La mantide – di Hajar Bali
[Dal 26 settembre al 1 ottobre si è svolta la prima Scuola di traduzione letteraria CeST “Lorenzo Claris Appiani”, dedicata quest’anno alla lingua francese. I e le partecipanti hanno tradotto un racconto della scrittrice algerina Hajar Bali dal titolo La mante. Quello che segue è dunque il frutto del lavoro collaborativo di Alessandra Faggiotto, Asia Fontana, Sara Friuli, Letizia Imola, Emma Laumont, Filippo Ponti, Camilla Predieri, Chahinez Razgallah, Federico Sacco, Lisa Santini, Elisa Srebernich, Silvia Tedeschi, Angela Valente, Ilaria Vannini, Anna Zanetti e Marta Zucchelli, con coordinamento e revisione di Federica Di Lella e mio. Ringrazio le coraggiose edizioni Barzakh di Algeri e la stessa autrice per averci concesso l’autorizzazione a pubblicare questo racconto, tratto dalla raccolta Trop tard (2014). Con l’augurio che Hajar Bali venga presto edita anche in Italia. ornellatajani]
La mantide
di Hajar Bali
«Vorrei che fosse finita»
(29 luglio 1890, Vincent Van Gogh al fratello Théo)
Lunedì 11 maggio. Incontro
Ieri non so cosa mi è successo, ma ho dimenticato di mettermi il pigiama al rovescio. Nella catena della mia impeccabile organizzazione settimanale per poco non si è rotto un anello. Non è da me, è un gesto così meccanico e collaudato che non parlerei nemmeno di dimenticanza.
Se non me ne fossi accorto subito, avrei aspettato la domestica tutta la mattina, convinto che fosse mercoledì. Mi sarei innervosito, forse l’avrei licenziata, come del resto sono spesso sul punto di fare, quella ha la fissazione di spostarmi la roba, e poi ho il sospetto che in bagno usi le mie cose e che mi rubi i libri. Quando mi sono reso conto che il romanzo di Y.K. era sparito, gliel’ho fatto presente. In tutta tranquillità ha risposto che l’aveva preso lei. Mi sono infuriato, gliene ho dette quattro, minacciando di cacciarla, ma in cuor mio pensando che, se la sua scelta era caduta su Y.K., dopotutto non era poi così grave, visto che lo trovo insopportabile. Ha ribattuto che tanto quel libro a me non piaceva e che anche lei lo aveva trovato brutto. Per carità, apprezzo che la mia domestica legga, e che per di più condivida i miei gusti letterari, ma, come suol dirsi, «le cattive abitudini sono dure a morire». Sofia mi ha proibito di licenziarla, non te lo puoi permettere, mi ha detto, non troverai mai una persona «di fiducia» come lei. Non è che rubi, semplicemente prende. Si sente a casa sua. Ho dovuto promettere di tenerla, ma da quel giorno non la voglio vedere. Il mercoledì resto a letto tutta la mattina.
Sono sempre stato un tipo organizzato. La domenica cambio pigiama e lo indosso al rovescio. In questo modo, quando mi sveglio l’indomani, capisco che è lunedì, secondo giorno della settimana: è il giorno in cui mi dedico a scrivere il diario. Poi lo lascio a faccia in giù, ben in vista sulla scrivania. Così il martedì so che è martedì e, poco prima di andare a letto, lo rimetto a posto. Il mercoledì è il giorno della domestica. La sento ciabattare per la casa. Mi prepara da mangiare per tutta la settimana. Quando va via, mi godo finalmente il ritrovato silenzio. Mi sbrigo a riempire i contenitori da mettere in freezer. Ho un contenitore rosso per il mercoledì, uno bianco per il giovedì, quello verde per il venerdì, e quello bianco, ovale, per il sabato. Tutti ben allineati, in quest’ordine. È tutto scrupolosamente annotato in una scheda che consulto ogni mattina e ogni sera.
E allora come ho fatto ieri a dimenticare di mettermi il pigiama al rovescio?
Questo incidente stava per costarmi caro, causando tutta una serie di inconvenienti e nervosismi. Per un vecchio pensionato i giorni della settimana sono tutti uguali, ma non per me, proprio perché finora, grazie al mio rituale mnemotecnico, ero riuscito a sapere sempre che giorno è, e a impressionare i miei figli che, guardandosi, si dicono però, è in forma il vecchietto! Che memoria fenomenale! Ma, visto che di solito un inconveniente tira l’altro, Dio solo sa come mi sarei ridotto se non mi fossi accorto in tempo che oggi è lunedì: il giorno felice in cui ti ritrovo, mio adorato diario.
Quasi cinque anni. Quattro anni e trecentosedici giorni da quando la mia amata Hélène ci ha lasciati. Sono vecchio e solo.
Non mi aspetto più niente.
I miei amici se ne vanno uno dopo l’altro.
Prima o poi me ne andrò anch’io, a cuor leggero.
Certo che era strana la signorina che ieri mi ha provocato al vernissage.
Ero andato alla mostra del mio amico Chakib. In realtà non sono sicuro che mi consideri un amico, e lo stesso vale per me. Però mi invita, forse non se la sente di cancellarmi dalla sua lista, sebbene io non gli serva più a niente: in pratica mi sono ritirato dalla vita mondana e nessuno mi cerca più. Comunque alla mostra ci sono andato. Ne avrei fatto volentieri a meno, innanzitutto perché non lo reggo, lui e il suo lavoro insulso e pretenzioso, poi perché lo sanno tutti che deve la sua reputazione e lo stesso titolo di «artista» solo alla deferenza verso la Direzione per la cultura e alla sollecitudine con cui presenzia a tutti gli eventi artistici «ufficiali» – che sono organizzati in grande stile, va detto, i responsabili non badano certo a spese – e soprattutto perché, oltre alla noia e all’esasperazione davanti a tanto spreco, ho l’impressione di non scoprire mai niente di nuovo. Eppure continuo ad andarci, come continuo a prendere il caffè amaro la mattina: solo e triste. Là incontro sempre le stesse persone che, tutte ossequiose, non smettono di chiamarmi «Avvocato Tarik!». Come se fossimo nel bel mezzo di un’udienza. È in buona salute, grazie a Dio! Abbiamo ancora bisogno di persone come lei! Ah, la sua ultima arringa! Sono già dieci anni! In udienza è raro che qualcuno applauda. Ci ha commossi! Che eloquenza, che grinta! Venga a trovarci, potrà dare qualche consiglio ai nostri ragazzi, se vedesse come sono ignoranti e presuntuosi! E io, con falsa modestia: largo ai giovani!
La sconosciuta era lì e, dicendo queste parole, l’ho indicata, aggiungendo magnanimo: Noi abbiamo fatto il nostro tempo. Lei si è messa a ridere in modo un po’ stravagante, fuori luogo, visto l’ambiente ovattato e snob di questo genere di eventi. A quel punto intorno a noi si è fatto il vuoto. Risentito da quella risata che sembrava diretta contro di me, mi accingevo a ritirarmi dignitosamente, a casa mi aspettavano le pillole, il sonnellino pomeridiano e soprattutto il quiz alla TV che non mi perderei per niente al mondo, quando lei mi fa: AVVOCATO, lei non ha il fegato di ridere apertamente di questo lavoro, eppure sa quanto è scadente…
Mi sono accorto di non avere nemmeno dato un’occhiata ai quadri.
Ho deciso quindi di andare a vedere da vicino l’immensa tela dai colori scuri che era il pezzo forte dell’allestimento, verso cui si era precipitata la calca dei visitatori, con grandi «ah!» e «oh» di ammirazione. Che dire, l’«opera» era di una bruttezza spaventosa. Un ammasso indistinto di corpi marroni sotto un sole verde. Un bambino, marrone anche quello, senza una gamba e con gli occhi bendati, sembrava urlare parole che l’artista, nella smania di essere capito, con un’enfasi ottusa, aveva pensato bene di scarabocchiare in una specie di nuvola rossa: «No alla guerra». Era davvero orribile, e in effetti sì, non ho avuto il coraggio di riderne apertamente. Ho visto che lei si girava e veniva dritto verso di me. Allora mi sono diretto verso il buffet; il cameriere ci ha porto i bicchieri e abbiamo iniziato a parlare come vecchi amici.
Sono sorpreso dalla sua vasta cultura e dalla schiettezza delle sue affermazioni. Non mi tratta con particolare riguardo, la mia buona reputazione e la mia età non sembrano impressionarla.
Più parlava – aveva una maniera adorabile di sgranare gli occhi, due meravigliosi occhi da gatta –, più sentivo crescere in me un turbamento che non riuscivo a identificare. Mi atteggiavo, come se la volessi sedurre. Mi rendevo conto che ero sempre più confuso, che stavo perdendo la mia fierezza.
Senza farmi notare ho messo da parte il bastone e mi sono chinato sul vassoio dei dolci per nascondere il mio turbamento. Qual è il titolo di quell’ammasso di corpi laggiù? mi ha detto, poi si è chinata sull’opuscolo che avevo in mano.
La ragazza emana un odore inaspettato. Intendo dire che intorno a lei si diffonde un sentore di vecchio o di malato, che, in quel momento, mi ha colpito come uno schiaffo.
È una pura proiezione della mia mente? Un’illusione prodotta dai miei sensi? O forse solo un sogno? Come quelli dei personaggi di un mediocre film di serie B, in cui «la Grande Mietitrice» si presenta come una giovane e seducente bruna, che svela a poco a poco la sua natura diabolica? Le cresceranno capelli ispidi e unghie da strega?
Eppure era proprio lì, in carne e ossa, alla mia sinistra. Non ho nemmeno osato spiegarle che avrebbe dovuto spostarsi a destra. Non tollero che qualcuno si metta alla mia sinistra, da quell’orecchio non ci sento.
Era da molto che una donna non mi intimidiva. Pensavo perfino che quello fosse un capitolo chiuso. Ho imparato a trarre vantaggio dalla mia condizione di vecchio viziato e capriccioso. Il dolce potere di dire in qualsiasi momento quello che pensi a chi vuoi. Ebbene lei, alla sua età, ventitré anni come mi ha detto, l’età di mia nipote Sofia, si serve di questo potere senza problemi. Trovo questa sua sfacciataggine un po’ volgare. Potrei essere suo nonno!
Ero in imbarazzo, che idiota. Se ci ripenso! Quanto devo esserle sembrato stupido!
Quando mi sono ripreso ho tentato di nuovo di allontanarmi. Lei mi ha trattenuto e a quel punto, di fronte allo sguardo di quella «creatura», non ho potuto reprimere un desiderio istantaneo che mi ha fatto arrossire fino alla radice dei capelli spettinati.
Insomma, lei mi ha trattenuto e mi ha detto: si chiama «Il mucchio di!» È scritto nero su bianco! In effetti era quello il titolo dell’opera: «Il mucchio di!» Con un punto esclamativo. Ha ricominciato a ridere ancora più forte, e io spontaneamente ho fatto altrettanto. Ah, era da tempo che non ridevo così!
Lunedì 18 maggio. Dono
Dall’alto dei miei ottantun anni osservo la vanità delle lotte e dei conflitti.
Quando i miei figli vengono a trovarmi mi portano i giornali. Li sfogliamo insieme e io mi metto a commentare le notizie, senza che nessuno osi tenermi testa. Neanche Nacim, che pure sostiene di militare nella Lega non ufficiale dei diritti dell’Uomo. Se le nostre società fossero state giuste, gli ho detto un giorno, il presidente della Repubblica sarebbe stato il migliore tra tutti noi. Allora nessuno si sarebbe sognato di immaginarsi al suo posto, di credere di poter essere un presidente migliore, di deridere l’arrivismo della nuova classe dirigente o il fatto che quelle persone non sappiano mettere due parole in fila nella lingua nazionale. Alla fine, una società iniqua permette di sognare. Sogniamo, sbagliando, che potremmo fare di meglio se ci fossimo noi al posto del presidente. Non sapete quanto siete fortunati, dico a mio figlio Nacim, a essere mediocri come quelli che vi governano. Lui non risponde mai alle mie argomentazioni. Cova in silenzio. Devo ammetterlo, è piacevole – mentre lui se ne sta con lo sguardo basso, a volte torvo, ma in ogni caso in silenzio – poter godere della forza intimidatoria e persuasiva data dalla mia condizione di vecchio patriarca, poter imporre il mio punto di vista, fosse anche il più assurdo. Ne ho abbondantemente approfittato. Sono stato, nel mio piccolo, un dittatore. Innocuo, certo, ma comunque un dittatore.
La donna della mostra mi mette alle strette. Non è debole come Nacim.
Ho preso l’abitudine di farci due chiacchiere ogni tanto (se fosse per me, lo farei ogni giorno) quando la incrocio al bar sotto la Grande Poste dove lavora. Questi incontri non sono per niente casuali. So che passerà verso le cinque. Quando mi vede, si siede e mi sorride. Sono contento che le faccia piacere vedermi. Con la stessa gratitudine con cui ci si scalderebbe sotto un mite sole invernale, accetto quest’ultimo dono che la natura offre a un vecchio come me.
Conversiamo come due anziane comari e lei respinge con decisione e schiettezza le mie argomentazioni, a suo avviso reazionarie.
Insomma, ha ventitré anni, vende francobolli all’ufficio postale e nel tempo libero studia i fili d’erba. Non so il suo nome. L’ho soprannominata «la mantide» per ciò che sostiene di fare: mangiare i suoi amanti. Mi ha detto così. Ovviamente le ho creduto.
Mi invita a osservare su un francobollo un rametto di asparăgus carnĭvŏrus. Ritiene che lì sia racchiuso il vero sapere.
Mentre mi entusiasmavo per la fortunata coincidenza che ci ha fatto incontrare, evitando di ricordarle in che modo brusco mi aveva avvicinato, mi ha obiettato che non era stata affatto una coincidenza.
Mi diverte, mi turba ed è, nonostante la sua giovane età, il mio alter ego.
Oggi il cardiologo aggrotta la fronte più che mai e bisbiglia ai miei figli le sue preoccupazioni.
Quattro anni e trecentoventitré giorni da quando Hélène ci ha lasciati. Fra non molto saranno cinque anni.
Lunedì 25 maggio. Sogno
Stamattina molto presto mi ha telefonato Sofia. Voleva scusarsi per l’assenza di ieri, di solito la domenica porta il couscous per pranzo. Con aria grave mi ha confidato che il marito l’aveva lasciata. Il suo modo di parlare, troppo veloce per me, e tutti quei singhiozzi, a prima mattina, mi hanno intontito. Non l’ascoltavo davvero, ero sul punto di riattaccare o di riaddormentarmi. Di base pensano che sia distratto, allora, per comodità, per pigrizia, ci marcio. Siccome nessuno me ne vuole per questo, ignoro deliberatamente i problemi di chiunque.
La vecchiaia è una bella età, è comoda. Davvero.
In realtà non sono preoccupato per Sofia. È ancora nell’età in cui i litigi sono un pretesto per rinsaldare il rapporto, in cui riconciliarsi è così dolce! E poi lei ha la saggezza delle nostre donne: ha un ferreo senso del dovere, nonostante l’apparente frivolezza. Dal canto suo, il marito ha forse altra scelta? Potrebbe mai evitare di sottomettersi, come abbiamo fatto tutti, alla misteriosa forza del matrimonio?
Quattro anni e 330 giorni.
Credo che alla fine Sofia abbia riattaccato. Ha capito che non l’ascoltavo.
Dato che ero sveglio, ho deciso di andare a fare una passeggiata in spiaggia, come ogni lunedì. Stavolta, però, con due ore di anticipo sul programma. Il destino aveva deciso così. La differenza di orario non sconvolgeva più di tanto la mia organizzazione, mi ci sono adattato serenamente, un po’ deluso dall’assenza del sole. Le previsioni davano vento, quello sì che rischiava di infastidirmi sul serio.
Sulla sabbia c’era un vecchio tronco mezzo marcio. Mi ci sono seduto sopra e ho respirato a pieni polmoni l’aria di mare. Mi faceva male la schiena, il mio vecchio cuore tornava ad avere le palpitazioni e chiudevo gli occhi implorando: Dio, che cosa mi succede? Che cosa vuoi fare di me? Il vento soffiava forte e delle violente raffiche mi facevano vacillare, fragile barchetta tremante in una marea di sabbia. Poi ho chiuso gli occhi, chinando il capo. È stato allora che mi è apparsa. In piedi davanti a me, mi invitava ad andare a nuotare con lei. Rideva, scoprendo dei denti spaventosamente grandi. Ho aperto gli occhi e, con il cuore in gola, mi sono messo a cercarla, senza sapere più dove fossi, tanto la forza del sogno, ma era davvero un sogno? persisteva. Lei non c’era più. Riuscivo solo a dirmi che era scomparsa e che dovevo andare a soccorrerla nell’acqua fredda e tumultuosa. Non mi restava altro da fare che affrontare il mare ghiacciato. Gridavo verso l’orizzonte, gridavo il mio nome e quello di Hélène. Gridavo aiuto, venite! Chiamavo Hélène, stavo impazzendo. Niente. Il mare sembrava implacabilmente calmo. Soltanto qualche gabbiano faceva eco alle mie urla. Ho sentito allora che il cuore mi stava abbandonando. Sono andato verso il mare, quasi strisciando. E lì sono crollato.
Qualche ora dopo, mi sono risvegliato in camera mia. Quando ho aperto gli occhi, ho visto Sofia che piangeva al mio capezzale. Degli agenti mi avevano soccorso sulla spiaggia e l’avevano chiamata. Ero stupito e confuso. Sono accorsi tutti i miei figli, fingendo di essere solo passati a trovarmi. Ma, quando li ho visti arrivare in quel modo, in corteo, ho capito benissimo che cercavano di tranquillizzarsi ma anche di esprimere il loro amore. Da quando Hélène ci ha lasciati, non parlano più della morte. Ne sono ossessionati. La morte di Hélène, così inaspettata, ha creato in ognuno di loro una specie di perenne stato patologico che li spinge a immaginare sempre il peggio. Nessuno dei miei figli, dopo quel dramma, è più in grado di provare una gioia completa. Lo so. Credo che chi non ha vissuto la perdita di una persona amata non possa conoscere questa persistenza del dolore, che oscilla tra la sottomissione al destino e uno stato di semi-vita, di consapevolezza dell’estrema fragilità di ogni cosa. Sapevo esattamente cosa provavano i miei figli, ognuno pensava, adesso tocca a lui.
Credevano che fosse giunta la mia ora. Il dottore bisbigliava qualcosa a Sofia. Ho chiesto più buio, più silenzio e ho chiuso gli occhi.
Adesso la casa è silenziosa. Troppo silenziosa. Sembra una tomba.
Lunedì 1 giugno. Seconda giovinezza
Sofia, dopo l’incidente della scorsa settimana, si è trasferita qui con la scusa di badare a me. Non si allontana se non per andare al lavoro, mi fa promettere che non mi azzarderò a uscire da solo. Sono prigioniero di mia nipote. Ho i nervi a fior di pelle. Di nascosto ho chiamato Hassan, proponendogli di venirci a trovare, ero pronto a tutto per farli riconciliare. Il loro litigio è durato abbastanza. Che se la venga a prendere e si levino dai piedi. Ho bisogno di lasciarmi andare alle mie fantasie e alla mia follia.
Già, perché mi sembra proprio di impazzire. Ascolto «La Primavera» a velocità accelerata, il violino che si alterna all’orchestra mi spacca i timpani, sto per urlare.
Sofia, rannicchiata accanto a me come al solito, mi domanda con gentilezza: cosa vuoi fare? Ho l’impressione di essere un condannato a morte a cui vengano chiesti gli ultimi desideri. È esasperante.
Allora, senza troppe cerimonie, mi sono alzato di scatto, tradendo il mio crescente nervosismo. Mi sono inventato che dovevo andare dal mio amico Chakib. Lei voleva venire con me, ma mi è stato facile improvvisare una specie di capriccio infantile, urlando che potevo benissimo fare cento metri senza accompagnatore, e che avevo bisogno di respirare, chiedevo troppo? Sofia, sospettosa ma calma, mi ha lasciato andar via facendomi promettere di non tornare tardi. È una che non molla, lei.
Sono uscito sbattendo la porta, per mettere in chiaro che non avevo alcuna intenzione di farmi accompagnare.
Mi ha urlato Sii prudente, nonno, non ti allontanare. Tra poco fa buio.
Ho deciso di andare al bar. Speravo segretamente di incontrarla.
C’era un tempo magnifico, come questa città spesso ci regala. La polvere sembrava lavata via e i contorni degli edifici si stagliavano netti nel cielo limpido. Con discrezione mi sono sbottonato la camicia sul petto, che è ancora bello, con la folta peluria stranamente non troppo ingrigita. Mentre camminavo sorridevo al vento e al cielo, mi sentivo felice come un bambino che va alla sua prima festa.
Lei era lì.
A chi sa vederli, la vita regala tesori inestimabili.
Qui, al crepuscolo, regna un’atmosfera particolare; gli uccelli fanno un baccano infernale e gli uomini tacciono. Guarda quella fogliolina che si è staccata dal ficus! Com’è graziosa! E io sì, sì, turbato all’improvviso dal suo collo lungo e sottile. Bugiardo! Non l’hai vista. Ora è ai tuoi piedi e stai per schiacciare la formichina che sta arrivando, sei solo un vecchio rimbambito, arrogante e vizioso. Poi è scoppiata a ridere. Credo mi legga dentro come nessun altro.
La guardavo ridere, sgranare quei grandi occhi da gatta, mentre le note del violino continuavano a stridermi in testa. Per paura di suscitare in lei un’ilarità ancora più fragorosa, non ho nemmeno osato chiederle se fosse stata lei ad apparirmi sulla spiaggia, mi sentivo già abbastanza ridicolo a farmi vedere con quella ragazzina dalla risata insolente.
Mi ha parlato come se niente fosse del brano che gli uccelli, mi diceva, sembravano eseguire a velocità accelerata per noi. Era Vivaldi? Ho risposto di sì, rinunciando a capire per quale strano mistero fosse in grado di sentire quello che solo la mia testa produceva.
Ho iniziato a temere che potesse intromettersi nei miei pensieri più profondi, spesso inconfessabili, lo ammetto.
Aveva le guance pallide, i capelli castani le cadevano a cascata sulle spalle strette, mi ricordava un passerotto.
Abbiamo deciso di ordinare un narghilè. Ah, se mi vedessero i miei figli, mi sono detto. Osservavo i suoi occhi lucidi, quella piccola mano che distrattamente accarezzava il bocchino. Una giovane coppia si era appartata in un angolo. Si guardavano intensamente, niente avrebbe potuto distoglierli dalla loro passione nascente. Quei due sono su un altro pianeta, irraggiungibili, mi ha detto la mia amica. Ci siamo lasciati distrarre dall’atmosfera del bar a metà tra il popolare e il trendy. I nostri vicini litigavano su cose insignificanti. Almeno è quello che ho pensato all’inizio, perché il resto del mondo mi sembrava di una mediocrità assoluta. A quel punto, mosso da un desiderio stupido ma imperioso di farmi bello ai suoi occhi, ho cominciato a raccontarle che da studente avevo l’abitudine di incontrare gli amici al «circolo», una specie di mensa dove andavamo dopo le lezioni, riunendoci in gruppi a seconda delle affinità. Suonavamo la chitarra o giocavamo a carte, altri passavano le giornate a discutere di come cambiare il mondo. Lei mi ascoltava educatamente, troppo educatamente. Ho capito che l’annoiavo. La mia aria di sufficienza, le mie osservazioni da vecchio, trincerato com’ero nelle mie convinzioni e sicurezze irremovibili, mi sono parsi all’improvviso di una vanità insopportabile. Mi sentivo di nuovo un idiota. Questi giovani, mi ha detto, non stanno discutendo di come cambiare il mondo, sono il mondo.
E allora io? Cosa avevo di interessante ai suoi occhi? Ero solo l’ennesimo trastullo per lei?
La gente che ci circondava quel giorno, così stravagante, le ragazze che si sbellicavano dando forti pacche sulle spalle ai loro vicini oppure che ancheggiavano al suono di una musica aggressiva ed eccessivamente forte, questa gioventù che stavo scoprendo con stupore, l’avrei trovata volgare. La vicinanza di quella «fauna», che adottava i comportamenti e i codici della propria epoca, verso cui, va detto, la mia generazione è stata troppo sprezzante, di colpo mi è apparsa come un ammonimento al mio stupido orgoglio. Allora, incoraggiato dal buon umore della mia compagna, mi sono fatto umile e ho desiderato entrarci in simbiosi. Quelle persone non ci guardavano nemmeno. Non mi giudicavano. Mi sentivo uno di loro.
Quanti anni hai? è scoppiata a ridere, e io con lei: l’ho dimenticato! ho risposto sghignazzando, mentre uno stupido senso di malessere cominciava a sopraffarmi.
All’improvviso, dal profondo dell’anima, è emersa una domanda che mi è sfuggita come un grido: Io abito qui vicino, sai? Che ne dici di passare una di queste sere?
Vuoi la tua morte? E si è messa a ridere ancora di più. Ho riso anch’io, cercando invano di dominare il mio turbamento.
Al momento di salutarci mi ha porto la guancia, sembrava in preda a una tristezza infinita. Ha mormorato forse sarebbe meglio non vederci più? ed è corsa via, lontano da me.
Ho il sospetto che abbia qualcosa a che fare col diavolo.
Ora non riesco più a dormire. Ascolto l’Ottava di Bruckner.
Sono condannato a comportarmi come impone la mia età. Con buon senso e rassegnazione. Se il destino mi mette davanti alla prospettiva di un amore e se, al confronto con lo scenario quasi insignificante che fa da sfondo alle mie giornate, questa costituisce la mia unica ragione di vita, perché dovrei rinunciarci?
Sono vedovo ormai da quattro anni e trecentotrentasette giorni. Hélène capisce cosa mi sta succedendo? Alla fine, si deciderà a farmi un cenno?
Intanto Bruckner mi prepara alla malinconia.
Lunedì 8 giugno. Tradimento
Il muezzin annuncia l’alba ed io vado in giro per casa alla ricerca di una sigaretta: temo che Sofia le abbia distrutte tutte.
In occasione del primo parto di Hélène, quarant’anni fa, eravamo immensamente felici, era da almeno otto anni che aspettavamo l’arrivo di un bambino; come un idiota avevo seguito i miei amici dell’epoca al night e lì mi ero abbandonato tra le braccia di una sconosciuta con cui avevo passato tutta la notte, euforico per la gioia di essere finalmente padre. Si dà il caso che proprio quel giorno mi sia comportato come un disgraziato, per giunta con totale disprezzo verso la sconosciuta che mi cullava tra i suoi seni. L’indomani Hélène mi aveva accolto freddamente. Me ne voleva per averla lasciata sola in quel letto d’ospedale. Non immaginava che le avevo dato motivi molto più seri per respingermi. Avrei voluto morire seduta stante. Ho mantenuto il segreto per tutta la vita, e per tutta la vita quel ricordo mi ha amareggiato, ripugnato.
Devo andare a far visita a Hélène. Pregherò sulla sua tomba.
La mia vita è stata troppo lunga, se oggi mi ritrovo a desiderare una seconda giovinezza.
Come ho fatto a cancellare spudoratamente persino i ricordi più belli della mia vita?
La mente osserva senza batter ciglio l’orribile, ingrato comportamento dei miei sensi. Quindi, sì, andrò a raccogliermi, colpevole, sulla sua tomba.
Sono quasi cinque anni che mi ha abbandonato.
Lunedì 15 giugno. Rimorso
Stamattina il taxi mi ha lasciato all’ingresso del cimitero.
Ho pregato come un automa. Coprendomi la faccia con tutte e due le mani, ho pregato Hélène di perdonarmi. Credo di aver pianto, miseri e freddi singhiozzi senza rimorso.
Rientrando, mi sono fermato al bar, ad aspettare impaziente che arrivasse «la mantide».
Portava un vestito a fiori. Mi ha preso allegramente le mani, io l’ho guardata, e allora, per pochi secondi, giurerei di aver visto sul suo viso i lineamenti di Hélène.
Ne sono rimasto sconvolto e felice insieme. Perché ho capito allora che, se Hélène fosse stata ancora tra noi, nessuno, nemmeno questa strana creatura, mi avrebbe distolto dal suo amore, dalla voglia di vivere ancora e ancora. Anche nella monotonia dell’esistenza quotidiana, però con Hélène viva, con Hélène accanto a me. Sarei stato completamente appagato. In quel momento folle della mia vita, in cui come un pazzo mi stavo buttando a capofitto in un’avventura sentimentale, ho capito che per me contava solo Hélène.
Guardavo quegli occhi da gatta e sprofondavo nello sguardo immensamente dolce di Hélène. Immaginavo di baciare con avidità l’esile passerotto che si offriva a me, e a un tratto il suo viso diventava quello della madre dei miei figli. Allora divoravo il suo viso di fantasma, sconvolto d’essere un uomo ancora vivo, insaziabile di desideri.
Ora, seduto alla scrivania, provo a mettere nero su bianco il turbinio di sensazioni che mi investono tutte insieme. Mi si spalanca davanti un mondo di ricordi e di felicità. Il giuramento di avvocato in tribunale, Hélène tra il pubblico, in lacrime, commossa e sorridente, le notti sveglio a studiare i fascicoli, Hélène, ancora lei, premurosa come una madre, le nostre risate, la complicità, la malattia, la paura, il resistere insieme alla guerra, all’incubo, le promesse, la prima figlia, il matrimonio della maggiore, l’esilio degli uni, il fallimento degli altri.
Capisco finalmente che la mia Hélène non mi ha mai lasciato.
Cerco allora di ricostruire il corso degli ultimi eventi. Tutto accade dentro di me alla velocità della luce. È di una chiarezza inesorabile. Ora sono profondamente convinto che quel primo sguardo che mi aveva tanto turbato l’altra sera al vernissage era quello di Hélène.
Hélène, con la sua immensa saggezza, mi prendeva ancora una volta per mano. La donna che avevo incontrato era Hélène risuscitata. E io ero il figlio insicuro, colpevole, bisognoso di perdono, ero sempre lo stesso, lei era Dio al mio fianco.
Sono al contempo lo strumento di un complotto satanico che mi sprofonda negli abissi della follia e l’eletto di un animo puro e generoso che scende dai cieli e mi invita alla trasgressione per salvarmi.
Lunedì 22 giugno. Inferno
Non l’ho rivista.
Non ho voglia di rivederla.
Innanzitutto perché sto malissimo. Non avrei sopportato di lasciarle vedere lo spettacolo del mio corpo sofferente, sconfitto.
Mi si stringe il cuore.
Sono abbattuto.
Sono quasi cinque anni che vivo l’inferno.
Lei si interessa ai fili d’erba e alle foglioline che cadono dagli alberi, alle cose insignificanti, in pratica. Ci rientro anch’io?
Ripenso a quando mi ha mostrato la sua collezione di francobolli, nessuna effigie, soltanto dettagli strani, bestioline o piante, rarità che tuttavia hanno catturato l’attenzione dei tipografi, mi sono detto.
Lunedì 29 giugno. La visita
Oggi sono esattamente cinque anni che Hélène ci ha lasciati.
La passeggiata al cimitero mi ha gettato in uno stato quasi comatoso. I miei figli, allarmati, sono venuti a trovarmi. Sofia mi ha detto che avevo delirato per giorni e che avevano dovuto prescrivermi dei forti calmanti per placare la mia agitazione. Quando mi sono rimesso, all’inizio sono stato felice di averli intorno. Ma dopo un po’ quel viavai di gente mi ha stancato, e le ansiose premure di tutti hanno cominciato a irritarmi. Le ragazze e i ragazzi non smettevano di darsi il cambio al mio capezzale, facevano del loro meglio per aiutarmi, ma la cosa mi esasperava. Ai loro occhi ero un caso patologico, un malato privo di volontà e di libero arbitrio. Senza rendersene conto mi avevano preso in ostaggio: dovevo solo mangiare e starmene a letto per farli sentire in pace con la coscienza. Soprattutto mi toccava sopportare i loro figli chiassosi e mangioni che a tavola sbavavano davanti alla crema al cioccolato, mentre io avevo diritto solo a minestre di verdura e carne alla griglia, per di più senza un filo di grasso. Subito dopo che mi avevano messo a letto li sentivo finalmente più rilassati, come se la mia presenza fisica avesse provocato una tensione insopportabile. Allora chiudevo gli occhi, supplicando Hélène di prendermi con sé al più presto. A notte fonda dovevo pure tollerare Nacim, incaricato di vegliare su di me, che russava. Uno strazio!
Ho messo il broncio. Mi sono chiuso nel silenzio. Niente da fare. Continuavano a rivolgermi sguardi preoccupati ma non modificavano di una virgola quel loro atteggiamento paternalistico. Allora sono diventato ancora più aggressivo, deciso a far vedere a tutti che ero completamente guarito e intenzionato a cacciarli di casa. Ce l’avevo con loro perché erano molto più in forma di me, così giovani e belli, come una provocazione al mio povero corpo stanco.
Finalmente ieri Nacim, l’ultimo ad andarsene, ha rimesso a posto il suo materasso. Mentre lo guardavo, così ingobbito e con gli occhi cerchiati, mi sono ricordato di Hélène che mi diceva è lui quello che ti assomiglia di più. Preso dal rimorso, gli ho chiesto di rimanere ancora una notte, e abbiamo invitato il mio vecchio amico Chakib a cenare con noi. È venuta anche Sofia e ci siamo fatti una partita a belote memorabile, anche se credo che i ragazzi ci abbiano lasciati vincere.
Ad ogni modo, ci siamo divertiti tantissimo, e tutti quanti hanno finto di non accorgersi della quantità di cioccolatini che mi mangiavo uno dietro l’altro. Ero felice come un bambino. E riconoscente. Mi sentivo così bene. Vedevo però nello sguardo buono di Nacim una leggera contrarietà, che preferivo attribuire alla sua cocente sconfitta.
Ero allegro, affettuoso, e ne avevo ben donde: presto l’avrei rivista.
La inviterò. Verrà a cena domani, sola, con me.
Più di una volta ieri, e anche stamattina, mi è sembrato di sentire la sua «essenza» aleggiare nella stanza. Per lei mi sono dato da fare, perché lei era lì. A carte ho rischiato grosso, scommettendo somme enormi, con gran sorpresa del mio compagno di gioco. Ero tutto ringalluzzito. Domani le racconterò come ho stracciato mio figlio e mia nipote. Le insegnerò le regole della belote coinchée.
Mentre usciva, Chakib mi ha guardato in modo strano, sicuramente si stava chiedendo perché ero così su di giri. L’ho abbracciato forte e per qualche motivo incomprensibile sono scoppiato a piangere.
Domani andrò a prenderla. Domani sarà qui.
Stamattina, al momento di uscire, Nacim ridacchiava imbarazzato, poi se n’è andato gridando che si sarebbe preso la rivincita, in coppia con qualcun altro, però. Non con quella frana di Sofia, ha aggiunto ancora mentre scendeva le scale.
Ho il cuore in subbuglio. Mi sento come una giovane vergine che, la prima notte di nozze, desidera e teme l’inevitabile.
È già buio, la luna sorta anzitempo proietta nella stanza un insolito bagliore bluastro, una luce che sembra quasi artificiale, simile all’«effetto notte» del cinema.
Dopo aver pulito tutto con febbrile impazienza, ho rimesso un po’ in disordine le lenzuola e le cose sul tavolo per ricreare una patina di naturalezza.
Stanotte non dormirò.
Provo a osservare i quadri appesi alle pareti del salotto come se li vedessi per la prima volta, sistemo qualche soprammobile, tutto è disposto secondo un ordine preciso senza averne l’aria.
Mi preparo. Che cosa indosserò? Attorno al collo rugoso, un foulard annodato con negligenza. Farò un bagno sciogliendo i sali nell’acqua tiepida, devo cercare di rilassarmi completamente.
Se soltanto i miei cari potessero comprendere ciò che, nella Sua grande misericordia, il Signore ha voluto concedermi.
Non vedo l’ora che sia domani. Se lei vorrà.
La sento, mi sta parlando, o è la voce di Hélène?
L’asparăgus carnĭvŏrus si nutre di vermi. La morte, sai, è la continuazione della vita. Chinati un po’ di più e osserva la moltitudine silenziosa ai tuoi piedi. Adesso tranquillizzati. Puoi tornartene da dove sei venuto, semplice, no?