. Poi, finalmente, il gran pelago, dove la vista la fanno gli strumenti e le stelle, ogni costa remota. Ora il ponte era libero, solo il secondo, al timone, lo impegnava, lo sguardo all’orizzonte. Il capitano in cabina segnava il punto con la penna d’oca, gli uomini in coperta dondolavano nelle amache spinte dall’onda lunga dell’Oceano. L’uomo che chiamavano Suðrænn Maður cantò tra sé un canto malinconico, dodici difficili versi che partivano da un cantore solitario abbandonato su un’isola dai suoi compagni che partiva sul suo poema per approdare su di una terra incognita. Non poteva essere, non sul suo poema. Eppure, nessun’altra traduzione era possibile. Le metafore si fecero più ardite, le relazioni più insensate; eppure, scrivendo tutto, traducendo tutto alla lettera, qualche forma alla fine compariva. Il piccolo, ermetico poema nel poema lo stroncò. Si trascinò a letto e, vestito com’era, cadde in un sonno profondo. Qualcosa lo svegliò nel buio, manovre sulla piccola darsena, la catena di un’àncora. Chi arrivava a quell’ora insolita? Udì il cigolio del cancelletto, guardò oltre i vetri ma non vide nessuno. Il vento? Indossò un maglione e uscì in giardino. Questa volta Hand era solo; nonostante il grosso coltello infilato nella cintura, il gesto con cui lo invitò a seguirlo non aveva niente di minaccioso. Perché no? Cosa lo tratteneva ancora su quell’isola? La solitudine cominciava a pesare? Aveva fallito nel tentativo di bastare a se stesso? Chi poneva queste domande? Pietro, Israel Hand, il mare, il libro islandese? Il suo fantasma era lì, alla fine del pontile, con il braccio teso lo invitava a salire sulla barca, vuota, che si sarebbe mossa con null’altra propulsione che le ali dell’Angelo. Ma ora il pontile era altissimo, il salto sarebbe stato mortale. Ma quanto mortale? Con questa curiosa domanda fece il passo. La sensazione di cadere lo destò. Gli uccelli fuori ridevano di questa umana insensatezza.

La traduzione era finita. Forse aveva fatto un buon lavoro, non stava a lui deciderlo. Doveva spedire il file, rimandare il libro, insieme al Dickens, ai manuali di agricoltura asiatica e di economia. L’equipaggio di Flint non sarebbe più andato a disturbarlo in sogno, scalzato da qualche nuova o vecchia conoscenza. Questo era il suo mondo e lo sarebbe stato fino alla fine, anche quando la barca della posta avesse cessato di attraccare, annunciata da un breve richiamo. Per questo era andato nell’isola, per questo faceva parlare, faceva agire con la sua voce i grandi caratteri, che non aveva creato e che non avrebbe potuto creare. Perché si era perso per le vie del mare, perché quando era davvero piccolo, d’età e di statura, si era perso per le strade di Londra. Il fatto strano era che non trovava più il dizionario di Cleasby, dove lo aveva messo? Era stato un buon compagno, anche se con un carattere un po’ difficile. Lo cercò sommariamente, lasciandosi la possibilità di trovarlo da qualche parte dove non aveva guardato. Quest’ultima cosa la fece per paura, per paura di non trovarlo definitivamente, che fosse un libro fantasma, che questa storia diventasse una storia di fantasmi. Così, chiuse nel pluriball i libri che aveva tradotto, li involse nella carta da pacchi e li legò con lo spago. Poi consegnò il pacco ad Andrea, quando questi arrivò con la barca della posta, ed inviò le traduzioni sulla e-mail del suo agente, pregandolo di non mandargli più libri per i successivi tre mesi.

Il suo agente lo accontentò, ma, nel pacco che giunse alla fine dell’embargo, c’era una busta rettangolare con un piccolo, grazioso logo in basso a destra nella parte chiusa, proprio sotto il suo indirizzo. Veniva da Trieste, dalla scuola per interpreti e traduttori, e sul francobollo c’era la faccia di Joyce da giovane. La lettera, ossequiosa e laconica, lo informava che la sua traduzione aveva vinto un premio e lo invitava a partecipare alla cerimonia di assegnazione. Onestamente sorpreso, sinceramente indifferente, rimise la lettera in busta e questa sotto alla brocca dell’acqua, che però aveva il fondo bagnato, e che perciò formò due umidi archi blu sulla carta celeste. L’acqua poi passò anche nella lettera e sfocò alcuni caratteri del testo. E questa sfocatura rimase anche quando la carta si asciugò. Non andò a Trieste, mandò una compita lettera con dei pretesti a cui nessuno avrebbe potuto dar credito. Scrisse però che era contento che fosse stato apprezzato il suo lavoro su un testo che aveva molto amato, il piccolo Gone Astray di Dickens.

Foto di Nico Grütter da Pixabay

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