Lombrichi (sillabario della terra # 21)

di Giacomo Sartori

Al tempo di Darwin i lombrichi venivano considerati dal mondo scientifico animali nocivi, qualche studioso suggeriva addirittura i metodi più efficaci per acchiapparli e distruggerli. Fin dal ritorno dal suo lungo viaggio sul Beagle l’immenso naturalista si è invece intestardito a studiarli e a capirli, dando loro la priorità rispetto a infiniti altri esseri viventi. Se ne è occupato per oltre quarant’anni, facendo esperimenti di lungo corso nel suo giardino, nei quali metteva all’opera anche i figli. Per poi pubblicare un libro su di loro quando non gli restavano che sei mesi da vivere. Un trattato che ha avuto fin da subito molto successo, e che per primo mostrava le loro caratteristiche e la loro importanza per i suoli e i paesaggi. Negli stessi anni un naturalista danese, Müller, del quale Darwin non conosceva i lavori, metteva in luce la loro centralità nella degradazione dei residui vegetali delle foreste.

Solo dopo la seconda guerra mondiale sparuti studiosi si sono però messi a studiarli con metodo. Permettendo di determinare che nelle zone temperate la loro massa ponderale rappresenta più della metà di quella dell’insieme della fauna terrestre, può sfiorare i quattro quinti. Nelle condizioni migliori arrivano a mille esemplari per metro quadro, il che corrisponde a cinque tonnellate per ettaro. E si danno da fare come dannati: quando lavorano bene i resti vegetali della superficie sono spazzolati, anche nei boschi, in fretta e senza lasciare avanzi. Alla superficie del suolo si notano i monticelli delle loro deiezioni, che gli specialisti chiamano turriculi: fanno pensare alle forme glomerulari di Jean Arp. Sono più abbondanti in primavera e autunno, perché loro non amano né la siccità né il freddo.

Se li si lascia un minimo in pace sono molto numerosi, e ingeriscono ogni anno enormi quantità di terra, espellendola poi ben differente. Nel corso degli anni tutto il suolo finisce per transitare nel loro apparato digerente, ed è proprio qui che si formano quei legami tra frazioni minerali e organiche che lo caratterizzano. Le deiezioni permangono sotto forma di grumi ben resistenti, fondamentali per la areazione e la leggerezza della terra. Esse sono molto ricche in elementi chimici, e quindi rappresentano una energica concimazione naturale, tanto più potente quanto più i vermi sono abbondanti. Alla quale si uniscono gli influssi stimolanti sui microorganismi e sulle piante. Gli effetti positivi sono legati però anche ai canali che essi scavano, utilizzati dall’acqua per sgrondare in profondità, dalle radici e dagli altri animali.

Si può dire che nelle regioni temperate la terra è in realtà cacca di lombrico. La loro importanza è del resto nota a tutti: a differenza degli altri abitanti del suolo godono di un’ottima visibilità mediatica. Non si può arborare intenti ecologici e rispettosi per l’ambiente, che sia vero o no, senza mostrare l’immagine di un simpatico lombrichetto, con una boccona sorridente e occhi vispi. In realtà loro non hanno occhi, ma nelle rappresentazioni fumettistiche li hanno sempre, si ritiene forse che farebbe un po’ specie il pensiero che sono ciechi. Come anche quello che hanno un ardente rapporto omosessuale, e poi una volta eiaculato cambiano sesso e diventano femmine. Le quali producono degli ovuli che sono poi fecondati in provetta, insomma all’interno di appositi astucci abbandonati nella terra, senza ombra di cure famigliari.

Nei fatti l’agricoltura industriale ha fatto del suo meglio per sterminarli. Le arature profonde e le lavorazioni energiche dei suoli, e in particolare le fresature, li decimano, devastando il loro habitat, e privandoli del cibo che salgono a cercare in superficie. L’altra micidiale arma sono i pesticidi, ai quali sono molto sensibili. Ma anche la compattazione legata al passaggio dei mezzi agricoli, che rende la superficie del suolo roccia inospitale, aiuta a farli fuori. Nelle coltivazioni attuali sono quindi presenti in quantità molto ridotte, quasi una presenza simbolica. Spesso li si ritrova ammassati sui bordi dei campi, o anche nelle aiole delle zone urbanizzate, dove possono tirare il fiato e vivere relativamente tranquilli.

Guardando le cose da più vicino sono in realtà i batteri del loro intestino, come succede anche per gli uomini, che digeriscono, alias decompongono, i residui vegetali e i miceli fungini dei quali sono ghiotti. Molto spesso mangiano le proprie feci, dopo avere lasciato lavorare i microrganismi in esse contenuti, come noi facciamo lievitare la pasta della pizza in cucina. Il tutto viene attaccato di nuovo e più a fondo da altri batteri, quelli della loro lunga pancia. Quindi quando si parla di lombrichi bisogna pensare ai microrganismi che li accompagnano. I quali emettono nel suolo fondamentali enzimi che capitanano tutte le trasformazioni in atto. E sono a loro volta colonizzati da una ineguagliata e semisconosciuta varietà di virus, che contribuiscono attivamente agli scambi di materiale genetico tra specie diverse e anche tra gruppi che le nostre classificazioni tengono molto distanti.

Quindi l’effetto positivo dei lombrichi si deve in realtà a una intricatissima rete di esseri invisibili all’occhio umano, non solo alla loro presenza in quanto tale. Abbiamo il vizio di figurarci ogni abitante della terra ben separato dagli altri, e quasi indipendente, a immagine e somiglianza delle nostre socialità atomizzate, quando invece in natura è tutta una rete di legami, e tutto si intramezza, tutto si fonde, tutto si metamorfosa, con incessanti scambi di energia e perfino di geni.

I lombrichi che trasformano la terra non sono però quelli piccoletti e rossi del compost e del letame, che molto spesso vengono mostrati quando si parla del benefico ruolo dei vermi. Questi si nutrono solo negli eventuali straterelli organici che stanno in superficie, senza penetrano nel suolo sottostante, senza interessarsi alla frazione minerale. Non hanno quindi nessuna azione di amalgama e di rimescolamento, e non servirebbe nulla aggiungerli alla terra con l’intento di migliorarla. Il loro lavoro è solo decomporre i resti vegetali, non scavano gallerie e non fabbricano grumi.

Considerando l’abbondanza, e le eccezionali qualità nutritive della loro carne, si capisce perché i lombrichi abbiano uno spettro così vasto di predatori. Si va dagli uccelli alle volpi, dai cinghiali ai tassi, dalle salamandre ai serpenti, dai porcospini ai rospi, dalle lumache ai coleotteri. Le talpe, tra i nemici più temibili, li aspirano uno dopo l’altro manco fossero gustosi spaghettoni, e quando sono sazie li fanno invece prigionieri in apposite celle, decapitandoli perché non gli salti in testa di scappare. Meno noto è che anche noi uomini eravamo ghiotti di lombrichi, come hanno mostrato le abitudini alimentari di tutte le residue popolazioni di raccoglitori cacciatori. Solo in seguito siamo diventati schifiltosi nei loro riguardi.

Il loro problema è che per cibarsi hanno bisogno di uscire allo scoperto. La strategia per minimizzare i pericoli è quella di fare capolino solo di notte, rimanendo saldamente aggrappati alla parete della galleria con la parte posteriore del corpo, tramite le apposite setole . in caso di attacco dall’alto, con un po’ di fortuna il predatore sgnaccherà via solo la testa, e basterà aspettare che ricresca, cervello compreso. Non è vero che se si taglia un lombrico a metà le due parti sopravvivono, ma la testa e la coda possono riformarsi. Le specie che vivono in superficie, quelle che si cibano solo di materie organiche, non avendo questa possibilità di difesa, non hanno altra soluzione che ricorrere a una incredibile prolificità, che ricorda la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Le forme ecologiche di coltivazione si riconoscono subito, perché pullulano di lombrichi. Chiunque può constatarlo, contando con gli occhi i turriculi. La differenza è sostanziale, perché è solo il sintomo visibile della sua ottima salute. L’agricoltura biologica, quanto a lei, utilizza il rame come antifungino, in particolare nei vigneti, e questo metallo si accumula nel terreno, fino a diventare letale per i lombrichi, dopo molti anni di utilizzo (le dosi usate attualmente sono molto basse). E per il diserbo impiega spesso lavorazioni meccaniche, visto che esclude l’uso dei diserbanti, anch’esse tendenzialmente nocive, soprattutto se effettuate senza criterio. I suoi detrattori enfatizzano sempre questi due oggettivi impatti, che per loro testimoniano la sua inferiorità rispetto all’agricoltura convenzionale. La realtà è che nella stragrande parte dei casi le coltivazioni certificate come biologiche formicolano di lombrichi, salta immediatamente all’occhio.

I lombrichi, emblema della salute della natura, sono anche il paradigma della schizofrenia delle nostre società nei suoi riguardi. Tutti sono coscienti della loro centralità, e pochissimi studiosi li studiano, con fondi ridicoli: delle settemila specie esistenti, nemmeno la metà sono stati descritte. Nessuno sa bene quali caratterizzino le varie zone agricole dei vari paesi, e non parliamo di quelle forestate: gli studi esistenti sono tutti molto localizzati. E men che meno si conoscono le abitudini e i comportamenti di ciascuna, quanto sia impattata dalle varie pratiche. È già tanto, quando li si prende in considerazione, se si arriva al riconoscimento morfologico.

Gli studi di tossicologia, che dovrebbero determinare gli effetti dei vari pesticidi sulle varie specie, sono condotti in laboratorio, in condizioni che non hanno nulla a che fare con quelle naturali, e mirano solo a determinare le dosi letali di singoli composti. E come per incanto i lombrichi non vengono mai contemplati, nelle soluzioni pseudoecologiche high tech che vengono proposte per risolvere questo o quel problema. E il povero Darwin viene ricordato per l’evoluzione, non per averli posti al centro della storia della Terra. Rimane insomma molto da fare.

l’immagine: arazzo elaborato dagli allievi di una scuola primaria di Lilla nel corso di un atelier animato dal duo ET&GS (Elena Tognoli e Giacomo Sartori), nell’ambito della loro residenza artistica (Ville de Lille, 2023)

 

 

 

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Abbagli tra le rovine del mondo caduto

di Alice Pisu
Intrigato dalla vita nascosta nella materia morta, da ciò che è ormai privo di senso, Voltolini genera visioni nel gioco di accumuli utile a sostanziare una dimensione estranea al noto. La tensione alla vertigine esorta chi legge a concepire una cifra di inconoscibilità e al contempo di familiarità in luoghi infestati dalla solitudine: analogie con l’ignoto che ogni individuo sperimenta se osserva il proprio vuoto.

LA SPORCIZIA DELLA TERRA

di Giacomo Sartori e Elena Tognoli
Ci hanno insegnato che la pulizia è molto importante, e che le cose pulite sono inodori e ordinate, ben illuminate, ben geometriche, preferibilmente chiare. Quindi non c’è molto da stupirsi se la terra, che è tutto il contrario, ci sembra sporca e brutta, e anche poco igienica, infestata da vermi e altri bacherozzi com’è.

Le finestre di Enrico Palandri

di Alberto della Rovere
Questa la suggestione che abita l'opera di Palandri, nell'accorato invito a non rinchiuderci nelle nostre abituali, labili rassicurazioni, di pensiero, relazione e azione, nell'appartenenza, nei codici e nelle categorie, per muover-si, invece, nel mistero, nell'incertezza, all'incontro con l'alterità e gli affetti

Nessuno può uccidere Medusa

Marino Magliani intervista Giuseppe Conte
Io lavoro intorno al mito dagli anni Settanta del secolo scorso, quando mi ribellai, allora davvero solo in Italia, allo strapotere della cultura analitica, della semiologia, del formalismo, una cultura che avevo attraversato come allievo e poi assistente di Gillo Dorfles alla Statale di Milano.

Dogpatch

di Elizabeth McKenzie (traduzione di Michela Martini)
In quegli anni passavo da un ufficio all’altro per sostituire impiegati in malattia, in congedo di maternità, con emergenze familiari o che semplicemente avevano detto “Mi licenzio” e se ne erano andati.

Euphorbia lactea

di Carlotta Centonze
L'odore vivo dei cespugli di mirto, della salvia selvatica, del legno d'ulivo bruciato e della terra ferrosa, mischiato a una nota onnipresente di affumicato e di zolfo che veniva dal vulcano, le solleticavano il naso e la irritavano come una falsa promessa. Non ci sarebbe stato spazio per i sensi in quella loro missione.
giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: