“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #2
[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi sono di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto sono apparsi qui. I due nuovi interventi sono a firma di Stefano Modeo e Tommaso Di Dio. a. i.]
Nostalgia, antimemoria del futuro
di Stefano Modeo
Tempo fa a Bologna, al termine della presentazione del suo L’indifferenza naturale (Marcos y Marcos 2019), dopo aver discusso a lungo di luoghi, chiesi ingenuamente e con una certa vaghezza a Italo Testa quale fosse il tempo a cui quella raccolta faceva riferimento. Un tempo inteso anche come luogo da abitare o da costruire, a cui tendere o immaginare. Non sapevo allora, ma avevo percepito che la sua poesia avesse a che fare con la possibilità, con la lecita pretesa di autorizzare una speranza. Versi come: «[…] tutto è pronto, il sentiero è spianato, / il cancello divelto tra i pali, / noi aspettiamo, non resta che questo, / con la falce nel pugno in silenzio / aspettiamo che venga domani.» mi avevano suggerito quella domanda, versi nei quali l’attesa faceva risuonare la stagnazione del presente, l’impasse onnipervasivo oltre il quale non c’era (e non c’è?) alternativa, idea di futuribile e a cui il poeta rispondeva con una presa d’atto: non resta che aspettare, «non resta che questo». Nel frattempo due dibattiti intrecciati l’uno con l’altro, in Italia e in Europa, prendevano sempre più piede: la questione ecologica e la gentrificazione e mercificazione delle città. Circa un anno dopo così, riproposi quella domanda a Italo Testa, in forma più articolata, in un’intervista che uscì sul n.96 della rivista Atelier e su Nazione Indiana sul tema Poesia&città. Nella risposta, inserita e ampliata nel saggio Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Testa a proposito della funzione della poesia scrive:
Questo è il perimetro del tempo in cui oggi la poesia viene al mondo. Eppure, la poesia si legittima se è in grado di esprimere una resistenza e una differenza dell’immaginario, una fenditura del presente, ricordandoci una diversa memoria, un’antimemoria del futuro. Oggi tendiamo ad identificare, per usare due categorie di Luhmann, il ʻʻfuturo presente’ʼ – il futuro per come ce lo rappresentiamo – e il ‘ʻpresente futuro’ʼ – ciò che tendiamo a divenire, che sarà domani, il versodove per cui ci incamminiamo oscuramente. Non sappiamo verso quale mattino si muova il mondo, ma in fondo, come scriveva Paul Celan nei suoi appunti per Der Meridian, «les jeux ne sont pas encore faits» è il «pensiero centrale» che «accompagna qualunque intenzione poetica». Noi soffriamo di determinatezza, crediamo di vivere nella gabbia d’acciaio di un presente senza confini ma iperreale nei suoi dettagli determinati, in nicchie virtuali che ci isolano dagli altri, in una bolla temporale che ci separa da un futuro possibile. Ma tra le possibilità della poesia, e di ciò che chiamavamo letteratura, c’è quella di ricordarci lo scarto tra presente futuro e futuro presente – l’inesauribilità del primo da parte del secondo – gli aspetti di latenza, e indeterminatezza, delle nostre traiettorie, la vaghezza del presente e gli spazi possibili, divergenti, dell’immaginario e del paesaggio sociale. Le nicchie sono immaginari in inverno, ibernati, la bolla del presente è solo una bolla, e può essere soffiata via.
Antimemoria del futuro, ma come si costruisce, come si mette in pratica questa parola che suona quasi un controsenso? Per provare a dare un’interpretazione di questo concetto, dovrò necessariamente partire dalla mia esperienza personale.
Io sono nato in una delle città più inquinate d’Europa in cui il problema del futuro, di immaginare un’alternativa a quella desolante realtà è ancora oggi una questione irrisolta. Ho vissuto lì per ventisei anni, poi sono andato via, come molti, troppi, un’infinità di persone. Quando si parte, si abbandona un luogo per molto tempo, forse per sempre, inizia per ogni uomo la grande questione dell’identità: chi siamo? Quali differenze portiamo? E perché? Cosa ci divide dal luogo in cui siamo e da quello che abbiamo lasciato? Allora per trovare delle risposte ci si può fare più vicini ai classici: si capisce perché Ulisse piange sulla spiaggia di Calipso; perché Itaca occupata merita una liberazione; la disperazione di Telemaco; il grande viaggio di Abramo per raggiungere una terra; il mare, il cammino. Si cerca nel passato, nelle voci degli altri, la nostra. Quello che ci divide è certamente un dolore, talvolta è nostalgia, qualcosa che ferisce, un’idea originaria di noi stessi nel mondo che non c’è più. Oppure è la nostra assenza: mancare sempre. Oppure ancora è il sentirsi stranieri ovunque, anche quando si torna. Mi sono interrogato a lungo su questo sradicamento, sul dolore che può nascere dalla perdita di una comunità in cui ti riconosci, in cui comprendi gli spazi, la loro significazione, gli sguardi della gente, i rumori, i sotterfugi, le contraddizioni. Soprattutto, mi sono interrogato a lungo su cosa possa significare tornare indietro.
Mi viene in mente la storia raccontata da Ernesto De Martino in La fine del mondo quando una volta, lungo una strada in Calabria, mentre stava guidando, chiese a un vecchio pastore indicazioni su un bivio che stava cercando. De Martino racconta che, poiché le spiegazioni del pastore erano poco chiare, gli propose di accompagnarlo in macchina fino al bivio e poi riportarlo al punto iniziale. Il vecchio pastore accettò con diffidenza e durante il viaggio cominciò ad osservare in modo agitato fuori dal finestrino, alla ricerca di qualcosa di importante. Improvvisamente esclamò: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo più!». Il campanile di quel villaggio infatti non era più visibile all’orizzonte. Di conseguenza, non fu possibile proseguire con il pastore e fu necessario riportarlo al punto di partenza dove salutò con gioia il ritorno del campanile smarrito. Questa sparizione, spiega De Martino, evidentemente sconvolse il mondo familiare del pastore, il suo spazio domestico. Per lui, la scomparsa rappresentava un’angosciante perdita della propria patria culturale.
Se vogliamo, questa condizione di sradicamento e spaesamento, in una società frammentata e omologata, fatta di individui e sempre meno di comunità e in cui è in atto un vero e proprio assalto alla memoria, su diversi livelli vale sempre.
In un certo senso si è costantemente orfani di qualcosa e questa condizione irrisolta genera un nomadismo disperato, per cui si cerca di rintracciare costantemente espressioni di quella comunità, di quei luoghi o di una minima e residuale patria culturale nell’altrove in cui si è stati precipitati.
Tuttavia ciò che è distante o perduto si può ricostruire costantemente su piani immaginari, si può contaminare ed espandere. E proprio su questi piani immaginari in cui si alternano malinconia, gioia del ritorno, nostalgia, si può costituire anche una coscienza, come presa di parte, scelta di legame e difesa ancora più forte di ciò che ci è stato sottratto. Scrive Leopardi nel suo Zibaldone:
Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s’ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un’usanza, un metodo di vita. […] La cagione di questi sentimenti, è quell’infinito che contiene in se stesso l’idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non v’è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più.
Un giorno Paolo Febbraro mi disse: «La nostalgia per ciò che sparisce deve e può modellare il nuovo mondo, perché altrimenti questo mondo non sarebbe nuovo, ma fingerebbe di essere l’unico». È infatti attraverso la perdita di un mondo, dal dolore che ne scaturisce, che ci si proietta in avanti, nel futuro. Non nella restaurazione, bensì nella costruzione. Qui avviene anche la poesia. Negli anni mi sono reso conto che nei versi ho provato a restituire un mondo che avevo perduto, creandone uno nuovo. Con la poesia si afferma in noi una quasi verità, una percezione di raggiungibilità o di avvicinamento a quel luogo, che è appunto il luogo della verità, con cui facciamo i conti con noi stessi e non solo, in cui si scontra o si accarezza la memoria e il nostro desiderio di conservazione, di sopravvivenza, di autodistruzione, estinzione o miglioramento. Ma si tratta di una quasi verità, questo non bisogna scordarlo, un luogo annebbiato e dagli incerti contorni, un luogo che rimanda ad altri mille luoghi, uno specchio infranto. La poesia – che è forma della mente – è dunque anche antimemoria del futuro e si trova in fondo all’«ombelico dei sogni» per citare Freud e un libro recente di Vittorio Lingiardi. Ma proprio perché parliamo di ombelico sappiamo che alla sua origine c’è un taglio, una separazione, un trauma che lo genera. È necessario innanzitutto generare o, in altri casi, risalire, ripercorrere questa origine, questo taglio per raggiungere la poesia. Nella Teogonia di Esiodo, Gea dà alla luce il Cielo stellato (Ouranòs asteróeis) affinché possa coprirla e fungere da dimora per gli dei. Dalla loro unione nascono i Titani, tra cui Crono che, guidato da Gea, taglia i genitali di suo padre Ouranós con una falce. Questo atto permette a Cielo e Terra di separarsi. Il Cielo diventa distante e inaccessibile, si fa vuoto, distesa di assenza. Al cielo si rivolgono i desideri: guardando l’infinito cielo stellato, l’uomo sperimenta una mancanza ma anche l’aspirazione verso l’alto, incarnando il movimento del desiderio e dell’elevarsi partendo dal proprio limite terreno.
Concludendo: nel tempo in cui scrivo questa nota non sono affatto sicuro che in generale, seguendo Testa, si possa autorizzare una speranza o se sia più corretto dare sfogo al pessimismo della ragione. O meglio, ciò che mi chiedo è: se la poesia in sé non autorizzasse naturalmente e spontaneamente una speranza – anche la poesia più cupa – esisterebbe? Forse tutto ciò che ha a che fare con l’immaginazione autorizza sempre una speranza. Credo dunque che vi siano in me almeno due differenti risposte: quella del poeta e quella dell’intellettuale e che nessuna delle due sia più onesta dell’altra. Faccio mie le parole di Andrea Zanzotto che in un suo intervento del 2006 dal titolo Sarà (stata) natura?, scriveva:
L’ubi consistam della poesia si è ridotto alla verifica della propria futilità, oggi che lo stesso nome di ʻʻnaturaʼʼ è divenuto un relitto fonico privo di senso, avendo perduto la possibilità storica di riferirsi a una realtà pur minimamente adeguata alla nobilitas del suo significato – cui, del resto, si ostina caparbiamente ad alludere. Ma, nel medesimo tempo, la poesia si trova ad essere investita di un ruolo paradossalmente fondamentale: quello di instaurare, magari ricreandole ex novo, le pur esilissime connessioni vitali tra un ʻʻpassato remotissimoʼʼ e l’odierno ʻʻfuturo anterioreʼʼ di un rimorso che, pur percependosi come tale, non è oggi nemmeno in grado di spiegarsene la ragione.
Resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire il ʻʻluogoʼʼ di un insediamento autenticamente ʻʻumanoʼʼ, mantenendo vivo il ricordo di un ʻʻtempoʼʼ proiettato verso il ʻʻfuturo sempliceʼʼ – banale forse, ma necessario – della speranza.
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Per un’idea patica della teoria
di Tommaso Di Dio
Della lettura del libro Autorizzare la speranza di Italo Testa mi sono rimaste nella mente diverse impressioni. Innanzitutto a colpirmi è stato il punto di vista formale. Non è un infatti un saggio unitario, non è un monumento teorico; sembra che Testa abbia volutamente evitato che il suo lavoro apparisse un monolite inattaccabile. Autorizzare la speranza è un libro selvatico, scaleno, poroso e in questo sta anche il suo fascino strabico e sfuggente. Se raccoglie diversi interventi intorno a alcuni definiti fuochi tematici, non si preoccupa sempre di coordinarli fra loro in un vero e proprio discorso unitario: i temi tornano fra le pagine e riaffiorano sempre colti a partire da esigenze specifiche diverse. Il volume ci dà l’impressione di essere un asterismo di occasioni in cui a essere veramente costante, al di là dei temi, è un’insistenza, una sorta di temperatura di fondo: un’idea patica della teoria che ha la poesia come gemello. È come se Testa si proponesse di scrivere della poesia legandosi al suo oggetto non solo da un’esteriorità, ma da un vincolo intimo che non vuole nascondersi, ma anzi offrirsi al lettore come ineluttabile prodromo della discussione. Ecco, è come se Autorizzare la speranza ci dicesse a ogni pagina: o siamo coinvolti dal nostro oggetto di studio o non ne vale la pena. È così che i temi emergono: come pulsazioni di una ricerca, dentro un cammino di ricerca, uno fra i possibili, che non ha tanto di mira una parola definitiva che non ammetta repliche, ma al contrario è più interessata a mostrarci un’etica del lavoro teorico, un certo modo – ibrido e contaminato – di stare dentro i discorsi.
In questo modo mi pare che Testa ottenga un effetto importante. Invece di consegnare il suo lavoro a un anacronistico tribunale della storia che ne debba giudicare la perfezione, l’unitarietà del libro è integralmente nelle mani del lettore che è sollecitato da questa dimensione formale a intessere un dialogo, a partire dalla sua prospettiva, con le riflessioni suggerite: un dialogo che sia anche contraddittorio, dialettico, antagonistico. Il libro insomma lascia dei buchi, degli sbreghi, degli spazi, punti non pienamente risolti né esauriti: e va benissimo così. A me pare che questo sia un aspetto straordinariamente prezioso perché il libro di Testa non vuole chiudere i giochi su ciò che scrive, non è un libro che arriva postumo a sé stesso o a una riflessione già svoltasi altrove e della quale qui se ne dispongano gli inerti resti; mi pare voglia invece indicare una molteplicità di piste per gli studi della poesia che sono ancora tutt’ora aperte e che è bene che restino aperte.
Innanzitutto riprende un tema antico e – anche per me – decisivo: il legame fra poesia e verità. È un tema classico, addirittura esiodeo; è da esso, come si sa, che per Platone dipende il destino della poesia nella polis. La poesia va ospitata dentro i saperi della città democratica oppure è il misero orpello di una manìa seduttiva pericolosa e in ultimo da scacciare? Ma il tema attraversa tutta la trattatistica rinascimentale e barocca per divenire centrale nel romanticismo (pensiamo solo a Leopardi e Manzoni) e non ha smesso di agire nel Novecento: facciamo solo i nomi di Montale, Fortini, Mesa. Ecco, questo rapporto era caduto totalmente nell’oblio: era davvero troppo tempo che nessuno affrontava la questione. Il libro di Testa ha il merito innanzitutto di catapultarlo nuovamente all’attenzione, ma poi di non voler trattarlo come un elemento di una veneranda storia della letteratura, ma mostrarne fin da subito le implicazioni radicali a cui questo rapporto chiama: quelle che non possono essere evitate per chi scrive oggi. In che modo sta il rapporto fra poesia e verità del paesaggio, per esempio? Oppure: in che modo si declina questa paradossale sfasata coincidenza fra poesia e giustizia? Dove sta la verità di un futuro che da più parte in tanti chiedono e che non trova forme linguistiche condivise in cui abitare? Temi sterminati, si dirà, e certamente aporetici e forse inconcludenti, ma la forza di questo lavoro è anche costringere a pensare questa aporia e questa non-conclusione (p. 82) come qualcosa che è appartiene al nocciolo di ciò che è diventata la poesia.
A questo rapporto «obliquo al vero» (p. 7), si lega la questione fondamentale del libro, ovvero il tema della speranza radicale. Uno dei primi paragrafi del libro Testa scrive: «Per questo nell’appello alla verità si rifrange l’immagine di una comunità futura rispetto alla quale la poesia si assume il compito di autorizzare la speranza» (p. 8). Questo il paradosso che Testa pone subito al lettore e che ci chiede di provare a abitare per le pagine del suo volume. Testa è come se individuasse alcune forme pure a priori dell’agire poetico, forme che da un lato sembrano essere transtoriche, perché inerenti alle strutture stesse della poesia e alla loro cogenza, al di là dei contenuti che l’esperienza di questo o quel poeta di volta in volta darà loro; ma che ci appaiono così soltanto adesso, proprio per via della nostra peculiare condizione contemporanea. Nella parola di una poesia frantumata fra mille schermi e supporti, che ha perduto ogni mandato sociale – se poi mai l’ha avuto altrove che nella fantasia dei teorici e dei poeti stessi – persiste nondimeno una struttura, una forma retorica, tale per cui essa suscita, al di là di ogni controverifica e verità fattuale, un’idea di comunità possibile e un’idea di futuro realizzabile. A queste due forme a priori, Testa ne aggiunge una terza: la natura bastarda della parola poetica, ovvero il fatto che l’autorizzazione che indica «ha come condizione di possibilità di non poter essere soddisfatta dalla poesia stessa» (ibidem). È quella della poesia una parola che non può essere richiusa (né andrebbe mai pensata mai come chiusa) in una dimensione esclusivamente verbale. L’uso che fa della lingua – se è poesia – fa appello a un’oltranza, a una dimensione pragmatica extralinguistica che è chiamata a raccolta e ingaggia i saperi altri in un fine sempre da determinare, ma che nondimeno si fa presente come urgente nell’atto poetico stesso. Insomma c’è una performatività inerente all’atto poetico che sebbene sia stata già indagata sulla linea di una certa riflessione che va da Butler al recente Culler, lascia ancora aperti ampissimi margini di esplorazione. Cosa fa chi fa una poesia? Cosa accade quando la si legge? Perché nonostante la bassissima ricompensa sociale e lo scarso risarcimento narcisistico che concede, è ancora letta in pubblico e ascoltata da centinaia di persone? Sono domande che non trovano risposta nel libro Autorizzare la speranza ma assumono maggiore consistenza grazie a esse.
Mi pare molto interessante poi che Testa leghi la proposta di queste forme pure a priori proprio a partire da una certa visione di questa epoca. Come da più parti è stato già ampiamente segnalato, la parola poetica sembra aver perduto ogni diretta efficacia sociale e la società letteraria ha perso ogni antico prestigio. Testa non rifiuta affatto questa interpretazione del contemporaneo, eppure il suo libro non si ferma a questa constatazione, ma cerca di articolarla in una prospettiva operativa. Ci spinge a immaginare – per il tempo di un contropassato prossimo, che è arcaico e futuro insieme (p. 95) – la persistenza di una poesia al di là della letteratura, collocata interamente in un’epoca post-letteraria. Ecco, al di là di ogni forma di esistenza storicamente nota, cosa resta alla poesia? Resta, innanzitutto, che nulla in poesia si arresta mai. Della poesia è proprio un elemento xenotico e futuribile: c’è un’improprietà al cuore di ogni tentativo di trovarne il proprio. La scrittura poetica si dà – e oggi più come mai, scrive Testa – come pratica nomadica di forme estranee. A una poesia che non resta accade di essere una forma infestante i margini dei discorsi e gli interstizi fra le pratiche verbali dominanti. Alla poesia accade di essere questo impulso di non-luogo a procedere: la poesia sancisce che il reato della realtà non è estinto mai. Al di là di ogni evidenza, al di là di ogni utilitarismo, la poesia vive di questa radicale e straniata vitalità che ne fa il «luogo di invenzione del possibile» (p. 71).
E questo proprio perché essa è irriducibile al pensiero filosofico, così come a quello logico scientifico. Questo anche è un aspetto che ho trovato centrale nella riflessione di Testa. Da un lato Autorizzare la speranza ribadisce la natura conoscitiva della poesia: cosa non scontata affatto. Testa lo dice con forza: alla poesia pertiene una modalità del sapere. La poesia non è solo un intrattenimento, una pausa oziosa dall’impegno di una conoscenza che avviene altrove, ma è una peculiare articolazione conoscitiva del mondo; tale però in quanto sfida le categorie del pensiero tradizionale:
La possibilità di una conoscenza eventuale dell’individuale, di un individuale colto non semplicemente come caso particolare di una norma, quale nota caratteristica di un concetto, ma afferrato nella sua ecceità – nell’elemento che non è riportabile a norma ma è da sé norma esemplare – è uno dei punti su cui la poesia sfida il pensiero. (p. 44)
Su questo secondo me Testa apre una grande pista. La poesia rappresenta il luogo di un esercizio per cui conoscenza qualitativa non si oppone a conoscenza quantitativa. Praticare la poesia, scriverla, leggerla e studiarla, significa anche tentare di abitare un mondo dove la via qualitativa e quella quantitativa possono trovare una problematica, non pacificata conciliazione. La poesia è quella pratica di linguaggio che attraverso modelli produce individui, ovvero modificazioni continue, inarrestabili, condivisibili e aperte, ma mai pronosticabili. Scrive Testa «Ogni poesia, all’altezza delle sue pretese, sarebbe così contro la poesia come essenza fissa, invariante» (p. 135). Che storia è allora possibile per questa tradizione? Come farne memoria? Come riarticolare un racconto possibile di questa spinta all’individualità in movimento? Di fronte all’intricato presente, la riflessione di Testa torna alla poesia senza inerzia, né superbia. Mi sembra che tutto il libro di Testa continui a ripetere che in poesia non si tratta di custodire qualcosa che può perdersi o piangere qualcosa che è andato per sempre perduto, ma anzi si tratta di imparare a perdere sempre e la poesia vada dove deve andare; è in questo inarrestabile della poesia, «rotolando dal centro verso la X» (p. 94), ai margini dei margini di ciò che si pensava potesse essere, che si rivela una forma che ha da dirci qualcosa del nostro tempo – se solo ci sappiamo ancora fidare di lei.