Ciao ciao Clarissa

di Francesca Ranza

Al Bar Brera sta seduta una giornalista bionda della tv. È piena così di botox e si fa i selfie con una bambinetta – sarà la figlia, è la figlia – di nome Clarissa. “Clarissa, Clarissaa, Clarissaaa!” la chiama per farla guardare in camera. A Clarissa non importa di uscire bene in foto e la giornalista è preoccupata, molto preoccupata: con questo atteggiamento menefreghista non andrà da nessuna parte. Clarissa è distratta, guarda per aria, guarda i piccioni, guarda il golden retriver di una spin doctor ricoperta di auricolari dalla testa ai piedi che si è accaparrata uno dei posti in prima fila e ha l’aria di essere lì già da almeno due ore. Clarissa allunga una manina verso il cane, quando le sono venute queste dita così tozze, pensa la giornalista con orrore. La strattona, mette il filtro gatto. “Dai sorridi, ho messo il filtro gatto.” La spin doctor si gira, guarda Clarissa un po’ così; non è che i bambini le piacciono tantissimo, e comunque avere un cane è già parecchio impegnativo. Non solo perché tocca spendere un patrimonio in cibo per il cane, baby sitter per il cane, impermeabili per il cane. Ma anche e soprattutto perché il cane è il correlativo oggettivo di un ragioniere di Varese, grande appassionato di lettini abbronzanti, cocaina e magliette con le scritte (“Non mettermi alla prova”, “Startup”, “Uomini forti, destini forti”), schivato come una palla di cannone e non senza spargimenti di sangue nell’inverno del 2017. Adesso lui gestisce un negozio di sigarette elettroniche. Guardare il cane (si chiama Thor, naturalmente si chiama Thor) è come guardare in un multiverso di cristallo. Uno in cui lei sa tutto di sigarette elettroniche e niente della vita, uno in cui la cocaina è solo grigina e grumosa e non la polvere di fata bianca, etero e cisgender che gira nei bagni di Montecitorio. Ma Thor, povera creatura, non c’entra niente con quel disgraziato (è stato lui a regalarglielo, chiuso, tappato in una scatola di cartone rossa col coperchio, al collo uno di quei fiocchi tondi che si mettono sugli specchietti delle macchine ai matrimoni). “Clarissa se vuoi accarezzarlo devi chiedere il permesso alla signorina,” sibila la giornalista. Ma Clarissa se ne frega. In un attimo è a terra a quattro zampe, la faccia spalmata contro quella pelosa e bavosa di Thor. Se non fosse che le è costata una vaginoplastica in Svizzera, se non fosse che ha visto quel testone bitorzoluto uscire da lei stessa e strillare prima ancora che fosse uscito tutto il resto, la giornalista si chiederebbe di chi è figlia questa cinquenne goffa, lagnosa, leggermente in sovrappeso, che si comporta come un vandalo, si rifiuta di imparare le buone maniere, ed è ancora del tutto ignara di che cosa e quanto pericolosi siano i germi, i batteri, i bacilli, i funghi e tutto il resto che si può tirare su da terra o dal pelo di un cane pure se si è in via Brera. Fa per gridarle qualcosa, tipo “Clarissa vieni via subito da lì”, o “Clarissa non lo vedi che stai disturbando” o “Clarissa! ” e basta, ma la spin doctor ha attaccato una skype call. “Andrea? Pronto?  …  Dov’è che sei?  …  E fa caldo lì? Senti qui si muore …  Pensavo di fare così: mandiamo lo stesso testo al sindaco e al prefetto. Mi sembra una buona… come si dice… sintesi! Una buona sintesi della situazione. … Anche per far vedere quello che abbiamo fatto, sennò sembriamo veramente inadempienti. …  Allora d’accordo.  …  Ciao, ciao, cià, cià, cià.” La giornalista scatta come un puma, è ora o mai più. È adesso che deve tirare fuori quella selvaggia da sotto al tavolo e sperare che non si sia già presa le pulci o peggio. Ma la spin doctor è più veloce. L’ha riconosciuta, le dice “ma dai, ma che piacere, ma che coincidenza”, le dice che la ammira tanto, proprio tanto, che si ricorda di quando stava in parlamento. Con chi è che era in parlamento? “Ah vedi, che bel percorso”, dice la spin doctor. La giornalista è caduta nella rete come un moschino: c’ha quegli occhi tutti stellanti che vengono solo quando ripensi a un periodo in cui ti piacevi almeno duemila volte di più di quanto ti piaci adesso. Fosse anche solo perché era prima del botox, della vaginoplastica e di Clarissa, che ormai è sparita completamente sotto al tavolo, e la si sente solo grufolare e fare conversazione col cane e dire cose da bambina ipersensibile tipo “bel cagnolone, bello, bello, come. sei. bello. Ti voglio bene!”.
“…sono ancora una donna di destra, ma adesso sono un po’ più liberale. E non ho nessunissimo problema ad ammetterlo, ci mancherebbe altro. Ti dico, anche da parlamentare, io sono sempre stata molto sincera. E molto diretta. Forse anche troppo.”
“Eh, ma essere sinceri in politica non è che…”

Ma appunto! Non paga, brava. Vedo che ci capiamo.” Clarissa, che a questo punto deve aver percepito una specie di vibrazione nella forza, un impercettibile calo ponderale nel livello di attenzione di sua madre per qualunque cosa stia combinando là sotto, sbuca fuori e scoppia in un pianto disperato. Spaesata, la spin doctor prova a chiudere il suo rituale di seduzione in fretta e furia. “Senti ma magari mi lasci il tuo numero? Così una volta…” Ma Clarissa sta gridando come un’ossessa, grida come se una banda di ragazzini in Fred Perry nera la stesse prendendo a calci di notte in un parchetto senza lampioni di Southwark. Grida che anche lei vuole un cane, che non è giusto, che lo vuole adesso, immediatamente. La giornalista prova a ignorarla ma è praticamente impossibile (certe cose a Brera sono un po’ più difficili da ignorare). “Guarda facciamo un’altra… CLARISSA! Clarissa piantala. Vieni, andiamo dal giornalaio, ti compro un…”

Ma certo, certo. Ciao ciao Clarissa, è stato un piacere conoscerti!”, tuba la spin doctor agitando la mano. Stupida bambina. Stupida bambina viziata e stupida.

*

Sul sedile dietro di una macchina blu coi vetri oscurati, Clarissa chiude gli occhi e sogna. Ma non dorme, quindi non sogna, ma le sembra di stare sognando. Nel sogno ci sono i cinque biscotti Digestive che ha mangiato stanotte in piedi, in mutande, di fronte al mobile bar di una stanza d’albergo brutta e gelida e identica spiccicata a tutte le altre che ha visto. Quante ore di corsa ci vogliono per bruciare le calorie di cinque biscotti Digestive? Clarissa non lo sa di preciso, ma devono essere almeno un milione di ore. Ci sono cinque uomini vestiti per bene – la giacca, la cravatta e tutto il resto – che escono dalla sua stanza in fila indiana. Le danno la buonanotte e sorridono, ma poi la lasciano lì sul letto, da sola. Ci sono le sue foto dappertutto su internet. Quando mi sono venute queste cosce così grosse pensa Clarissa con orrore. C’è Anne Sophie nel bagno delle femmine al liceo. Ha uno spazzolino da denti in mano, dice “per vomitare lo devi infilare in gola almeno fino a qui”. Ma Clarissa non impara mai a vomitare. C’è il prossimo albergo dove la porteranno. Spera che dentro ci sia una palestra, o almeno un vecchio tapis roulant, o almeno una sauna dove tapparsi a sudare via tutto. I sensi di colpa, i biscotti Digestive. Mica si può sudare via un biscotto. O sì? C’è uno – è alto e bello e la fa ridere e qualche volta le legge delle poesie – che non si trova più da nessuna parte. Sparito. Puf. Se si potessero sudare via i biscotti. Se lui ci fosse ancora. Il tizio che guida la macchina – potrebbe essere lo stesso di ieri, sì potrebbe – spegne il motore. “Siamo arrivati, Presidente” dice. Ma Clarissa non si muove.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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