Perché ancora Napoleone?

di Giulia Delogu

Fin dall’uscita del trailer la scorsa estate i commenti sulla storicità, o piuttosto sulla mancanza della stessa, del film Napoleon di Ridley Scott si sono sprecati. Giornali, blog, social hanno visto un profluvio di interventi da parte di storici di mestiere e da parte di appassionati, tutti preoccupati dall’assenza di precisione storica nel colossal statunitense, non senza reazioni polemiche da parte del regista e difese da parte del cast. Dialoghi, svolgimento delle battaglie, età e aspetto dei personaggi sono stati scrutinati attentamente.

Facciamo, però, un passo indietro. È il 2023 ed esce un film su Napoleone Bonaparte (1769-1821), generale e poi imperatore dei francesi, morto in esilio sull’Isola di Sant’Elena, uno scoglio roccioso nel mezzo dell’Atlantico a quasi 2.000 km dalle coste dell’Africa. Peraltro, esce non un semplice film, ma un colossal, prodotto da un acclamato regista hollywoodiano, che a sua volta ha ripreso il pluriennale progetto di Stanley Kubrik, il quale sempre aveva sognato di produrre una pellicola sul tema (vicenda e documenti preparatori sono stati ricostruiti e raccolti in Stanley Kubrick’s Napoleon: The greatest movie never made, curato da Allison Castle nel 2009). Insomma, un uomo morto duecento anni fa in un “tristo esiglio” viene giudicato ancora oggi un soggetto meritevole di esplorazione nell’arte cinematografica, al suo massimo potenziale di visibilità e distribuzione, e davvero ci dobbiamo domandare se le due ore e mezza di film sono precise come un saggio storico accademico?

Le questioni da porsi – mi sembra – sono di tutt’altra natura e ruotano attorno a questa: perché ancora Napoleone? A fianco a questa domanda, imprescindibile ma come vedremo assai difficile a sciogliersi, c’è un secondo ordine di riflessioni: cosa può aggiungere l’arte, con la sua felice e creatrice imprecisione, a quanto già sappiamo o crediamo di sapere sul nostro passato, per come ci viene raccontato nelle opere degli storici?

Partendo con ordine, bisogna considerare alcuni elementi della vicenda storica di Bonaparte. Napoleone fu in vita una celebrità. Il concetto di celebrità, come ha di recente illustrato Antoine Lilti, si sviluppò proprio nel corso del XVIII secolo e tra i primi ad essere identificati come tali vi furono i filosofi illuministi Voltaire e Rousseau, ammirati non solo per il loro pensiero, ma come persone uniche, speciali eppure umane e fragili, di cui il pubblico voleva conoscere morbosamente i dettagli della vita privata. Similmente, Napoleone fu al centro di miti positivi e anche negativi – la famosa leggenda nera, come scrisse lo storico francese Jean Tulard – e seppe utilizzare consapevolmente in prima persona i meccanismi della popolarità.

Napoleone, tuttavia, non era solamente un “influencer” capace di sfruttare i media del suo tempo (gazzette, fogli volanti, incisioni vendute per pochi soldi, ritratti ufficiali, statue colossali e molto altro), ma era anche una figura dotata di eccezionali capacità intellettive e doti di comando, che lo resero un leader carismatico, nel campo di battaglia e nell’arena politica. Lo storico David A. Bell, in un volume recentemente tradotto in italiano (Il culto dei capi. Carisma e potere nell’età delle rivoluzioni, 2023), ha illustrato l’emergere, tra Sette e primo Ottocento, di nuovi stili di governo e legittimazione politica, incentrati sul carisma personale, comprendendo nella sua galleria, oltre a Napoleone, Pasquale Paoli (1725-1807), George Washington (1732-1799), Toussaint Louverture (1743-1803) e Simón Bolívar (1783-1830) rispettivamente leader dell’indipendenza corsa, statunitense, haitiana e sudamericana.

Napoleone, in buona sostanza, unisce due tendenze che caratterizzano il sorgere della modernità tra Sette e Ottocento, celebrità e carisma, e condivide questi tratti con figure rilevanti della storia politica e intellettuale del mondo occidentale, personaggi senz’altro tuttora noti e studiati nelle scuole… ma davvero ancora famosi come appare essere l’imperatore? Cosa rende Napoleone così attrattivo, nonostante le ormai molteplici condanne verso alcune sue controverse decisioni, come quella di reintrodurre la schiavitù nelle colonie caraibiche della Francia o di aver comunque causato, a conti fatti, milioni di morti con le sue campagne militari, come non manca di osservare anche Scott nei titoli di coda del suo film?

Ciò che da duecento anni “salva” Napoleone, al punto di rendere la sua celebrità duratura e globale ben al di fuori dei confini della sua Francia, è non sono il carisma, una vita al comando e i successi, ma la fragilità, la sconfitta e l’esilio. Il vero mito nasce a Sant’Elena: il luogo che secondo gli avversari inglesi doveva sancirne l’oblio ne decreta invece l’immortalità, come sottolineato anche nel volume pubblicato da Vittorio Criscuolo nel 1821, anno del bicentenario dalla morte (Ei fu. La morte di Napoleone). Con Napoleone lontano, tacitato e sofferente si moltiplicano le opere che parlano di lui e delle sue gesta, giocando sui meccanismi della nostalgia e del rimpianto nel cupo clima dell’Europa in “Restaurazione”. La morte suscita un’ondata di commozione senza precedenti: molti che lo avevano avversato in vita, colpiti dal “martirio” della dura prigionia impostagli dai vincitori, finiscono per dare giudizi più sfumati, se non addirittura positivi.

È il caso di Alessandro Manzoni, che compone di getto l’ode Il cinque maggio (1821), che tutti ricordano (forse pure con fastidio!) dalle scuole, ma di cui forse è meno noto il successo globale con traduzioni, entro la fine del secolo, in latino (6), francese (3), spagnolo (7), catalano, (1), inglese (1), portoghese (2, di cui una promossa in Brasile dall’Imperatore Dom Pedro II) e tedesco (8, di cui una immediata a cura di Goethe). Quella di Manzoni è una buona lente per cercare di comprendere “perché ancora Napoleone”: il poeta stesso ammette di non aver avuto interesse per il generale vittorioso o l’imperatore sul trono. Ma l’uomo solo, sconfitto, stanco e tormentato è un’altra cosa: è quello che affascina, di cui si può persino riconoscere la grandezza passata. È quello che si può persino piegare e re-immaginare in base alla propria sensibilità, come fa pure Manzoni, che si figura un Napoleone finalmente umile e intriso di fede cristiana.

Al di là dell’elemento religioso, è la declinazione “umana” di Napoleone che decreta il successo mondiale della poesia manzoniana presso i contemporanei e non solo. Al Napoleone “umano” e “privato” guardano anche le tante memorie che appaiono nel corso dell’Ottocento, mostrandolo padre affettuoso o amante devoto e non solo provetto militare o deciso sovrano. Non sono opere “storiche” non badano alla precisione dei dettagli, ma ricostruiscono caleidoscopiche immagini di un Bonaparte nel quale il pubblico può empaticamente identificarsi. È questo in larga parte il Napoleone che ritroviamo nel film di Scott: imperatore, amante, tiranno, leggenda. Si tratta di una figura complessa, che non si può né condannare né difendere interamente, pieno di tratti eccezionali, ma anche estraneamente fallibile.

Napoleone era davvero così? A due secoli dalla sua morte, con la sua immagine così iconicamente riconoscibile usata in meme sui social, vignette, pubblicità, insegne e ogni tipo di prodotto quotidiano e popolare, dalle calze alla cancelleria, forse ormai poco importa. Ognuno ha un suo Napoleone. Il mio, ad esempio, non è affatto quello di Scott, ma quello dei versi di Foscolo e del dipinto di Appiani: ventisettenne, pallido e col volto scavato, biondo e scarmigliato, alla testa delle sue truppe sul ponte di Arcole, una parte dell’epopea napoleonica del tutto assente nel film, che decide di saltare la Campagna d’Italia (1796-1797). Manzoni, che pure coltivava la prosa e l’indagine storica, per parlare di Bonaparte sceglie la poesia, l’unica forma adatta per lo scandaglio dei pensieri e delle emozioni, che nessuna ricerca documentaria e archivistica può restituire fino in fondo. Lo scrittore italiano seppe cogliere allora ciò che a molti sfugge ora: Napoleone aveva una potenza immaginifica che travalicava gli eventi che lo avevano visto protagonista e che per capirne il motivo bisognava andare oltre una minuziosa ricostruzione dei fatti.

Rispondere alla domanda “perché ancora Napoleone?” – e credo non esista ad oggi una risposta definitiva e completa – richiede probabilmente un simile salto; un salto che guardi non a ciò che è successo, ma a come lo si è raccontato nelle arti e nei decenni a venire. Sono le rappresentazioni artistiche che hanno reso così riconoscibile il volto di Napoleone e sono le versioni romanzate e poetiche della sua vita, delle sue gesta, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti che ce lo rendono “interessante” anche nel terzo millennio, insieme alle fonti e ai dati storici. È la congiunta possibilità di vederlo come uomo pubblico di stato con un cervello straordinario, leader carismatico insomma, e al contempo persona (quasi) comune con un cuore del tutto ordinario che spingono a rinnovarne continuamente il mito (come Il Naufrago e il dominatore, icastico titolo che Antonino De Francesco ha dato alla sua Vita politica di Napoleone Bonaparte, uscita nel 2021).

La libera, felice e creatrice “imprecisione” delle arti (letterarie, visive, cinematografiche, in tutti i loro livelli, dal più basso al più alto) ha permesso di colmare i limiti dell’indagine storica e di avvicinarsi al Napoleone più umano, mantenendo così elevati attenzione e attaccamento alla sua figura. Questo continua a fare il film di Scott, che ci restituisce il suo Napoleone – un Napoleone con gli occhi del 2023 – e ha il merito di sollecitare storici (e non solo) ad interrogarsi non su quanta aderenza al vero ha un prodotto artistico (quale vero, poi?), ma piuttosto su fenomeni assai attuali come la preponderanza del leaderismo e del personalismo in politica, o il peso sempre più rilevante della memoria e della nostalgia nelle costruzioni culturali. Risolvere l’enigma della vitalità di Napoleone, in conclusione, sembra essere una buona strada per capire di più dell’epoca in cui ha vissuto, momento di stridenti conflitti e di genesi della modernità, e di quelle che sono seguite, attraversate tutte dal suo mito.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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