Valore (sillabario della terra # 22)
di Giacomo Sartori
L’agricoltura ha sempre cercato i suoli migliori, e per gli arativi i coltivatori andavano a caccia delle terre più fertili e più soffici, con meno problemi possibili. A livello planetario non c’era di meglio di quelle delle grandi piane di sedimenti fini portati dal vento, il loess, presenti nell’Europa nord orientale, in Cina, nelle Grandi Pianure statunitensi e nella Pampa argentina. Generosamente dotate di elementi chimici, con una capacità di immagazzinare una notevole riserva di acqua, e facili da lavorare. Molte di queste zone privilegiate sono coltivate in modo intensivo da millenni, e hanno alimentato e reso possibili le grandi civilizzazioni. Ma anche tutte le piane alluvionali o di altro tipo, erano ambite, laddove non ci fosse un eccesso di acqua.
Le agricolture tradizionali sapevano però adattarsi anche alle situazioni meno fortunate, vale a dire alle terre in pendenza, e/o non molto profonde, pietrose, troppo argillose o troppo sabbiose, povere di elementi, mal drenate, e insomma per qualche motivo problematiche. Questi sono la grandissima maggioranza, e anche adesso nutrono, lo si dimentica sempre, la maggior parte della popolazione mondiale. Lo facevano adeguando tecniche colturali e varietà vegetali impiegate alle specificità dei vari angoletti dei differenti territori, e ai loro suoli, escogitando soluzioni puntuali. Se per esempio le superfici erano troppo pendenti, si costruivano terrazzamenti sostenuti da muretti a secco, in modo da ottenere, recuperando la terra buona, minuscole pianure artificiali. Se erano troppo magre si portava ogni anno molto letame, o si privilegiavano specie poco esigenti, se c’erano troppe pietre le si riunivano in mucchi o strisce, e via dicendo.
Le cose sono cambiate radicalmente con la meccanizzazione, perché i mezzi agricoli non possono lavorare bene nei campi troppo piccoli, o troppo in pendenza, troppo pietrosi. Questi si trovavano quindi impossibilitati a salire sul carro dell’epocale rivolgimento, e nel giro di pochi decenni sono stati tagliati fuori dal nuovo corso. Anche per un altro motivo: la selezione genetica che ha accompagnato il dilagare delle macchine sfornava varietà vegetali molto produttive, ma calibrate solo per le situazioni migliori. Dove i terreni erano poverelli, o siccitosi, queste stesse si rivelavano un completo fallimento. Una fuoriserie superveloce entra subito in crisi, su una stradina di montagna, dove un vecchio macinino robusto e facile da riparare si rivela invece un portento.
Di fatto l’agricoltura industriale considera buoni i suoli che permettono di dare grasse produzioni con le tecniche che impiega, uguali dappertutto, che considera le uniche possibili. Non importa che essi abbiano grosse limitazioni, se queste possono essere corrette con i potenti mezzi di cui dispone, e in particolare con la sua arma più micidiale, i composti chimici. Questi sono nello stesso tempo la cura e l’elemento aggravante, perché permettono di nascondere temporaneamente i danni fatti, pur fiaccando le terre. E poco importa che i rimedi richiedano molta energia di origine fossile, l’essenziale è che nei tempi brevi i guadagni superino i costi. Fino a poco fa i combustibili non costavano nulla, nessuno si dava pensiero per limitarne l’impiego. Nelle derrate agricole confluivano, senza che nessuno ci facesse caso, fiumi di petrolio.
C’è da spianare una serie di collinette che impediscono di avere enormi campi ben geometrici? Si spianano, poco importa se gli ottimi suoli che le foderano ci hanno messo quindicimila o duecentomila anni per formarsi. Bisogna creare un impianto di irrigazione per dei suoli capaci di trattenere pochissima acqua, in modo da poter coltivare specie che sono molto esigenti dal punto di vista idrico? Si crea, se queste sono pagate bene. Anche pompando l’acqua da un livello topografico ben inferiore, o da una falda che non può permetterselo, l’importante è che affluiscano i quattrini. Per la loro natura i terreni non possono trattenere gli elementi minerali? Si continua a fornirglieli, come riempiendo un barile senza fondo, poco importa che questi finiscano a inquinare falde e acque superficiali. Bisogna rasciugare una valletta umida con specie vegetali rare e una notevole ricchezza animale? Si rasciuga.
Quando invece l’agricoltura della chimica non ha soluzioni, le terre sono considerate inette, e perdono qualsiasi attrattiva. Le sue grandi macchine non possono per esempio utilizzare i suoli dei terrazzamenti, e quindi per lei queste superfici non valgono niente. Non conta nulla che siano ottime per certe colture, e siano essenziali per la conservazione del paesaggio e la sua bellezza: i muri vengono lasciati cadere, si lasciano impazzare i rovi e i franamenti. La Liguria fa scuola. Quello che dirime è solo il bilancio benefici e costi, senza conteggiare le perdite ambientali e quelli delle misure di ripristino, quando sono possibili, che prima o dopo si renderanno necessarie. Senza conteggiare il capitale naturale dei suoli, che viene dilapidato fino a esaurimento.
Questo avanzare da rullo compressore, incapace di venire a patti con le specificità locali, a cominciare dalle caratteristiche dei suoli, ha portato a una drammatica divaricazione geografica. Da una parte ci sono le zone pianeggianti sempre più meccanizzate e più produttive, e dall’altra quelle recalcitranti, che a meno di non trovare una loro nicchia altamente specializzata e con un mercato disponibile (viticoltura di qualità, serre…), sopravvivono subendo danni ancora più grossi di quelli della pianura, vista la loro fragilità, o vengono abbandonate. Da una parte le aree di pieno successo, e dall’altra quelle perdenti o escluse, come si deve in epoca neoliberale. Con la sua prevalenza di superfici agrarie in pendenza, che sono state in larga parte maltrattate e poi lasciate andare in malora, come si gettano nei rifiuti dei resti senza valore, l’Italia è un esempio paradigmatico. Un terzo dei nostri terreni considerati coltivabili non sono attualmente coltivati.
Il metro attuale per giudicare la bontà della terra è insomma quello dell’agricoltura industriale, che ha bisogno di vastissime superfici, poco inclinate, meglio ancora perfettamente orizzontali, molto uniformi, non pietrose, senza alberi o cespugli o muretti che rompono i coglioni alle macchine. In genere le doti organolettiche e qualitative dei prodotti sono molto basse, ma di questo lei non se ne cura, pensa alle tonnellate. Ignora che i suoli che lei disdegna possono essere ottimi, e ben vocati per determinate colture di qualità o determinate pratiche.
Che senso ha far correre come forsennate – a suon di sovvenzioni – una parte delle terre, le velociste, nascondendosi i costi energetici e ambientali, per lasciare che le terre meno dotate, le quali potrebbero dare il loro contributo, vadano al diavolo, assieme ai loro paesaggi, e alle persone che ci vivono sopra e hanno bisogno di cibarsi? La fame che imperversa in tanti Paesi poveri, è un fenomeno prevalentemente rurale, legato a queste realtà svantaggiate, non a quelle più fortunate. Può essere eliminata solo lavorando su soluzioni locali.
Pensiamo un attimo alle terre dei vigneti. Sostanzialmente i vini buoni vogliono suoli pessimi, se si adotta il metro dell’agricoltura industriale. Tutti vengono da terre con una o più grosse magagne: pietrose, o troppo superficiali, poverissime, squilibrate, con pendenze anche proibitive. Terre con difetti che non si possono correggere, e che per qualsiasi altra coltura non varrebbero un soldo. Se non fosse appunto per i vini magnifici che sanno dare, come quegli artisti ben poco prestanti o malaticci, e forse anche per questo pregnanti, che sfornano capolavori. In questo caso si pone al centro la qualità, non la quantità.
È davvero così utopico immaginarsi modi di coltivare in sintonia con i vari terreni e proprio per questo attenti al portato ambientale e ecologico, miranti alla qualità sanitaria e organolettica degli alimenti, a sfamare tutti gli esseri umani? Perché produrre troppe derrate di cattiva qualità, per poi sprecarne – come è implicito nell’approccio solo quantitativo e mercantile – una grossa fetta, per la precisione un terzo? Davvero non siamo capaci di affrontare il problema delle derrate agricole e dell’alimentazione mediando quantità e qualità?
Davvero dobbiamo rassegnarsi che una persona su dieci non abbia abbastanza da mangiare, tre su dieci non abbiano la sicurezza di potersi alimentare, quattro su dieci non abbiano i mezzi per alimentarsi in maniera sana, tre su dieci (cinque su dieci nel 2035) siano sovrappeso o obesi? Le terre, quelle superdotate e quelle più limitate, tutte egualmente preziose, potrebbero contribuire, tutte assieme, a fornire alimenti diversificati, sani e buoni, invece che a ingaggiare sfide per record di produzione del pugno di vegetali al quale si è affidato il quasi monopolio alimentare, distruggendo la fondamentale biodiversità e la resilienza a essa legata. Tanto per cominciare sbarazziamoci dei metri attuali che definiscono il valore delle terre, che sono quelli della logica estrattiva/distruttiva. E accettiamo che queste abbiano anche difetti e pecche, e facciano quello che possono, come noi umani.
(l’immagine: Curzola, Croazia, 2013)