Autopoesia
di Luigi Socci
Scrivo di me che scrivo una poesia
in cui ci sono io
che scrivo una poesia
in cui ci sono io
che scrivo una poesia
in cui ci sono io che scrivo
una poesia in cui scrivo
di me che (guarda caso)
mi scrivo una poesia
nella quale ci sono sempre io
che scrivo la medesima poesia
in cui c’è una persona (questa volta)
che scrive una poesia
che vede me come protagonista
che scrivo ancora la poesia di prima
nella quale ci sono più persone
che continuano a scrivere (attenzione)
quella stessa poesia
in cui c’è della gente
che scrive più poesie
(occhio alla variazione)
contemporaneamente.
La poesia di cui sopra
che non era finita (per la cronaca)
e di cui questa è la seconda strofa
contiene anche altra gente
che si è intrufolata autoinvitandosi
nella poesia che originariamente
non ne aveva previsto la presenza
(e con cui adesso bisogna fare i conti)
che però nel frattempo
ha scritto una poesia
in cui ci sono io
che mi ritrovo scritta una poesia
in cui di fatto mi ritrovo scritto
senza riuscire a uscirne.
Un prodotto finito una poesia
che si scrive da sola si consegna
fatta e finita in tutte le sue parti
senza fare fatica con un netto
risparmio delle ore necessarie
a scrivere questa benedetta poesia
in cui ci sono io
che scrivo una poesia malgrado tutto
servito e riverito nella quale
a mia insaputa sono stato iscritto
(con la tessera numero 178)
come scrittore di una poesia
in cui ci sono io stesso
che mi ritrovo stretto
pigiato nella calca
costretto a stare a stretto
contatto nello spazio ristretto
consentito dalla capienza della poesia
(che come si vede non è infinito)
gomito a gomito con quel manipolo
di imbucati che dice che è sua.
Qualcuno deve avermela
usucapita mentre ero distratto
e adesso può disporne
liberamente infatti me la buca
con lo spillo o col sigaro come càpita
me la rivolta contro
di me me la modifica
me la manipola me la edita
la infarcisce intenzionalmente di refusi
la straccia a striscioline
per farle fare brutte figure
le mangia le parole
le sillabe finali me l’azzoppa
non sta più in piedi e me la sgambetta
me la impesta con una puzza
tossica di busta di plastica
bruciata me la espunge
dalle ristampe successive
la correda di note a piè di pagina
per ancorarla al fondo
come una palla al piede me la esclude
dal canone perché non è canonica
la dota di una postfazione critica
che le entra dentro da dietro
e la critica.
Scrivo di me
che scrivo una poesia
(mentre gli altri si vanno a divertire)
in cui ci sono io
che scrivo una poesia
(in cui poi altri si divertiranno)
con me all’interno immerso fino al collo
a scrivermi da solo
una poesia in cui sono
per l’esattezza in cui ci sono stato
(e da cui intanto me ne sono andato)
a scrivere da solo una poesia
che è quasi un peccato che è mia.
*
Immagine: René Magritte, La reproduction interdite, 1937 (sito Museo Boijmans).
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