Parlare col culo
di Daniela Besozzi
Sono una persona volgare. Dico cazzo, vaffanculo e bestemmio la madre del cristo. La mia bocca è come un buco di culo, quando serve esce merda.
Daniela ironizzava spesso sull’ipotesi che io fossi affetta dalla sindrome di Tourette, ma io vi giuro che la mia mente è sana. La ricerca scientifica congettura che la coprolalia sia un indizio di sincerità. Di fatto, l’assoluta verità sugli eventi precedenti e successivi allo stupro è l’unica cosa che avrete da me. Di come progettai l’omicidio, invece, vi dirò ben poco.
Conobbi Daniela il terzo giorno del terzo mese del millenovecentonovantatrè. Zero-tre zero-tre uno-nove-nove-tre. Facile ricordare una data così se sei una matematica. Anche Daniela lo era. O meglio, voleva diventarlo.
Noi matematici classifichiamo il mondo in base al numero di buchi. Se sei un bicchiere, hai zero buchi: ciò che entra, resta. Se sei una ciambella, hai un buco e ci puoi infilare il dito che, come entra, così esce. Se sei un essere umano, il tuo buco è quello che crea continuità fra ciò che entra dalla tua bocca ed esce dal tuo culo. Nel caso dell’essere umano, però, ciò che esce non è uguale a ciò che entra. Nel caso dell’essere umano, a volte, ciò che entra non esce più. Ho una invidia fottuta per quelle specie di ctenofori che non hanno l’ano collegato alla cavità orale e possono cagare da qualsiasi punto del corpo. Una gran comodità, io credo, quando hai molto da dire.
Luca, di parole, ne diceva poche. Lui era un pragmatico. Lui era il misterioso, il noncurante, l’impenetrabile. Luca, l’orfanello cresciuto dagli zii. Luca, il grandissimo figlio di puttana.
Il terzo giorno del terzo mese del millenovecentonovantatrè, Daniela e io ci trovammo per caso a condividere lo stesso tavolo nella biblioteca comunale. L’una accanto all’altra la mia e la sua copia del Kosniowski, l’unico testo universitario con la copertina arancione. A che anno sei? Al terzo, e tu? Io al secondo. Ciao, mi chiamo Daniela. Anche io.
Daniela era il mio esatto contrario, tutto ciò che non avrei mai potuto essere. Io, capelli corti tagliati a cazzo, il seno piatto indossato nudo sotto maglioni sformati, la magrezza sulle ossa. Lei, l’equazione perfetta della femminilità: un alternarsi di convessità e concavità che iniziavano dai boccoli e proseguivano sulle spalle, scendevano dalle labbra al seno decisamente troppo generoso, e culminavano in un fondoschiena così rotondo e pieno da far sembrare Giotto un qualunque principiante.
Iniziammo a studiare insieme ogni pomeriggio. Passavo a prenderla a casa, citofonavo, scendeva, la sfottevo per le stragi di fiorellini o di pois sparpagliati sui suoi vestiti come sequenze di Sobol, e ci incamminavamo verso la biblioteca. Il venerdì ci accompagnava suo fratello, che era all’ultimo anno di chimica e un adorabile stronzo. Elio ci chiamava la Thelma e Louise di Como. Vi manca solo la Ford Thunderbird, diceva. Ma a noi bastava il nostro tavolo in biblioteca, i nostri libri, la nostra matematica, le sue curve e le mie superfici piane. Alla fine del quarto mese del millenovecentonovantatrè, Daniela aveva rubato il mio cuore e io la sua matita.
Ma tu lo conosci? Abbastanza per dirti che è meglio evitarlo. Ma sai cosa studia? Ingegneria gestionale, il classico figlio di papà. Ma è vero che ha perso entrambi i genitori quando era piccolo?, deve avere avuto una vita difficile, poverino. Difficile un cazzo, è un Taiana, sono pieni di soldi quelli. Ma tu non lo trovi bello? Dani, dammi retta, stagli lontano. Ma ogni tanto mi guarda. Dani, qui tutti ti guardano, hai due tette sparate sul mondo e un culo che è un inno alla gioia, quello vuole solo scoparti. Ma come fai a essere sempre così, non pensi che anche i ragazzi abbiano voglia di parlarci, con noi ragazze, di camminare mano nella mano, di essere abbracciati? Non riesci proprio a prendere in considerazione che siano capaci di provare amore? Come no, vedrai che quando usciamo da qui troviamo pure il cavallo bianco del tuo principino che pascola nel giardino della biblioteca.
Non sono mai riuscita a capire come Daniela conciliasse il suo schifoso romanticismo con il mio, a suo dire insopportabile, cinismo. Ipotizzo, ma non dimostro, che ognuna di noi avesse bisogno di sentirsi dire dall’altra ciò che non era in grado di pensare, e tanto meno di vivere.
Il quinto mese del millenovecentonovantatrè fu piovoso, la biblioteca si trasformò nella tana di chi voleva studiare e di chi avrebbe preferito farne a meno ma pensava fosse meglio andare a caccia di figa piuttosto che bagnarsi. Il figlio di puttana diventò un assiduo. Io lo guardavo con diffidenza, Daniela con troppa attenzione.
Ciao, Besozzi. Ciao, Taiana. Tu studi matematica, vero?, ho un problema con gli integrali di Itō, se non passo l’esame di matematica finanziaria mi salta l’Erasmus, mi dai qualche dritta? Posso aiutarti io, se vuoi, sto preparando istituzioni di analisi superiore, il calcolo differenziale stocastico non è difficile come sembra. Matematica anche tu, quindi?, grazie, saresti un angelo, mi chiamo Luca. Io sono Daniela, felice di conoscerti.
Il sesto mese del millenovecentonovantatrè l’orfanello sferrò il primo attacco. È stato incredibile, Dani, è stato tutto così romantico da sembrare un sogno. È venuto a prendermi dopo le cinque, era elegantissimo, mi ha dato un bacio sulla guancia, mi ha aperto lo sportello dell’auto, si è seduto al posto di guida e mi ha sorriso. Pronta?, ti porto in un posto speciale. Ho parlato per tutto il tragitto, c’era una luce bellissima nel cielo e nessuna traccia del temporale previsto dal meteo. Mi ha portato in una zona dove non ero mai stata, poco fuori dalla città. Ti sarebbe piaciuta moltissimo, c’era tanto verde, prati, un piccolo bosco. Era tutto così bucolico che quando ha parcheggiato ho temuto mi avesse portato in camporella, e mi venivi in mente tu con i tuoi stai attenta e non fidarti. E invece è sceso, mi ha di nuovo aperto lo sportello, mi ha teso la mano perché la stradina era sterrata e io avevo i tacchi, mi ha detto appoggiati a me, mi ha detto ti tengo. Ci siamo incamminati verso il bosco, finalmente l’avevo accanto, mi stringevo al suo braccio, Dio che profumo aveva. Alla fine della strada c’era un cancello, ci credi che il bosco è una proprietà privata dei Taiana? Ha aperto il lucchetto che serrava la catena e mi ha detto che mancava poco, che non c’erano pericoli. Quindi qualche parola l’ha detta pure lui questa volta?, si è degnato di esporsi con te, l’agnellino di dio. In effetti non è un chiacchierone, ma quando siamo sbucati dall’altra parte del boschetto è mancata la voce anche a me. Dani, sembrava di essere dentro un film: c’era una casetta di legno e un laghetto con una coppia di cigni, fiori di ninfea e cespugli di giunchi tutt’intorno. E magari siete arrivati lì proprio al tramonto, eh?, sa giocarsi bene le sue carte l’orfanello, strano che non abbia fatto comparire pure gli unicorni. No, credimi, è stato tutto perfetto. Mi ha detto che non aveva mai portato nessuna ragazza lì, che quello era il posto preferito di sua madre. Non è come dici tu, sai?, è un ragazzo molto dolce.
Era davvero raggiante, cristo santo. Ma per cosa poi?, un paio di gesti gentili dell’orfanello, qualche parolina elargita al momento giusto, e una buona dose di scattering di Rayleigh a scomporre le lunghezze d’onda della luce nel cielo. Il tramonto è il peggiore inganno della natura per i romantici, si sa. Ma Daniela era una sognatrice, e io non ci potevo fare un cazzo. Quel giorno aveva un sorriso che le spaccava il viso. Mi buttò le braccia al collo. La tenni stretta, non volevo lasciarla andare. Daniela, sono felice se lo sei tu, ma fammi una promessa: stai attenta, non ci si può fidare di un senza madre.
All’inizio del settimo mese del millenovecentonovantatrè, trovai Elio ad aspettarmi all’uscita della biblioteca. Sua sorella non usciva di casa da tre settimane. La voce della madre al citofono mi riferiva che Daniela non si sentiva bene. Citofonai ogni giorno della prima settimana. No, Daniela oggi non viene in biblioteca. Citofonai ogni santo giorno della seconda settimana. Mi dispiace, Daniela, non se la sente ancora di uscire. La terza settimana chiesi di poter salire, vederla, con la scusa di portarle i testi per gli esami. Niente da fare, Daniela era inaccessibile. Feci quindi l’unica cosa che sapevo fare ogni volta che la vita mi girava storta: mi impadronii del nostro tavolo in biblioteca e mi misi a studiare senza tregua. Il figlio di puttana intanto era partito per Londra, per i suoi tre mesetti di figa gratis spesati dalla comunità europea.
Mi ha chiesto di portarti questo. Il Kosniowski?, io ce l’ho già, perché vuole darmi la sua copia? Ma che ne so, non ci capisco più un cazzo di mia sorella, non sembra più lei, non studia più, qualche giorno fa ho addirittura trovato un libro nel cestino, roba di calcolo stocastico o qualcosa del genere, le pagine tutte strappate. Ma cosa cristo le è successo?, non vuole nemmeno vedermi. Non lo so, non parla, se ne sta chiusa in camera sua tutto il giorno, ci ha svegliato in piena notte urlando già tre o quattro volte, ha pure pisciato nel letto, mi fa venire i brividi, cazzo. Quando ha iniziato a stare male ho pensato che le fosse venuta una crisi d’ansia per gli esami, ma non è da lei, non ha mai saltato una sessione in tre anni. Mia madre è in palla totale, io di giorno devo andare in laboratorio per finire la tesi, quando rientro la sera sono messe una peggio dell’altra, mi tocca fare da fratello, figlio, padre e pure marito, non ce la faccio più. Con te parlava, Louise, non è che è successo qualcosa all’università?
Il secondo giorno dell’undicesimo mese del millenovecentonovantatrè, che sia gloria a tutti i santissimi morti, nella mia bocca entrò la lingua di Luca. L’avevo incrociato fuori da un’aula, lui aveva fatto finta di non vedermi, io ero andata dritta nella sua direzione. Un cenno con la testa, come a dire ciao, come non fossi degna di sentire la sua voce, come fossi un qualsiasi togliti dal cazzo. Di rimando, avevo sfoggiato il migliore dei miei sorrisi. Bentornato, com’è andato l’Erasmus? Mah, niente di che, però Londra è il massimo. Qui che si dice, invece? Senti, Taiana, andiamo al sodo, che a nessuno dei due piace perdere tempo. Mi dicono che ti arriva roba buona, ho bisogno di una botta per star dietro alle lezioni, se tu pensi al fumo io porto da bere.
Mi portò al laghetto, nella casetta di legno tirai fuori la bottiglia di Gordon’s. Lui si fece un Last Word, io il gin lo bevo liscio. Sbriciolò l’hashish, rollò la prima canna, fece un paio di tiri e me la passò. Io fumo fuori, Taiana, voglio vedere le stelle, tu fattene un’altra. Camminai sul prato, fino all’acqua nera, e ci buttai dentro quella merda. Mica sono così scema da sputtanarmi i neuroni, io ci voglio campare con la matematica. Lo ritrovai sdraiato sul divano, il bicchiere vuoto posato per terra, la canna fra le labbra, gli occhi due fessure da bestia ubriaca. Gli girai le spalle, frugai rapida nella borsa e presi il necessario. Non ti facevo così, Besozzi, sembravi la solita secchiona stronza e cagacazzi. Beh, in effetti lo sono, e quindi?, facciamo invece che ti riempio il bicchiere, che stai parlando pure troppo per i miei gusti. Se non vuoi sentirmi, stronzetta, tappami la bocca.
E così feci. Lo raggiunsi sul divano, mi sedetti a cavalcioni su di lui, posai il bicchiere sul suo petto e gli misi la mano sinistra intorno al collo. Adesso ti fotto, Taiana, come mai nessuna. Gli slacciai la cintura, il bottone e la cerniera dei jeans. Aveva già il cazzo duro. Presi il bicchiere e lasciai scendere nella mia bocca un sorso del suo gin, me ne colò un po’ sul collo. Mi afferrò per le spalle e mi tirò contro la sua faccia. Quello era mio, stronzetta, ridammelo. Lo vuoi tutto così, dalla mia bocca nella tua bocca, un sorso dopo l’altro, mentre ti stringo il cazzo fino a fartelo esplodere?
Mi tolsi le scarpe, i jeans e le mutande. Lo presi per un braccio e lo trascinai per terra, sbatté la faccia sul pavimento, non disse nulla. Fu tutto piuttosto veloce, mi bastarono pochi minuti per mettere il figlio di puttana nella posizione giusta e prepararmi a parlare. Quando sentii lo spasmo, mi accucciai sopra la sua faccia, gli spalancai la bocca e ci cagai dentro. Usai le mutande per pulirmi il culo alla meno peggio, e gli cacciai in bocca pure quelle. Sciacquai i bicchieri e me ne andai.
Riuscii a incontrare Daniela durante le vacanze di Natale, un giorno che sua madre era andata a far visita a dei parenti. Fu Elio ad aprirmi la porta. Mi aveva avvisato, ma mi paralizzai vedendola. Si era rasata i capelli, era magra come un deportato.
Ti ho riportato il Kosnioswki, Dani. Ho letto tutto.
Si mise a piangere. Si afflosciò sul pavimento. Mi accucciai di fianco a lei e la abbracciai e la lasciai piangere e le baciai la fronte e le accarezzai la testa e ingoiai in silenzio tutta la merda che avevo sul cuore. Restammo così per un’ora, forse due. Il pavimento di marmo era freddo come una tomba. Tremavo. Elio si sedette accanto a noi, con due calici di spumante. Venite qui, una a destra e una a sinistra, che quando mi ricapita di abbracciare due Daniela in una volta sola. Sei pronta, Thelma? Mi strinse la mano. Non si torna indietro, Louise. Le fu sufficiente un sorso.
Il figlio della madonna puttana si trasferì a New York a gennaio. Di lui non so più nulla.