Jeannette

di Bea Orlandi

Da dov’ero distesa potevo vedere un pezzetto di cielo grande quanto il mio ventre. Col tempo avevo imparato ad indovinare quanto ci avrebbero messo le nuvole a sparire al di là della cornice della finestra, e quando invece il cielo era scuro, mi concentravo sulla più piccola particella di blu finché questa non cominciava ad espandersi, dissolvendo via il grigio come fosse aspirina.

Lasciavo che il ritaglio di luce vagasse libero sul mio corpo.  Partiva dai piedi, poi passava alle gambe e a mezzogiorno, puntualmente, raggiungeva la pancia, rendendola candida, incandescente. Il contrasto con il resto del corpo era allora talmente forte che, se premevo il mento contro il collo e guardavo in giù, si sarebbe detto che le mie gambe fossero state mozzate via con un taglio netto. In momenti così avevo la sensazione che il mio punto di vista un po’ storto dovesse per forza essere finto, immaginato: non mi credevo capace di sopravvivere a una tale frammentazione, se non nel pensiero.

Non so dire da quanto tempo fossi distesa così. Sotto di me, oltre al materasso, sentivo i piani dell’edificio accatastati uno sopra l’altro addormentarsi a uno a uno, come presi da una grande contagiosa stanchezza. Sentivo le strade soffiare, roventi, e i raggi del sole che sbattevano contro le vetrate, facendosi via via sempre più intensi. Erano ormai settimane che la gente cercava di lasciare la città. Potevo udire il ronzio delle piante d’appartamento che boccheggiavano, cercando aria. A volte mi alzavo, andavo in cucina a preparare del tè, oppure in bagno, per farlo rifluire fuori, più fresco.

Mi capitava di rosicchiare della frutta ogni tanto, svogliatamente. Il primo morso era gustoso, poi nel vedere il boccone mancante e l’impronta dei denti sulla carne del frutto mi veniva la nausea. Lasciavo pesche, mele e albicocche mezze mangiate in giro dappertutto, sopra un libro, dentro una tazza o tra i cuscini. In modo repentino e totale avevo smesso d’interessarmi agli altri, alle loro disgrazie, anche a quella che, per mia mano, aveva colpito la frutta. Ogni tanto indossavo qualcosa, una camicia rossa così logora che sembrava quasi seta, un paio di boxer da bambino, una sottoveste gialla trasparente che era finita per sbaglio tutta accartocciata nel mio bucato, un vecchio gilet da cacciatore, un grembiule da cucina a quadretti. Quando per caso coglievo il mio riflesso nello specchio, quei miseri indumenti offrivano il vantaggio di coprire ora l’una, ora l’altra porzione della mia figura, allontanando il momento in cui mi sarei stufata del mio corpo completamente, nella sua interezza.

Mi avevano detto che se ne sarebbero andati all’inizio dell’estate. L’ultima volta che ero scesa per prendermi cura dei loro figli, mi avevano chiesto, allora te ne torni a casa per le vacanze, Jeannette? Avevo annuito senza pensarci su. Per un anno intero avevo trascinato i loro bambini dentro e fuori da quelle stanze dai soffitti altissimi, li avevo staccati con cura dai tappeti pregiati non appena cominciavano a piangere, così che lacrime e muco non li rovinassero, avevo raccolto loro i capelli in piccole trecce e gli avevo pulito le bocche sudice con le maniche della mia divisa, e come ricompensa prima di andarsene i genitori mi avevano dato in dono un cestino, da portare via con me. Dopo la nostra partenza andrà tutto a male in fretta, mi avevano detto sorridendo, forse perché provavano pena. Il cestino conteneva frutta e verdura pregiate, d’élite, un pezzo di tortino ripieno di macinato di maiale e dei dolcetti di pasta sfoglia le cui pieghe contorte e delicate mi facevano pensare a orecchie umane. Mangiai queste per prime, in piedi accanto al lavandino. Ad ogni morso una cascata di piccoli fiocchi dorati pioveva sul mio corpo nudo e mi si appiccicava alle clavicole e alle cosce sudate, all’ombelico. Poi affondai un dito dentro al tortino e tirai fuori un po’ di ripieno. Il grasso animale mi rivestì il palato, rendendomi fin troppo consapevole di essere una cosa cava, cavernosa quasi. Mi infilai la mano coperta di unto tra le gambe e mi addormentai così per quel che mi parve un’eternità.

Il mio nome non era nemmeno lontanamente Jeanette. L’avevo scelto io quel nome, per capriccio, il giorno in cui avevo cominciato a lavorare lì. Nel bel mezzo del colloquio per quel posto mi ero scusata ed ero andata in bagno, avevo la faccia indolenzita per lo sforzo di sorridere. Finii per far scorrere a lungo l’acqua nel lavandino mentre me ne stavo seduta sul water a leggere una rivista di moda, fingendo di fare pipì. Guardare le immagini mi affaticava, le decisioni dietro ogni scelta, ogni gesto, mi facevano male alla testa, e quasi mi addormentai dallo sfinimento. Poi un paio di stivaletti gialli catturò la mia attenzione. La didascalia diceva: “lo stivaletto Jeanette”. Tornai, e il colloquio riprese come se non me ne fossi mai andata. Parlammo a lungo delle allergie alimentari di ciascun figlio. Non mi avevano ancora chiesto come mi chiamavo. Fu così che divenni Jeanette.

Dovevano essere ormai partiti. Non sentivo più le urla dei bambini, l’incessante calpestio delle loro scarpette nuove, le risate orchestrate dei genitori. Preferivo aspettare però che le superfici su cui avevano posato le mani si raffreddassero, che le loro impronte digitali sui vetri delle finestre venissero sfumate dalle ali delle falene che andavano a sbatterci contro. Volevo essere sicura che i resti dei loro pasti ancora incastrati nelle tubature si fossero decomposti, che si fossero già dispersi nel mare. Non ero pronta a scendere le cinque rampe di scale, a passare di fronte alle infinite porte dietro alle quali qualcuno poteva ancora star lì in attesa, pronto a chiamarmi con il nome che io avevo dato loro il permesso di usare. Le bocche dei bambini, umide e carnose come funghi, continuavano ad affollare i miei sogni. Lì, le loro manine paffute si aprivano e si chiudevano ininterrottamente nel tentativo di afferrare la mia attenzione.

L’abbaino era posizionato proprio là dove il soffitto era più alto. Stando in piedi sul letto potevo raggiungere facilmente la finestrella e sollevare il vetro in modo che entrasse un po’ d’aria. Poi il soffitto cominciava a scendere, e dovevo prestare attenzione a non sbattere la testa quando andavo in bagno o in cucina, e avrei dovuto accucciarmi un po’ se avessi voluto passare attraverso la porta che un giorno, forse, mi avrebbe portata fuori di lì.

Di fronte al lavandino e ai fornelli c’era un tavolino verde e una seggiola dove avrei potuto sedermi a consumare i miei pasti, se ne avessi mai avuto voglia. Preferivo piuttosto osservare la stanza, da lì. Potevo piegare la testa all’indietro, appoggiare la nuca contro il soffitto spiovente e fissare rapita l’intonaco bianco che spellandosi disegnava figure bizzarre sul muro. Di notte, i topi si impadronivano delle pareti. La loro attività notturna faceva crollare l’intonaco, contribuendo ad un’iconografia in costante evoluzione.

Giusto di fronte a me, largo quasi quanto l’intera stanza, c’era il mio letto. Da dove stavo seduta si vedeva bene il riquadro di luce che entrava dal lucernario e che si spostava sulla superficie grinzosa delle lenzuola. Potevo vedere dov’era stato il mio corpo, le depressioni nel materasso ne attestavano il peso, la sagoma di luce ne indicava le proporzioni. Questi elementi erano così vividi al confronto della mia presenza di osservatrice che mi sono chiesta più volte se non fossi già morta. Mi incuriosiva sapere dove fosse finito il mio corpo.

Mi trovavo lì seduta ad osservare la stanza quando il fatto accadde, quando la cosa arrivò. Oltre la cornice dell’abbaino, il cielo era violaceo e pulsante come un allarme. La finestra era aperta ed entrava un’arietta piacevole che portava su dalla strada un odore di patate fritte e di fiori marci. Mentirei se dicessi che lo sentii arrivare, che lo sentii schizzare via da chissà da dove, che mi accorsi del rumore che produceva facendo attrito con l’aria, oppure che feci in tempo a sentirne il suo canto disperato, il suo odore. La verità è che fu solo quando passò all’improvviso attraverso la cornice della finestra ed entrò nella stanza che me ne accorsi. Pensai fosse un brandello di sole che si era staccato dal troppo calore, e che, come una cometa, stesse per collidere con il mio letto, e con il mio corpo che però non era più lì.

Rimase invece sospeso a mezz’aria con le ali infuocate. Mi avvicinai, aggrappandomi come potevo a me stessa, nascondendo con mani e braccia la mia nudità, e fu lì che, con imbarazzo, pensai per un attimo agli angeli, a quant’erano ambigui. Ma via via che le fiamme gli consumavano la figura, intravidi il piumaggio colorato, non adatto ad un angelo, e la pancia giallina, le ali verdazzurre e le piume annerite che sfarfallavano nell’aria prima di lasciarsi cadere a picco, spegnendosi in volo. Quando fui più vicina, vidi che il dolore gli lustrava i piccoli occhietti scuri con un bagliore vivace che mi sembrò familiare.

Anch’io, come tutti, mi ero dimenticata della sua esistenza. I bambini raccontavano spesso del loro pappagallo colorato, ma solo una volta mi avevano permesso di vederlo. Era confinato nello studio del padre, dove a noi tutti era assolutamente proibito di entrare. Quando tenni finalmente tra le mani l’animale con le piume che sfrigolavano ancora, e gli vidi il cuoricino premere contro il petto spennato, mi domandai come una tale creatura avesse potuto evadere dalla sua gabbia, mentre io, a cui le porte erano state lasciate aperte, io non ero capace di uscire.

Aveva forse preso fuoco dopo essere stato colpito da un raggio di sole, magari amplificato da uno dei tanti vasi che stavano qua e là, sui tavoli o accanto alle finestre, senza contenere un bel niente? E forse proprio con le fiamme si era scavato un passaggio, lasciando dietro di sé, su quegli antichi portoni di legno, sulle pareti tappezzate di seta, il vuoto della sua sagoma carbonizzata, oppure si era sbrogliato dalla sua gabbia dorata e da quella di pietra dei suoi padroni usando soltanto il becco appuntito e tutta l’astuzia appresa in anni e anni al servizio dell’uomo? O era stato solo quando era già in libertà e svolazzava nell’aria rovente che la creatura aveva cominciato a bruciare? Glielo chiesi mille volte, mentre accarezzavo quel poco che restava del suo piumaggio, mentre lo imboccavo con i resti della frutta mezza mangiata da me. Dal suo becco usciva soltanto un tubare basso e desolato, simile a un singhiozzare. Se qualcuno mi avesse chiesto da dove venivo, avrei risposto così. Gli misi nome Jeanette.

Tutto d’un tratto le giornate erano diventate bellissime. Tenevo Jeanette contro il mio petto mentre stavo lì distesa sotto il frammento di cielo che sembrava essersi espanso, era più grande del solito, totalizzante, inclusivo. Le ferite erano guarite in fretta, e qua e là spuntavano già delle nuove piumette che mi facevano il solletico. Al sole, il piumaggio sopravvissuto cambiava colore. Avida com’ero di trasformazioni, reggevo la creatura in alto, spostandola dentro e fuori dal fascio di luce. Mi guardava con gratitudine, con adorazione quasi. A volte premevo il becco di Jeanette contro la mia bocca. Allora lei, spingendo con la sua linguetta grigia, si apriva un passaggio tra le mie labbra screpolate, come se fossi anch’io uno di quei frutti marci di cui si nutriva. Giacevamo così, scavando l’una dentro il corpo dell’altra con astuzia, come per aggiustarci, e continuavamo fin quando il ritaglio di luce spariva, fin quando poi tornava a brillare di nuovo. L’aria era leggermente dolce e soffocante, e la finestra era sigillata con cura affinché Jeanette non scappasse.

Passarono settimane, poi mesi, e il cielo pian piano perdeva colore e lo sostituiva col peso. Il mio corpo era solido, pieno, seppur coperto di fessure in cui Jeanette s’innestava, ricco di protuberanze in cui il suo corpo si poteva posare. Sapeva secernere fluidi che le placavano la sete e sapeva sfregolarsi in briciole che la sfamavano. La luce che arrivava dall’abbaino si aggiustava al mio ventre come se fossi io stessa a generarla, dentro di me.

Era una mattina serena, Jeanette se ne volava in giro per la stanza leggera, come se fosse in parte fatta d’aria anche lei. Il suo piumaggio, ormai guarito, era strabiliante, conteneva colori che io non avevo nemmeno mai visto. Stavo preparando del tè fatto con dei vecchi noccioli di pesca, il suo preferito. Avevo messo la teiera sul fuoco, e mentre stavo lì, distesa ad aspettare che l’acqua bollisse, provavo a spingere via le nuvole con un incantesimo: che settembre, che i bambini, che la fame, non arrivassero mai.

Non sentii la teiera fischiare, o l’acqua gorgogliare contro il metallo smaltato. Non sentii il recipiente che si ribaltava o lo sgocciolare dell’acqua sul pavimento, non sentii strillare. Fu l’odore che finalmente richiamò la mia attenzione. Non sapeva né di pesca né di tè: era un odore acre ma appetitoso, e la sua comparsa improvvisa mi fece strizzare le viscere. Mi alzai e balzai in cucina come se potessi spiccare anch’io in volo. La teiera era stata rovesciata e giaceva su un fianco, e l’acqua bollente cadeva, goccia dopo goccia, sul pavimento. Questa volta non erano solo le piume a essere in fiamme, ma il corpo intero. Si era appollaiata sul fornello, le ali piegate con cura, come covasse, e le fiamme erano prima rosse, poi blu. La sua carne stava già allentandosi ed era pronta a staccarsi, ormai cotta. Rimasi lì ad osservare placidamente, come se fossi anch’io una delle tante figure che emergono dallo scrostarsi del muro. Con uno sguardo deliziato, ardente, per il quale io ero invisibile, Jeanette finalmente bruciava.

Foto di Manfred Richter da Pixabay

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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