Il ritorno dello scontro delle civiltà

di Giorgio Mascitelli

La guerra in Ucraina ha riportato in auge il concetto di scontro di civiltà che aveva conosciuto una sua prima fama negli anni novanta in occasione della definizione delle priorità della politica estera statunitense dopo la vittoria nella Guerra Fredda e l’emergere del fondamentalismo islamico. Il padre di questa nozione è stato il più importante teorico neocon del secondo Novecento Samuel Huntington, che la elaborò per smorzare gli entusiasmi della parte più liberal dell’amministrazione statunitense, incline a seguire le idee di Fukuyama sulla globalizzazione pacifica garantita dall’apertura al libero mercato che avrebbe arricchito tutti e portato a usare le istituzioni liberaldemocratiche in ogni angolo del mondo. La tesi di Huntington, ineffetti, sostiene che esistono nove civiltà nel mondo e ciascuna delle quali è incardinata su costanti culturali sostanzialmente immodificabili nel lungo periodo, quindi qualsiasi apertura a idee di un’altra civiltà e in particolare a quella occidentale si limita al prelievo di alcuni singoli aspetti, per esempio la tecnologia, che non modificano però la natura di fondo della civiltà, i suoi modelli organizzativi e in definitiva valori e aspirazioni. A conferma della sua tesi Huntington citava l’esempio della Turchia, nella quale era stato promosso da Ataturk in poi un salto di civiltà da quella islamica a quella occidentale, che però era sostanzialmente fallito.

Benché le fonti del concetto di scontro di civiltà  siano riconducibili al pensiero conservatore inglese del Settecento contrario all’universalismo illuminista della rivoluzione francese, al Burke che ai diritti dell’uomo dichiara di preferire quelli di un inglese, ritengo che con questo libro Huntington volesse occupare un ruolo analogo a quello giocato da Tacito nel dibattito imperiale romano con opere come l’Agricola o la Germania, nelle quali erano descritti i rischi potenziali, ideologici e pratici, per il primato dell’impero. Ovviamente una categoria come quella di scontro di civiltà è una categoria tipicamente imperialista proprio perché, eliminando dallo spazio del suo discorso la stessa  categoria di imperialismo, rivela la posizione ideologica e storicamente determinata di chi persegue un progetto di conquista considerando naturale l’espansionismo e non frutto di scelte politiche e della pressione di determinati modi di produzione.

Ora il fatto che questo concetto sia tornato alla ribalta con l’aggressione russa all’Ucraina in prima battuta non è particolarmente significativo. Esso potrebbe apparire, e in qualche misura è,  la riformulazione in termini più aggiornati di un classico argomento della propaganda antirussa ossia la Russia come paese dominato dal dispotismo asiatico che minaccia la civiltà europea: fu usato dagli anglofrancesi durante la guerra di Crimea, dai tedeschi in entrambe le guerre mondiali e da tutti con la rivoluzione russa. L’espressione letteraria più interessante di questo motivo la si trova in Insaziabilità dello scrittore polacco Witkiewicz, non a caso scritto durante gli anni di Pilsudski della quale epoca il romanzo riflette l’immaginario politico. Il ricorso odierno a tale tema è anche una tipica testimonianza di quell’anticomunismo senza comunisti che è uno dei fenomeni ideologici più costitutivi del nostro tempo, ma su cui non c’è spazio qui per soffermarsi.

In realtà l’imperialismo di Putin rientra in pieno nelle categorie e nella storia occidentali: basti pensare all’evento culturale che ha accompagnato l’invasione dell’Ucraina, ossia alla grande mostra pietroburghese su Pietro il Grande, cioè uno dei grandi zar occidentalisti, che vedeva nell’impero russo una delle potenze europee e appunto trasferiva la capitale più a Ovest nella nuova città fondata sul Baltico. E molti dettagli ci suggeriscono che fosse autentica la aspirazione putiniana di portare la Russia nella NATO. Anche la sua tesi sul fatto che gli ucraini e i russi siano in realtà lo stesso popolo e che l’indipendenza ucraina sia colpa di Lenin, che si è inventato questa strana storia delle nazionalità usata poi dagli stranieri contro la Santa Madre Russia, ha molte corrispondenze con esempi occidentali. A tal proposito vorrei ricordare un passo curioso di una conferenza di Milan Kundera del 1983 sul dominio sovietico sull’Europa centrorientale, che però Adelphi ha meritoriamente ripubblicato nel 2022 a suggerirne la sua attualità, dal titolo Un occidente prigioniero, nel quale, nel ricordare le varie nazionalità mitteleuropee che lottarono nell’Ottocento contro l’Impero austriaco per la loro sopravvivenza come comunità nazionale, lo scrittore omette di citare quella slovacca, pur elencando tutte le altre (“le lotte nazionali di polacchi, cechi, ungheresi, croati, sloveni, romeni, ebrei” op.cit. p.60). Infatti per molti cechi della generazione di Kundera, e di quelle precedenti, gli slovacchi non sono altro che dei cechi che si ostinano a chiamarsi in modo diverso.

Ma questa è per così dire la superficie della questione. L’aspetto più profondo del ricorso odierno al concetto di scontro di civiltà però può essere colto a partire dall’osservazione che nella situazione attuale esso è stato usato in prevalenza da liberal, desiderosi di mostrare che quella che si sta svolgendo in Ucraina è una guerra tra democrazia e autocrazia, ossia da quella cultura politica che, giusto venti o trent’anni fa, aveva avversato l’introduzione di questo concetto. Non credo che questo cambiamento sia dovuto a un ricorso strumentale a esso per giustificare alcune scelte attuali, ma a un’evoluzione politica autentica sempre all’interno di una coscienza ideologica imperialista: in altre parole sarebbe ritenuto più adatto alle necessità politiche e strategiche nell’attuale fase di guerra. Infatti la cultura politica liberal negli anni novanta aveva criticato questa nozione non in quanto imperialista, ma in nome di un’altra ideologia imperiale, quella che indicava negli Stati Uniti i garanti e promotori della legalità internazionale, che puniscono ed emarginano quegli stati canaglia che non accettano il nuovo ordinamento. In quel caso, minacciando gli stati canaglia la pace, diventa legittima la guerra preventiva contro di loro. Oggi semplicemente con equilibri di forza cambiati e perso parzialmente il controllo dei mercati internazionali, l’idea della legalità internazionale non serve più o meglio non è più sostenibile (da qui la critica di parte occidentale all’Onu), ma ci vuole un ritorno all’imperialismo classico. Questo però ci dice non solo che una fase, quella della globalizzazione si è chiusa, ma che si apre una fase di guerra protratta.

Il carattere ideologico e imperialista del concetto di scontro tra civiltà si coglie proprio nell’attribuzione all’imperialismo russo di caratteri radicalmente diversi dalla cultura occidentale, quando è facilissimo rintracciare anche in tempi recenti azioni, strategie e valori del tutto analoghi. In altre parole per spiegare il nazionalismo estremo che ha portato l’entourage putiniano a nutrire la delirante illusione di poter invadere un’Ucraina, controllata da milizie nazionaliste e preparata militarmente (come ha ricordato Merkel, la partecipazione francotedesca agli accordi di Minsk serviva solo a dar tempo agli ucraini di organizzarsi militarmente), senza rischi militari, in una sorta di riedizione dell’invasione della Cecoslovacchia, mandando le sue truppe impreparate incontro alla disfatta subita intorno a Kiev nei primi giorni di guerra, non occorre scomodare Stalin o Gengis Khan, ma basta guardare alle guerre dell’amministrazione Bush in Afghanistan e in Iraq. E’ indubbio che il ricorso al concetto di scontro di civiltà porta il vantaggio di offrire all’opinione pubblica degli occhiali rosa con cui guardare a qualsiasi iniziativa presa dagli Stati Uniti o dai suoi alleati anche in palese contraddizione con i principi liberaldemocratici dichiarati, come dimostra la sostanziale acquiescenza (o forse è più corretto scrivere complicità) all’eccidio di Gaza di questi mesi praticata dall’opinione pubblica liberal.

E, tuttavia, vi è un altro aspetto della guerra in Ucraina che viene a influire sulla concezione dello scontro di civiltà rispetto alla sua formulazione originaria: infatti uno degli aspetti centrali della strategia occidentale era l’affossamento economico della Russia, invischiata nella guerra, tramite sanzioni economiche particolarmente severe. Ora al termine del secondo anno di guerra l’economia europea langue o è in recessione, mentre quella russa ha ripreso a crescere. Questo significa non solo che la maggior parte del mondo non ha seguito Stati Uniti e Unione Europea nella sua lotta, ma che anche le sue classificazioni economiche (vale la pena di ricordare che il PIL della Russia è di poco superiore a quello della Spagna e dunque, secondo gli esperti occidentali, le sanzioni avrebbero dovuto essere devastanti) si stanno rivelando poco credibili per il resto del mondo.

Ora il concetto di scontro di civiltà permette all’opinione pubblica occidentale e occidentalista di andare oltre gli scacchi che la realtà le pone davanti chiudendosi in una sorta di riedizione in forma più transitoria e precaria della coscienza infelice. In questa variante però il piano astratto dell’ideale immutabile non è il mondo celeste, ma un’età dell’oro della globalizzazione, in cui la gente viveva pacificamente di libero mercato, dai tratti marcatamente fantastici, visto che fin dal primo momento la globalizzazione è stata accompagnata dal rombo dei carri armati e degli aeroplani di guerra. E’ chiaro che una costellazione morale del genere crea un terreno favorevole all’accettazione di qualsiasi tipo di avventura militare grazie alla coscienza di essere, sul piano astratto immutabile dell’ideale, dei pacifici difensori dei diritti dell’Uomo, costretti transitoriamente  a usare le maniere forti.

E’ quanto stiamo vedendo a Gaza in questi giorni. La rappresaglia, che ormai per dimensioni non ha più alcun rapporto con l’attacco di Hamas, serve palesemente solo a uccidere più palestinesi possibile per consentire al primo ministro israeliano di mantenere il proprio posto, incurante dell’incendio che sta propagando. Eppure la coscienza infelice occidentale può continuare a raffigurarsi come umanitaria grazie all’idea dello scontro di civiltà e questo è anche l’unico modo per non fare i conti con la disapprovazione del resto del mondo.

Si tratta di una crisi morale in quanto crisi della ragione. E sul piano individuale, oltre a constatarla, c’è ben poco da fare per non esserne coinvolti. Eppure in questo contesto l’analisi politica, la critica dell’ideologia e la lettura materialista dei motivi reali del conflitto, della terza guerra mondiale a pezzi come è stata appropriatamente definita, rifiutando ogni consonanza emotiva non rappresentano solo un barlume di razionalità, un tentativo di restare lucidi, ma anche una linea di condotta etica nel mantenere la barra dritta nella ricerca delle cause e delle responsabilità precise, che è anche un modo, in un mondo che si esprime ormai solo per iperboli, petizioni di principio e grida emotive destinate a giustificare il sangue che sta per essere versato, anzi l’unico modo forse di restare umani.

 

 

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5 Commenti

  1. Grazie Giorgio di questa analisi, a cui mi permetto di aggiungere due personali osservazioni.

    E ben vero che lo « scontro di civiltà » è tornato in auge non solo per giustificare l’impegno economico e militare occidentale in difesa dell’Ucraina, ma soprattutto per ridurre quello specifico conflitto allo schema più generale che vede coincidere l’Occidente con i valori della democrazia e dei diritti umani contro un mondo non-occidentale del tutto estraneo alla democrazia e ai suoi valori. Questa operazione, però, è del tutto simmetrica a quella ideologica che intellettuali russi come Dugin praticano, sostenendo il primato di una civiltà euroasiatica, dai valori diversi e “superiori” rispetto a quelli incarnati dal liberalismo statunitense. Anche questo costrutto ideologico ha ovviamente la sua base politica (l’ultranazionalismo russo e il Nazionalbolscevismo). D’altra parte, ci tengo a sottolineare che faccio parte di quella sinistra anticapitalista che considera la politica russa e la guerra in Ucraina come l’espressione di un’intenzione imperialista, che va condannata senza alcuna reticenza. Non è una caso che l’ideologia e la politica, promossa dal governo Putin dentro i confini delle Federazione Russa ancor prima che fuori, hanno riscosso prima delle guerra in Ucraina l’adesione di tutte le destre estreme europee (da Ataka in Bulgaria e Jobbik in Ungheria al Partito della Libertà Austriaco e Alba Dorata in Grecia, passando ovviamente per la Lega e Forza Nuova).

    Il punto importante che tu sollevi è comunque questo: “Oggi semplicemente con equilibri di forza cambiati e perso parzialmente il controllo dei mercati internazionali, l’idea della legalità internazionale non serve più o meglio non è più sostenibile (da qui la critica di parte occidentale all’Onu), ma ci vuole un ritorno all’imperialismo classico. Questo però ci dice non solo che una fase, quella della globalizzazione si è chiusa, ma che si apre una fase di guerra protratta.”
    Del tutto d’accordo. Poi non so quanto siano stati i mercati internazionali a determinare questo “abbandono” della legalità internazionale, ma di certo essa è frutto di tutta una serie di plateali scelte occidentali. Limitiamoci a citarne due: le false prove presentate nel 2003 da Colin Powell per giustificare l’invasione dell’Iraq che avvenne senza il mandato dell’ONU e l’intervento nel 2011 contro la Libia di Gheddafi, che avvenne secondo le norme del diritto internazionale “per proteggere le popolazioni civili” e si rivelò invece finalizzato a un mutamento di regime. Un diplomatico francese, Pierre Hazan, ricorda che questo è stato un punto di rottura specialmente con Cina e Russia, che si erano astenute dal votare contro all’Onu e si sono sentite completamente tradite dall’esito dell’intervento in Libia. Secondo Hazan, dopo il 2011 la Russia ha cessato di appoggiare qualsiasi iniziativa a sostegno del diritto internazionale, con le conseguenze che si sono poi viste nello scenario della guerra civile in Siria.

    Gli Usa e i suoi alleati europei non solo hanno progressivamente esibito strategie imperialiste senza maschera “umanitaria”, ma hanno anche legittimato le altre potenze mondiali a fare lo stesso. Questo fa sì che il mondo multipolare di oggi non cerchi di situarsi sul baricentro del diritto internazionale ma sui puri rapporti di forza. Cio’ però rende i margini retorici della propaganda occidentale ormai consunti e inservibili. Se l’aggressione russa dell’Ucraina permetteva di rimettere in auge lo scontro di civiltà, come tu ben hai evidenziato il sostegno al massacro della popolazione civile di Gaza, perpetrato dall’esercito israeliano, rende ormai ridicola ogni strumentalizzazione del diritto internazionale da parte degli occidentali.

    • Sul primo punto non ho nulla da aggiungere perché sono d’accordo. Sulla questione dei mercati internazionali: la teoria della legalità internazionale presupponeva una loro diffusione entro il quadro della globalizzazione guidato e garantito giuridicamente, politicamente ed economicamente dagli USA. Nel momento in cui emerge un secondo soggetto in grado per via economica di contendere il controllo dei mercati, cioè la Cina, la globalizzazione perde d’interesse per gli USA e infatti tutta una serie di mosse antiglobali vengono da loro e non dai cinesi. Oltre all’emergere della Cina la debolezza statunitense è dovuta al fatto che le turbolenze provocate da grandi gruppi finanziari privati che manovrano quantità di denaro nettamente superiori a quelle degli stati creano una situazione di crisi continua (di fatto quando sono arrivati covid e guerra non si era ancora usciti dalla crisi del 2008)

  2. In tutto questo, qualcuno, da qualche parte, sta lavorando a un pensiero della pace che sia sostenibile? Che non sia solamente “lasciateci lavorare”?

  3. Ritorno su uno dei punti chiave dell’intervento di Giorgio, e in qualche modo anche sulla domanda di Renata. Mi sono ripreso in mano quel libro straordinario e terrificante che è “Shock economy” di Naomi Klein, del 2007. Vi ricordate come s’intitola l’ultimo capitolo? Io lo avevo dimenticato: “Perdere l’incentivo alla pace. Israele come monito”. Il succo è questo. Non si fa la guerra perché la competizione economica mette qualcuno in difficoltà (perdita di mercati data la competizione globale), ma si perpetua uno stato di guerra a bassa intensità permanente perché distruzioni e ricostruzioni, tecnologie di sicurezza, e ovviamente le vecchie risorse non rinnovabili, permettono margini di profitto magnifici. Più c’è instabilità e guerra “globale”, più alcuni settori di punta delle industrie occidentali (statunitensi in testa) prosperano. Non è un mutamento da poco. Se questo è vero, significa che la guerra da mezzo diventa fine.

    Cito dalla Klein: “Quanto più le nostre società si fanno prendere dal panico, e si convincono che ci siano terroristi nascosti in ogni moschea, tanto più aumenta l’audience dei telegiornali; e il complesso riuscirà a vendere più strumenti per l’identificazione biometrica e la rilevazione di sostanze esplosive, e a costruire recinzioni ancora più tecnologiche. Se negli anni Novanta il sogno del “piccolo pianeta” aperto e senza frontiere, era la chiave per il profitto, nel nuovo millennio il suo posto è stato preso dall’incubo dei minacciosi e fortificati continenti occidentali, sotto assedio dei jihadisti e degli immigrati clandestini. L’unica minaccia per la fiorente economia dei disastri, da cui dipende tanta ricchezza – dalle armi al petrolio all’ingegneria ai brevetti sui farmaci – è la possibilità di ottenere un certo livello di stabilità climatica e di pace geopolitica”.

    In tutto questo, Klein analizza attentamente come il modello di riferimento insuperato dell’instabilità come condizione della prosperità economica (granzie a un’industria delle armi e delle tecnologie della sicurezza) sia proprio Israele.

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