La trappola e il diniego. Riflessioni a margine della guerra
di Andrea Inglese
[Questo testo fa parte di un dialogo innescato da Giuseppe A. Samonà in risposta a un mio intervento del 17 ottobre. La sua replica scritta è apparsa il 26 ottobre. Ma lo scambio è continuato per mail e di persona. La capacità di salvaguardare un ascolto reciproco, di continuare a ragionare, pur nel frastuono delle voci della propaganda e delle immagini di morte e distruzione, è qualcosa di importante, anche se appare derisorio di fronte alla potenza dell’accecamento collettivo. Questo è un ulteriore episodio del dialogo, e una riflessione sulla pace a margine della guerra.]
- La trappola di Israele
Caro Giuseppe,
questo mio intervento non vuole limitarsi a un appello generico alla pace o alla nostra comune umanità, per ricordare che, nell’attuale guerra tra Hamas e Israele, le atrocità contro i civili e i crimini contro il diritto internazionale sono perpetrati da entrambi gli attori del conflitto. Spiegherò più avanti perché questo approccio, nella situazione attuale, mi sembra necessario, ma non sufficiente a comprendere quello che sta accadendo. Nemmeno voglio, però, limitarmi a condannare Israele, in nome del sacrosanto diritto all’autodeterminazione dei popoli, ribadendo, come già ti dissi, che non posso non essere filopalestinese. Quanto al giudizio sui bombardamenti indiscriminati e sistematici su Gaza, è stato chiaramente espresso dalle più importati istituzioni internazionali come dalle popolazioni in piazza in una gran quantità di paesi non solo arabi. Le grandi manifestazioni della gioventù di sinistra proprio in Occidente (Stati Uniti, Regno Unito, ecc.) mostrano, per altro, quanto sia difficile giustificare, nel XXI secolo, uno Stato che porta avanti una politica di colonizzazione. Come potrebbe essere altrimenti, visto che da anni ormai uno dei temi progressisti all’ordine del giorno è la lotta contro le discriminazioni perpetrate da individui o istituzioni che, in modo consapevole o inconscio, si arrogano il privilegio della piena umanità, fabbricando un altro da sé disumanizzato? La condanna nei confronti della politica israeliana non ha niente a che fare ovviamente con la negazione del diritto di Israele a esistere, ma vuole anzi essere un invito a una definitiva “normalizzazione”, cioè a divenire uno Stato come qualsiasi altro, fissando una volta per tutte i suoi confini secondo le norme condivise del diritto internazionale.
Il punto che voglio affrontare è comunque più specifico e riguarda non tanto la politica dei dirigenti israeliani – che mantiene per altro una triste continuità nonostante le alternanze di governo – ma la cultura dei cittadini che quei dirigenti hanno bene o male fino ad ora sostenuto. Ma sarò ancora più esplicito: voglio capire come sia possibile, ad esempio, che degli israeliani di sinistra, dei “liberal”, che hanno fino a ieri contestato il governo Netanyahu come corrotto e antidemocratico, oggi lo appoggino in un’azione militare dalle finalità dubbie e dalle conseguenze politiche disastrose, che per di più scredita Israele sul piano del diritto internazionale, a causa dei continui massacri della popolazione di Gaza. C’è qualcosa di assurdo nell’ascoltare editorialisti di “Haaretz” (il più grande quotidiano di sinistra) affermare, da un lato, che la risposta militare contro Hamas è per ora inevitabile (costi quello che costi in termini di vite civili) ma che, dall’altro, finita la guerra, i cittadini israeliani faranno i conti con il primo ministro, la cui politica è risultata disastrosa sul piano della sicurezza nazionale. Questa incongruenza, però, ha una storia ben più lunga, e io l’ho constatata anche, come ti dissi Giuseppe, nelle parole di amici ebrei italiani o francesi di sinistra. Per alcuni di loro, al di là delle malefatte più o meno gravi del governo israeliano in carica, la guerra con i palestinesi appare come una sorta di maledizione, di fatalità, dal momento che il desiderio profondo del popolo israeliano, o di una maggioranza di esso almeno, sarebbe la pace. Senza il nostro dialogo non avrei compreso appieno la natura di questa contraddizione, che riguarda – lo ripeto – non tanto la politica dei dirigenti israeliani, ma la cultura politica della società che li ha in maggioranza eletti e legittimati. Alcuni di questi dirigenti – lo si è visto da quando l’estrema destra è al potere – non hanno alcun problema a rifiutare apertamente qualsiasi ragionevole soluzione di pace, predicando l’estensione ulteriore delle frontiere di Israele sui territori palestinesi. La difficoltà sorge in quella parte della società israeliana che afferma di volere la pace e riesce però a convivere quotidianamente con uno Stato colonialista. Perché una tale situazione si stabilizzi, come è accaduto nella storia di Israele, è necessario introiettare diffusamente un’attitudine sistematica al diniego. Ed è questo, mi sembra, il male più grave della società israeliana, anche di quella parte laica e “liberal” che poco o niente ha da spartire con i fanatici religiosi e con i fascisti che Netanyahu ha portato al governo.
Appare oggi evidente che Israele, come progetto politico nazionale, è prigioniero di una trappola. Ma questa trappola si è andata costruendo fin dall’inizio della sua storia, ed è stata rafforzata attraverso tappe successive. Una trappola costruita da Israele stesso, ma con l’ampia collaborazione delle sue forze nemiche, gli Stati arabi e i palestinesi* (vedi glossa a fine pezzo). Oggi, quella che è stata giustamente definita la “trappola di Hamas”, la trappola in cui Hamas ha trascinato Israele, è possibile anche perché a monte vi è una trappola più vasta e dalle strutture storicamente profonde, che minaccia Israele dal proprio interno. L’ho già scritto nel mio primo intervento, l’ho ripetuto a te voce, ma lo riscrivo qui a scanso di equivoci. Comunque si voglia definire Hamas come entità, quello che ha fatto il 7 ottobre è un atto terroristico, sicuramente un crimine di guerra, che nessuna forma di occupazione coloniale o guerra giustifica né moralmente né militarmente. Nella formula di George Orwell (in un articolo del 1943): “Un’atrocità è un atto terroristico senza un autentico obiettivo militare”.
Ma ritorniamo alla trappola di cui Israele e la sua società sono oggi prigioniere. In una formula estremamente succinta: Israele ha deciso, nella sua storia, in modo più o meno consapevole, di assicurare la difesa del proprio popolo attraverso la forza piuttosto che attraverso il diritto. La trappola è questa. E la storia ha già dimostrato, e purtroppo dimostra ancora, che si tratta di una postura controproducente e distruttiva (per i palestinesi certo, ma anche per gli stessi israeliani). Essa, infatti, presenta due linee di fuga, due prospettive, due tendenze, e nessuna di esse è destinata ad assicurare la pace (e quindi la sicurezza) a lungo termine. La prima tendenza sfocia nella situazione propriamente tragica nella quale Israele si trova attualmente. Uso questo termine, estrapolandolo dalla riflessione che fa Peter Szondi nel suo Saggio sul tragico. Szondi, a un certo punto, analizzando l’Edipo Re, afferma che “l’uomo soccomb[e] proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”. Quello che soccombe nell’attuale situazione in cui si trova Israele nella guerra con Hamas, non è Israele stesso, ma l’obiettivo che si è dato fin dall’inizio: garantire la sicurezza dei suoi cittadini, e questo – ne conveniamo credo tutti – non può avvenire sul lungo periodo che attraverso una situazione di pace condivisa. Non certo lasciando dietro di sé una scia di odio e disperazione, per l’enormità delle vittime civili prodotte tra la popolazione palestinese, come accade oggi.
Vi è una seconda tendenza, che potrebbe imporsi a partire dalla medesima situazione bloccata, una tendenza priva, in questo caso, di ombre o ambiguità. Non sembra tragica, ma puramente criminale: è la soluzione dell’estrema destra più dura, che sogna l’espulsione definitiva dei palestinesi dalla Cisgiordania ed eventualmente anche da Gaza. L’estrema destra israeliana, così come gli elettori che la sostengono, da tempo non fa mistero dei propri obiettivi. Bisogna riconoscere che, anche se nessun “liberal” israeliano è disposto ad accettarla, questa soluzione ha una sua logica stringente: l’unico modo per non concedere ai palestinesi ciò che vogliono – uno Stato – e per continuare a occupare le loro terre in totale sicurezza, è quello di allontanarli definitivamente da Israele e dagli israeliani.
Ho già detto che considero quest’ultima un’opzione non realistica, ma anche se lo fosse, in definitiva, non sarebbe che una variante più spaventosa della situazione tragica: senza i palestinesi alle proprie porte (perché espulsi altrove), gli israeliani potrebbero essere al sicuro, ma non certo tutti gli ebrei sparsi nel mondo e gli israeliani stessi al di fuori del “loro” territorio fortificato. Il terrorismo islamista e antisemita avrebbe sicuramente un lungo futuro di fronte sé al di fuori di Israele.
In termini storici è chiaro che il sionismo è responsabile di questa cultura che affida alla forza piuttosto che al diritto la salvaguardia di Israele, ed è per questo motivo che una critica del sionismo è necessaria per creare i presupposti “realistici” della pace. Una tale critica, per Israele, non avrebbe alcun bisogno di presentarsi come una negazione di sé, ma condurrebbe a una difficile ma sana demistificazione rispetto al mito delle proprie origini e al riconoscimento delle ingiustizie e degli orrori che fanno parte della propria storia nazionale. È un processo questo, d’altra parte, che ha riguardato e riguarda ancora una gran quantità di nazioni nel mondo, a partire dagli Stati Uniti d’America. Insomma, anche in questo Israele non avrebbe né privilegi ma neanche colpe eccezionali: sarebbe una nazione “normale” come tante altre, con un “romanzo nazionale” da sottoporre, in una fase avanzata della sua storia, a lucida revisione critica. (Lavoro di revisione critica, che diversi studiosi e storici israeliani hanno per altro già cominciato.)
Vorrei aggiungere una considerazione sulla scelta del sionismo di scommettere sulla legge del più forte piuttosto che sulla legge del diritto internazionale. E si tratta di un attenuante che va riconosciuta agli ebrei che direttamente o indirettamente hanno contribuito alla nascita dello Stato israeliano in Palestina. Due terzi degli ebrei d’Europa furono sterminati sotto il regime nazista, in virtù di leggi dello Stato, che permettevano di discriminarli, di spogliarli di tutti i diritti civili, d’impossessarsi di tutti i loro beni materiali, di deportarli in massa, di separare le loro famiglie, di farli morire di fatica, di fame, o assassinandoli direttamente. Nessuna legge umana, fuori o dentro la Germania nazista, poté salvaguardare, proteggere, le vite degli ebrei. (E varrebbe qui la pena di ricordare che fu soprattutto la pietà fuorilegge a contribuire in Europa alla salvezza di un certo numero di vite ebree.)
- Perché ci interessiamo della guerra tra Israele e i palestinesi?
Veniamo ora, Giuseppe, ad alcune questioni di cui abbiamo parlato, e che mi preme chiarire anche per iscritto, pubblicamente. Perché siamo qui a parlare di Hamas e Israele, perché seguiamo i bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza, e non ci occupiamo con altrettanta attenzione della guerra che continua ormai da una trentina d’anni nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio? Una guerra che ha prodotto, secondo stime recenti (fine ottobre) un numero di sfollati interni pari a quasi sette milioni di persone. La domanda è pertinente, e la risposta dev’essere chiara. Il destino di israeliani e palestinesi m’interessa molto da vicino per ragioni storiche, è un dato di fatto. Sono un italiano, nato in un paese che ha prodotto il fascismo e ospitato i nazi-fascisti. Ho letto Primo Levi, un italiano ebreo, che dai nazi-fascisti è stato spedito nei campi di sterminio. Vivo attualmente in un paese dove è esistito il regime di Vichy, che ha collaborato alla deportazione nei Lager di decine di migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. Più in generale, sono la storia lunga dell’antisemitismo europeo, oltre a quella breve e devastante della Shoa, e infine la storia del colonialismo europeo (inglese, in particolare) a determinare la nascita dello Stato di Israele nella Palestina mandataria. Inoltre, sono un occidentale, impregnato di cultura statunitense, e gli Stati Uniti sono il principale alleato politico e militare di Israele. Tutti questi elementi, oltre alle mie amicizie con ebrei francesi o italiani, fanno sì che la mia attenzione nei confronti degli orrori e delle guerre nel mondo si rivolga in modo prioritario a quanto accade laggiù. Inoltre, intorno a questa ennesima fase di una guerra mai sopita, si gioca un’altra cosa che mi riguarda: la credibilità di quell’Occidente a cui culturalmente appartengo. Le contraddizioni e le ipocrisie di Israele, degli Stati Uniti, dell’Europa non fanno che indebolire quei valori, che all’interno dell’eredità occidentale, m’interessa difendere come cittadino e scrittore.
- L’approccio umanista e la pietà selettiva
Nel tuo intervento uscito il 23 ottobre su NI, Giuseppe, scrivevi: “è la questione umanista, prima che politica, che mi opprime, mi annoda lo stomaco, e che è importante capire, sciogliere, per poter tornare a parlare e fare politica”. E aggiungevi in un passo successivo: “Laggiù per altro, da una parte e dall’altra, sono comprensibilmente troppo pieni dei propri lutti, della propria paura, per poter pienamente abbracciare i lutti e i dolori degli altri: noi, più distanti, abbiamo il dovere di farlo”.
Ora condivido del tutto quest’ultima frase, e il tuo discorso, più in generale, è stato per me importante, in quanto mi ha costretto a confrontarmi anche con le mie tentazioni di pietà selettiva. Malgrado ciò rivendico l’idea che non sia possibile disgiungere pietà e giustizia, nel momento in cui ci sforziamo di comprendere quanto accade oggi. Non posso quindi limitarmi a un discorso che si appelli alla nostra umanità, di fronte alla minaccia di tutta quella disumanità che vediamo all’opera nel corso di questa guerra tra Israele e Hamas. Naturalmente possiamo tentare di fare questo gesto comunicativo, possiamo tentare di risvegliare in noi – esseri umani, testimoni del conflitto e più o meno coinvolti in esso – possiamo, dicevo, tentare di risvegliare la nostra umanità, e possiamo farlo additando la disumanità, la mancanza radicale di pietà e compassione, esibita dagli attori di questa guerra. Ma la nostra umanità sedicente universale – senza bandiera e colore della pelle, senza appartenenze nazionali e specifiche credenze religiose – appena si pronuncia su questa guerra, vede certe disumanità, ma non certe altre, riconosce le atrocità di Hamas, ma non quelle dei bombardamenti israeliani sulla popolazione di Gaza, oppure riconosce il massacro israeliano dei bambini palestinesi, ma non quello di Hamas sui civili inermi del 7 ottobre. Dove non avviene una sorta di aprioristica selezione, dove i testimoni si pretendono più spassionati, entra in gioco il criterio gerarchico: in questo caso si riconoscerà che alcune disumanità sono più necessarie di altre. Vista la situazione senza via d’uscita del blocco di Gaza (dal 2007) e dell’occupazione palestinese della Gisgiordania (dal 1967), i militanti di Hamas sono stati costretti a commettere delle atrocità; visto l’attacco barbaro del 7 ottobre contro i civili israeliani, Israele è costretto a difendersi militarmente, procurando ingenti perdite civili, nonostante la sua volontà di perseguire unicamente i combattenti di Hamas. Insomma, l’appello alla comune umanità non funziona come l’appello a un superiore e ultimo tribunale, un tribunale senza confini nazionali, esteso ovunque sulla terra, e nello stesso tempo ben custodito nel cuore di ognuno. Il grado di tolleranza nei confronti della disumanità – quella disumanità che ovviamente si esprime vigorosamente in ogni guerra – varia a seconda delle nazionalità, delle convinzioni politiche, delle appartenenze religiose. Questo non significa che un discorso sulla nostra capacità di umanizzarci o disumanizzarci non sia importante, anche riguardo all’attuale conflitto di cui molti di noi sono, nel migliore dei casi, testimoni esterni.
Trovo in un pezzo scritto da Antonio Prete su “doppiozero” (“I corpi, le vittime, la pace” I corpi, le vittime, la pace | Antonio Prete (doppiozero.com)) un approccio consonante con tuo. Egli scrive:
“L’insidia dell’astrazione talvolta può operare togliendo alla pietà la sua propria natura, quella di non avere collocazione di parte, perché prossima alla verità dei corpi, al loro respiro, al loro sentire. È invece da questa presenza corporea della vittima, una presenza singolarmente definita, che può muovere sia l’indignazione contro le forme di potere che portano alla distruzione delle vite umane sia la ricerca delle cause, queste sì politiche, che hanno preparato giorno dopo giorno la scena del disastro.”
Non si potrebbe esprimere meglio il legame che esiste tra pietà e deliberazione politica, ma perché questo nesso funzioni, dev’essere possibile uscire dall’astrazione e avvicinarsi alla singolarità dei corpi. Ed è proprio questo che è difficilissimo fare. Chi è in grado e come è possibile accedere a quello che Prete chiama “la presenza corporea della vittima”? In realtà non vi è nulla di meno trasparente, di meno evidente, di tale presenza. Ne è prova proprio la diffusa empatia selettiva, di cui è impossibile non fare esperienza sia nelle ordinarie discussioni che in ciò che si scrive sui giornali o si dice in televisione. Possono le immagini dell’orrore ovviare a questo? Dobbiamo anche noi, semplici cittadini, vedere il video che l’esercito israeliano ha mostrato ai media internazionali, 44 minuti d’immagini montate appositamente a partire dalle centinaia di ore filmate dai telefonini delle vittime e dei soccorritori, dalle telecamere di videosorveglianza installate nei kibbutz, dalle bodycam rinvenute sui cadaveri degli assalitori uccisi? E basteranno i tre quarti d’ora d’eccidi per avvicinarci alla singolarità dei corpi delle vittime? O dovremmo visionare qualcosa di più “vero”, dal momento che ogni montaggio è una inevitabile forma di manipolazione, d’intervento soggettivo, sulla presunta oggettività di un’immagine documentaria? Dovremmo insomma sottoporci alla visione integrale di tutto quanto è stato filmato il 7 settembre, da vittime, carnefici, occhi elettronici? E i morti di Gaza, i cadaveri dei civili, delle donne, degli anziani, dei bambini soprattutto? Dovremo senz’altro cominciare a guardare anche in direzione di quelle vittime, ma in quale proporzione? Il 22 novembre, ad esempio, le agenzie di stampa riportano la cifra fornita dal governo di Hamas: 14532 persone uccise, delle quali 6000 sono minorenni e 4000 donne. Questi numeri, ovviamente, ci tengono prigionieri della più insopportabile astrazione: ma quante immagini di palestinesi morti sotto i bombardamenti dobbiamo vedere, per convincerci della disumanità della risposta militare israeliana? Basterà passare venti minuti di fronte agli schermi di Al Jazeera, ogni giorno, per visionare tutti i filmati che fanno da sottofondo agli aggiornamenti sulla situazione della popolazione a Gaza o costituiscono specifici reportage su nuovi massacri causati dall’aviazione israeliana? Ma dovremo dare credito a un’emittente televisiva araba, e che, per di più, ha sede in Qatar, nazione che ospita la direzione politica di Hamas?
Fare un discorso che si pretenda innanzitutto capace di percepire il dolore di tutte le vittime non è per nulla facile, anche se è doveroso incitare le persone ad agire in questo senso. Ma anche quando riuscissimo a riconoscere le sofferenze (e le memorie traumatiche) dell’uno e dell’altro popolo, non saremmo di per sé in grado d’immaginare una qualche soluzione del conflitto. Se alla fine tutti sono stati sia vittime che carnefici, tutti sono al contempo responsabili e innocenti. Ma una tale prospettiva, seppure è in parte giustificata, non permette di progredire verso la pace. Inevitabilmente, la questione della giustizia dev’essere sollevata e non rinviata a un secondo momento.
4. Il diniego
Non è necessario entrare ogni volta in un dibattito specialistico sulle occasioni di pace perse tra i dirigenti israeliani e le autorità palestinesi, per constatare un fatto che ho ricordato all’inizio del mio intervento. L’inarrestabile processo di colonizzazione della Cisgiordania, ossia dei territori occupati nel 1967, non è lontanamente giustificabile in termini militari, di sicurezza, ed è la prova che Israele, sia sotto governi di sinistra che di estrema destra, non considera vincolanti le norme del diritto internazionale, nel rispetto delle quali solo potrebbe avere senso una pace duratura. Nello stesso tempo, io credo che una parte della popolazione israeliana voglia la pace, voglia la sicurezza per sé e per i propri figli. Ma com’è possibile volere e non volere la pace nello stesso tempo? Questa domanda riguarda soprattutto i cittadini israeliani, e non i loro dirigenti, dal momento che quest’ultimi hanno perseguito e perseguono i loro obiettivi con triste lucidità. L’unico modo per comprendere una tale situazione assurda è quella di riconoscere che un diniego diffuso abiti la popolazione israeliana e che questo diniego sia un fatto culturale oltre che politico.
Un esempio lampante di questo diniego l’ho riscontrato in un’intervista a una coppia di coloni di Cisgiordania (Oranit), presentata in un documentario di Arte Israele: le strade dell’annessione del 2021 (Israël : les routes de l’annexion | ARTE Reportage – YouTube).
La coppia in questione non corrisponde per nulla al ritratto del colono fanatico religioso o apertamente fascista, che difende l’idea del Grande Israele ed è favorevole all’espulsione dei palestinesi dalle terre che il dio biblico ha assegnato al popolo eletto. Le motivazioni che hanno spinto questi israeliani a installarsi a Oranit sono semplici e del tutto pragmatiche: sono a venti chilometri da Tel Aviv, possono accedere a strade veloci che percorrono i territori occupati ed entrano in Israele (“Se non ci sono ingorghi, in venti minuti sei a Tel Aviv”), il prezzo al metro quadro è straordinariamente conveniente rispetto all’affollatissima e carissima metropoli israeliana. La zona è più amena e priva d’inquinamento che la periferia di una metropoli.
In poche frasi, che riporto qui, marito e moglie esibiscono, in modo innocente ed esemplare, il sintomo della trappola coloniale e dell’attitudine al diniego che permette di tollerarla. Ecco il passaggio dell’intervista, al minuto 16 e 20 del documentario:
“Il marito:
Non siamo qui per realizzare il comandamento divino di popolare la terra di Israele, Non diciamo: abbiamo conquistato questa terra e ci appartiene, e non ci muoveremo. Qui potrete trovare ogni tipo di persona, dei religiosi, dei laici, di tutto.
La moglie:
Questo non ha niente a vedere con la politica. Nessuno qui pensa al fatto che siamo nei territori [palestinesi occupati]. Quotidianamente non ci accorgiamo di nulla, quando torno a casa non vedo nessuno sbarramento, nessuno mi chiede un lasciapassare, o da dove vengo e dove vado, nulla di tutto questo.”
Non è un caso che un’associazione israeliana che milita veramente per la pace si chiami: “Guardare in faccia l’occupazione”. Un semplice proverbio riassume la trappola che Israele ha costruito per sé: volere la botte piena e la moglie ubriaca. I francesi dicono: volere il burro e i soldi per il burro. In questo caso è ancora più parlante. Gli israeliani voglio approfittare delle magnifiche occasioni immobiliari della Cisgiordania e nello stesso tempo vogliono la pace con i palestinesi. La trappola delle colonie, d’altra parte, coinvolge nella contraddizione gli stessi palestinesi. Chi lavora per costruire le superstrade che permettono concretamente l’annessione sempre maggiore delle terre della Cisgiordania? Gli stessi operai palestinesi, che hanno delle famiglia da sfamare, e che vivono in una sorta di limbo territoriale privo di economia e lavoro.
Nessuno può negare che l’orrore del 7 ottobre ha finito con il configurare anche un’allegoria macabra. L’allegoria di una guerra che non solo è sempre e ancora presente, ma che è in grado di assumere (di nuovo) le manifestazioni più estreme e atroci. E tale guerra emerge inaspettata, colpendo magari proprio coloro che siccome non la vogliono vivere, neppure la vogliono vedere. Una testimonianza mi ha particolarmente colpito, di quelle relative a parenti di vittime del massacro di Hamas. Viene da un giovane ragazzo israeliano di ventuno anni che sia chiama Noy Katsman. Interviene in un documentario girato da un altro giovane israeliano, trasmesso sempre da Arte nelle settimane scorse: Israele: vivere dopo il terrore (Israël : Vivre après la terreur | Tracks East | ARTE – YouTube). Noy ha perso suo fratello maggiore nell’attentato di Hamas, un fratello che era un attivo militante per la pace. È breve il suo spazio di parola, ma in qualche minuto dice l’essenziale (dal minuto 21): “Il mio governo non è stato in grado di garantire la mia sicurezza, né quella di mio fratello né quella di tutte le altre persone che vivono in Israele. Ma il nostro governo non vuole riconoscere i propri errori e preferisce attaccare Gaza e commettere delle atrocità che non ci fanno minimamente progredire. (…) Israele bombarda la regione, ma non vedo in che modo questo ci aiuterà a instaurare la pace né a costruire una vita migliore”. Se qualcuno è davvero interessato alla pace (e non, ad esempio, alla vendetta), non vedo come le sue parole possano essere confutate. Certo, non è facile rinunciare alla vendetta, ma Toy mi sembra dire che, ad un certo punto, devi scegliere: o la vendetta o la pace. Non puoi avere entrambe, e soprattutto non puoi dire che t‘interessa la pace, ma adesso bisogna lasciare spazio alla vendetta. La trappola tragica di Israele finisce, però, per colpire anche quelli dei suoi figli che vorrebbero neutralizzarla. È il caso del fratello di Toy, ucciso a pochi chilometri da Gaza, lui che aveva militato sempre contro l’occupazione in Cisgiordania e aveva collaborato con i palestinesi.
Sulla bacheca della sua pagina Facebook trovo oggi un post di una sua amica sulla questione degli ostaggi. Una frase in traduzione risulta del tutto comprensibile: “La più grande minaccia attualmente che galleggia sulle teste dei rapiti è un’operazione militare per salvarli.” Già, un’altra manifestazione della medesima trappola.
E con questo Giuseppe, per ora, passo e chiudo. Senza conclusioni. Senza troppe speranze, se non quella incarnata da gente come Toy, o da quegli ebrei francesi che, in questi giorni, a Parigi, protestano contro l’azione israeliana a Gaza, nell’incomprensione dei molti altri ebrei francesi, che sostengono invece il governo.
⇔
*
Non si vuole ignorare il peso delle aggressioni che Israele, fin dalla sua nascita, ha subito da parte sia degli Stati arabi che dai Palestinesi. Ma la difesa di Israele, fin dalla guerra del 1948-49, ha legittimato un uso della forza che ha spinto Israele al di là dei confini stabiliti delle Nazioni Unite.
Sulle diverse interpretazioni della specificità del “colonialismo” israeliano da parte di diversi storici, fuori e dentro Israele, è possibile consultare un articolo che ritengo equilibrato su Mediapart: De quel colonialisme Israël est-il le nom ? | Mediapart
Infine, qualsiasi critica nei confronti di Israele, del sionismo, della politica coloniale e persino dei bombardamenti disumani su Gaza, non deve implicare l’idea di una fantomatica riparazione, attraverso l’espulsione degli ebrei dai territori israeliani oggi riconosciuti (quelli legalmente riconosciuti). Come scrisse in modo chiaro e del tutto condivisibile Alain Gresh, in Israele, Palestina. La verità su un conflitto (trad. Einaudi 2014):
“D’altra parte, anche se è stato fondato su un’ingiustizia, Israele è ormai uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite. Pensare, come è stato fatto e alcuni continuano a fare, che si possano ‘espellere’ gli israeliani, rispedirli ‘a casa loro’, non è moralmente difendibile né politicamente realistico. Un’ingiustizia non si puo’ riparare con un’altra ingiustizia. Vivono ormai in Terra Santa due popoli, uno israeliano, l’altro palestinese.”
Immagine: Absalon, “Cell. n° 5”, 1992.
Suppongo che questo testo sia stato scritto per tutti, tutt*, non soltanto per Giuseppe Samona’, quindi intervengo brevemente. Confesso la debolezza di essere più sbilanciata dalla parte palestinese, in questa circostanza, come già almeno in occasione dell’operazione Piombo fuso, che già mi era sembrata altamente ingiusta e allucinante anni fa, dalla parte di coloro che oggi sembrano (dico: sembrano, ma so di non sapere; un dio dall’alto forse vedrebbe le cose in altro modo) le vittime, mentre non ho mai assistito a discriminazioni contro gli ebrei nel corso della mia vita, pur avendo letto e studiato la storia ecc. Accanto a questa debolezza ho però la colpa di non essermi interessata abbastanza della questione palestinese, che dura dal dopoguerra, ma di aver solo partecipato a manifestazioni contro gli attacchi a Gaza scaturiti nel tempo. E dell’attacco di Hamas non hai niente da dire?, Mi domanderete. Sì, ho da dire che ha sbagliato, non solo per la violenza praticata contro incolpevoli disarmati, ma anche perché comunque questo attacco, forse riuscito sul piano militare, ha prodotto una reazione che non penso fosse quella desiderata. Non posso pensare che il massacro del proprio popolo fosse l obiettivo per suscitare l indignazione internazionale o una risposta massiccia contro Israele nel mondo arabo, come credono alcuni. Mi convince di più l’ ipotesi, semmai, dibattuta anche da militari su Internet, che fosse d accordo per reazioni a catena con alcuni Paesi del mondo arabo, che però poi non ci sono state per decisioni dell’ultimo minuto. Pur in una logica guerrigliera, insomma, i miliziani di Hamas e simili non hanno dosato bene le forze, non sono stati abbastanza prudenti; avrebbero dovuto limitarsi alla cattura di ostaggi con l’obiettivo di ottenere il rilascio di prigionieri o qualcosa di simile. Facile parlare seduti a tavolino! Infatti. Chi si sente oppresso, maltrattato o disumanizzato non sempre riesce a reagire nella maniera più efficace e perdipiu’ attento a non spargere sangue. Hamas ha sbagliato ma ora la questione è diventata opposta. Come fermare l’azione contraria e inarrestabile di Israele. Chissà perché molti e molte, persino Biden, intravedono qualcosa di simile a tanti 11 settembre nel nostro futuro. La situazione sotto i nostri occhi mediatizzati ci costringe a riflettere seriamente sul da farsi. Il punto è che, a parte manifestazioni e appelli, pare che non ci resti molto. Occorrerebbe soltanto un esercito? Soltanto un intervento armato in difesa dei civili palestinesi massacrati (di semplici persone massacrate prima ancora che dell’ipotetico stato di Palestina) sarebbe risolutivo? Ma non innescherebbe un allargamento del conflitto e quindi più morti e più ingiustizie ancora? Putin si autonomina paladino dei popoli sfruttati, quindi anche dei palestinesi; ma, se entrasse anche in questo conflitto, potrebbe scoppiare davvero una guerra mondiale? La situazione è talmente grave e incandescente (benché sopita in tutti i modi dalle notizie di distrazione di massa, dalle celebrazioni, festività, riti ecc), che davvero potrebbe essere qualcosa di simile a quella precedente la seconda guerra mondiale. Io sarei in teoria una pacifista (in pratica non so se la sono, perché appunto in situazioni estreme non si sa). Ripudierei la guerra come soluzione delle controversie internazionali.
Certo Roberta, questo è un testo pubblico, frutto di un dialogo “in pubblico”. E ti ringrazio di essere intervenuta.
Roberta, reagisco al tuo intervento su un paio di punti. Confesso che mi è praticamente impossibile pensare dopo l’accaduto a come Hamas avrebbe potuto condurre un’azione militare diversa, più legittima. Non so quali effetti “militari” Hamas avesse in testa, a parte far saltare gli accordi in corso tra paesi arabi e Israele. Ma questo obiettivo esigeva un tale massacro? Quello che è certo, è che l’obiettivo raggiunto da Hamas è stato quello di produrre terrore nella popolazione israeliana, mostrando quanto potessero essere vulnerabili, pur avendo il migliore esercito del mondo, ecc. D’altra parte, non riesco neppure di fronte ai sistematici bombardamenti su Gaza a identificare obiettivi militari legittimi da parte israeliana, e l’obiettivo certo che vedo è terrorizzare la popolazione civile, e spingerla ad abbandonare la terra in cui vive.
Vi è un momento in cui il grado di atrocità di un’azione cancella la possibilità di assegnarle una forma di giustificazione militare. E’ il senso della citazione di Orwell che ho fatto.
Sul piano delle atrocità per me è inevitabile attualmente una considerazione simmetrica; quindi come non è giustificabile l’attacco di Hamas, non lo è il grado della risposta israeliana. Ma anche se è già difficile riconoscere questa simmetria, bisogna poi andare oltre, e far entrare in gioco la nozione di giustizia, e aprire la visuale in termini storici ai gradi di responsabilità dei diversi attori nei confronti del contesto generale. Ed è quanto ho cercato di fare in questo intervento.
Chi potrebbe fermare l’azione militare israeliana? Putin, l’Iran, l’Onu? Gli Stati Uniti sono i soli che potrebbero farlo se volessero; sono gli unici in grado di farlo. Come sono stati gli unici in grado, ad un certo punto, di portare Israele e i palestinesi al tavolo della pace.
Precisazioni. Quando c’è tanta carne al fuoco, si danno per scontati particolari significativi che magari sfuggono. A proposito di Hamas (e altre milizie dell’attacco del 7.10) è già universalmente accettato che si tratti di un’associazione terroristica: mi unisco al coro perché non sono sufficientemente preparata in materia di terrorismo internazionale per fare dei distinguo. Segnalo soltanto che per es. lo storico Aldo Giannuli su youtube (in uno dei video su Palestina e Israele ma anche in altre circostanze) butta lì che in genere se dei guerriglieri ci sono simpatici li chiamiamo “partigiani”, se ci sono antipatici li definiamo “terroristi”; ma lasciamo la questione da parte perché è sottile e ci porta altrove. Essendo io poco competente in materia di terrorismo, mi unisco al coro unanime di condanna delle milizie avverse a Israele, anche perché sono molteplici gli errori che hanno commesso (aggiungo alla condanna morale la valutazione che devono esserci stati anche errori di tipo militare). E’ però più urgente ragionare intorno a quello che fa Israele. Alcuni sostengono sia un baluardo della democrazia (però secondo qualcuno non è neppure una democrazia perché non ha una Costituzione scritta) e quindi vada lasciato fare perché in ogni caso è a fin di bene, qualcuno rimane orripilato ma non ha niente da dire, continua a fare marce per la pace, qualcuno pensa con soddisfazione che alla fine (quando? forse fra mesi o anni) Netanyahu sarà condannato da un tribunale internazionale per crimini di guerra. A me questo pensiero non dà alcuna soddisfazione; mi lascia totalmente indifferente come penso lasci lui. Più che disquisire su quale forma di violenza venga perpetrata ai danni dei palestinesi (crimine di guerra? genocidio? caccia a una specie animale pericolosa? semplice azione militare? nulla, perché la guerra è ai capi di Hamas, gli abitanti della zona non c’entrano niente e non vengono presi di mira, si trovano solo al posto sbagliato nel momento sbagliato) per me sarebbe importante fermare il massacro e la distruzione totale di Gaza. Solo gli Usa possono? Mah. Dipende se rientra nei loro interessi fermare l’alleato Israele in un’operazione che è comunque di consolidamento/espansione di una punta occidentale in Medioriente. E ma ci sono a breve le elezioni americane… Contano? Non contano? Non è chiarissimo. La tua osservazione che Stati molto potenti non possono più permettersi il colonialismo è auspicabile, è condivisibile, ma alla prova dei fatti non so. Può darsi che invece induca riflessioni di questo tipo: be’, facciamo una brutta figura, perdiamo un tot di voti ma intanto vediamo quanti, però i vantaggi di un’espansione un po’ più in qui o un po’ più in là ci torna utile adesso, poi vediamo; un altro 11 settembre vale bene quel pezzo di terra… La posizione di chi spera che gli statunitensi siano in fondo buoni, clementi e simpatici come nei loro film è forse l’unica posizione possibile, la capisco. Sarebbe bello che arrivassero sempre “i nostri” a un certo punto e finalmente le armi tacessero perché Biden ha deciso così. Però chissà. Il mondo sta cambiando, i Brics stanno crescendo e non è detto che si debba stare tutti/tutt* sempre appesi al filo di cosa decidono gli americani.
Qui in Italia a me non è piaciuta la scelta dell’attuale governo filoatlantista qualche settimana fa di votare contro persino una semplice tregua umanitaria.
Ringrazio Andrea Inglese per questa riflessione, che ritengo molto accurata.
Pur condividendo molti presupposti e molte conclusioni,
provo a proporre una prospettiva più cinica, ma forse più realistica
(come ogni interpretazione ha pregi e difetti e non è univocamente migliore o peggiore).
Mi concentro sul tema “pace e sicurezza vs colonizzazione”.
1) “un invito a una definitiva “normalizzazione”, cioè a divenire uno Stato come qualsiasi altro, fissando una volta per tutte i suoi confini secondo le norme condivise del diritto internazionale.”
Israele, inteso come stato ebraico, può essere normalizzato? Ho molti dubbi in proposito. Perché per normalizzarlo dovremmo normalizzare la presenza al suo fianco di uno stato palestinese con Gerusalemme est. E’ concepibile questo per Israele? Da quel che ho capito io, leggendo vari autori israeliani, Israele non ha mai pensato seriamente di dare ai palestinesi un vero stato (nemmeno Rabin). Lo stato palestinese è sempre stato pensato demilitarizzato, sotto il controllo di Israele, non autonomo dal punto di vista economico e senza Gerusalemme est capitale – più simile alla Striscia di Gaza governata da Hamas insomma che a un vero stato.
Per cui, non so se sia possibile normalizzare Israele come stato ebraico se per far questo si intende dare uno stato ai palestinesi. Se si intende una grande Israele dal mare al fiume Giordano, sarebbe già più facile. Ma che fine dovrebbero fare i palestinesi? Non potrebbero restare tutti, sarebbero circa la metà della popolazione, e questo non può essere concepibile se si vuole uno stato ebraico – da qui il tema dello stato unico laico binazionale come, forse, l’unico stato “normale” possibile nell’area (possibile in teoria: forse inverosimile quanto uno stato palestinese).
2) E’ molto interessante il discorso sugli israeliani liberal di sinistra che considerano inevitabile la carneficina (e catastrofe umanitaria) in corso a Gaza oggi (ma pensavano lo stesso anche di quelle passate) e poi spostano il problema sul voler mandare via Netanhyau e sul non volere (a parole) uno stato coloniale – i famosi sionisti di sinistra:
“La difficoltà sorge in quella parte della società israeliana che afferma di volere la pace e riesce però a convivere quotidianamente con uno Stato colonialista.”
Questo mi ricorda cosa disse Jeff Halper quando lo vidi a Torino: “Israele non vuole primariamente la pace e la sicurezza. Non prima di altro.”
E’ indubbio che gli israeliani vogliano la pace (chi non la vuole, se è vera pace, ossia assenza oppressione?), ma possono permettersi di fermare le colonie per ottenerla? E sono disponibili a cedere Gerusalemme est
(con tutto il suo peso religioso esplicito o implicito, che coinvolge anche gli ebrei atei [riflessione che manca in questo articolo], ossia il peso di dare ai musulmani la spianata delle moschee, dove si ritiene che sotto ci sia il sacro Tempio)
ai palestinesi? E di dar loro un vero stato, autonomo e con un esercito?
No, io credo di no, secondo me solo pochissimi israeliani, per lo più favorevoli ormai a uno stato laico binazionale per l’eccessiva espansione delle colonie, siano (stati) realmente disposti a una idea del genere, perché questo presuppone
– essersi emancipati dai connotati religiosi dell’identità ebraica sulla terra israeliana (la sacralità dell’area di Gerusalemme, di Sion)
– essersi emancipati dalla paura (vera o presunta, forse più paranoia che paura) della volontà d’annientamento a cui il popolo ebraico potrebbe essere in ogni momento sottoposto (eredità comprensibile della Shoah).
Penso che la mancanza di queste due prerogative sia ciò che hanno in comune la “parte laica e “liberal”” e “i fanatici religiosi e i fascisti che Netanyahu ha portato al governo.”
3) Il discorso sulla “trappola” fa uscire il lato forse cinico del mio discorso.
Trappola di Hamas?
Oddio, forse quel che ha fatto Hamas il 7 ottobre, un atto terroristico senza precedenti per entità nel colpire i civili, un atto terroristico vorrei sottolineare che ha UMILIATO come mai prima centinaia di cittadini israeliani
(non si sa quanto premeditato in tal senso, dato che aveva anche precisi obiettivi militari, e forse, dico forse, inizialmente gli obiettivi primari potrebbero essere stati quelli di prendere tanti ostaggi tra i civili e colpire proprio i militari [son morti circa 350 militari/poliziotti israeliani e non si sa quanti guerriglieri di Hamas, pare tra mille e 1500]),
non è stata una trappola per Israele, ma una opportunità per portare a termine il suo piano coloniale.
“Oggi, quella che è stata giustamente definita la “trappola di Hamas”, la trappola in cui Hamas ha trascinato Israele, è possibile anche perché a monte vi è una trappola più vasta e dalle strutture storicamente profonde, che minaccia Israele dal proprio interno.”
“In una formula estremamente succinta: Israele ha deciso, nella sua storia, in modo più o meno consapevole, di assicurare la difesa del proprio popolo attraverso la forza piuttosto che attraverso il diritto. La trappola è questa. E la storia ha già dimostrato, e purtroppo dimostra ancora, che si tratta di una postura controproducente e distruttiva (per i palestinesi certo, ma anche per gli stessi israeliani). Essa, infatti, presenta due linee di fuga, due prospettive, due tendenze, e nessuna di esse è destinata ad assicurare la pace (e quindi la sicurezza) a lungo termine. La prima tendenza sfocia nella situazione propriamente tragica nella quale Israele si trova attualmente.[…] Quello che soccombe nell’attuale situazione in cui si trova Israele nella guerra con Hamas, non è Israele stesso, ma l’obiettivo che si è dato fin dall’inizio: garantire la sicurezza dei suoi cittadini, e questo – ne conveniamo credo tutti – non può avvenire sul lungo periodo che attraverso una situazione di pace condivisa.”
Ecco, qui il nodo del discorso è: l’obiettivo che si è dato fin dall’inizio Israele è garantire la sicurezza dei suoi cittadini?
Io ipotizzo che molti degli ebrei che sono migrati in Israele negli anni ’30-’40 pensassero di non aver garantita la sicurezza da nessuna parte. E ancor di più gli ebrei migrati subito dopo la Shoah. Di certo i palestinesi non li vedevano con piacere, erano dei coloni contro i quali hanno fomentato rivolte violente fin da prima del ’48. Tutti ricordano il voto del 1947 alla nascente Onu (Onu molto piccola, direi quasi europeocentrica rispetto a oggi) favorevole a uno stato ebraico sul 56% della Palestina storica, un chiaro risarcimento per la Shoah a spese dei palestinesi: quel voto fu molto osteggiato dagli stati arabi, ossia dai futuri vicini di Israele. Lo stato ebraico nasceva, consapevolmente, su una terra con dei vicini ostili: si può dire che avesse garantita la sicurezza? Lo stesso proclamarsi ebraico in una terra dove il 40-45% erano palestinesi in qualche modo legittimava la pulizia etnica degli ebrei negli stati arabi della zona – come avvenne, e Israele ne beneficiò in termini demografici per la sua ebraicità.
Insomma, la nascita di Israele non aveva molto a che fare col trovarsi un posto sicuro, con dei vicini accoglienti.
L’obiettivo primario, io credo, fosse, ed è tuttora, riappropriarsi della terra dell’Israele biblico, in primis tutta Gerusalemme, la città sacra con il Muro occidentale del tempio.
E’ vero che fino al 1967 Israele si è accontentato di non aver tutta la terra fino al Giordano, ma l’aggressività dei suoi vicini gli ha permesso di occuparla quasi tutta, e ora quei territori sono tornati a essere Samaria e Giudea. Non sono territori occupati, per gran parte degli israeliani al massimo sono territori “contesi”.
La soluzione, per Israele, è quella oggi sul campo: tenere i palestinesi sotto una occupazione in stile apartheid nella West Bank e accaparrarsi tutta la terra possibile con l’espansione delle colonie (e conseguente pulizia etnica indotta dei palestinesi).
Hamas, in questo senso, ha fornito a Israele la possibilità di tornare a controllare Gaza palmo a palmo e di proseguire nella pulizia etnica.
E la sicurezza? E’ certamente un obiettivo, ma secondario a questa concezione.
La sicurezza si ottiene con l’esercito, con il Muro, con l’espansione delle colonie, con il controllo capillare della terra, con i patti con gli stati arabi, ormai incapaci di costituire vera minaccia militare.
Certo, non è una sicurezza stabile e ottimale, e fornisce il pretesto per l’antisemitismo contro gli ebrei della diaspora (che non è vero antisemitismo, è dovuto alla politica coloniale israeliana) come giustamente scrive Andrea nella seconda opzione, descritta in modo ineccepibile.
Ma se gli ebrei della diaspora si sentono molto insicuri in Europa, dove potrebbero andare? In Israele.
Che Israele possa beneficiare (in termini di migrazioni) dall’antisemitismo diffusosi in Europa per via della sua politica coloniale lo dicono alcuni intellettuali israeliani, come il sociologo marxista Moshe Zuckermann (intervista sul Manifesto di un mese fa).
4) “l’inarrestabile processo di colonizzazione della Cisgiordania, ossia dei territori occupati nel 1967, non è lontanamente giustificabile in termini militari, di sicurezza, […]”
Di recente ho sentito Cerasa del Foglio insieme a Pacifici da Formigli sostenere che “le colonie vengono costruite per la sicurezza di Israele”, sono avamposti armati (in modo autonomo o con l’esercito alle spalle) che rappresentano un presidio contro i palestinesi terroristi che potrebbero minacciare Israele; insomma, delle protesi che si estendono dal Muro per formare un ostacolo all’aggressione dello stato ebraico. Non a caso vengono chiamate “avamposti di pace”. Nell’ideologia coloniale credo siano una sicurezza. Quanto meno, i coloni forse scelgono di esporsi a qualche rischio in più per proteggere Israele. Per gli abitanti di Israele non credo che le colonie vengano viste come motivo di rischio o pericolo di attacchi terroristici, credo (posso sbagliarmi) che per loro quegli attacchi ci sarebbero comunque.
5) “non considera vincolanti le norme del diritto internazionale, nel rispetto delle quali solo potrebbe avere senso una pace duratura. Nello stesso tempo, io credo che una parte della popolazione israeliana voglia la pace, voglia la sicurezza per sé e per i propri figli. Ma com’è possibile volere e non volere la pace nello stesso tempo?”
Non so se per molti israeliani una pace duratura possa essere il risultato del conformarsi di Israele al diritto internazionale, sia per i motivi già esposti sia perché temo che rispettare il diritto possa costituire per loro un segno di debolezza che potrebbe esporli ai tentativi (veri o presunti) degli stati musulmani nemici di annientarli. Forse mostrarsi forti e duri per loro è preferibile, insieme alle misure misure già descritte nel punto 3).
Queste le riflessioni che affianco a quelle di Andrea.
A Roberta, che scrivi:
“La posizione di chi spera che gli statunitensi siano in fondo buoni, clementi e simpatici come nei loro film è forse l’unica posizione possibile, la capisco.”
Per me ovviamente non è questo il punto. Il punto è che gli Stati Uniti sono gli unici che avrebbero la forza di “costringere” Israele, sia sul piano della politica internazionale sia su quello più diretto della vendita delle armi. E’ una cosa nche anche Chomsky ha ricordato spesso. Solo che non lo fanno, non lo vohliono fare (e per le ragioni che citi), come dimostra il veto che hanno appena messo alla risoluzione dell’Onu per obbligare Israele a un cessate il fuoco.
Poi: “La tua osservazione che Stati molto potenti non possono più permettersi il colonialismo è auspicabile, è condivisibile, ma alla prova dei fatti non so.”
Intendevo dire solo questo: quando Israele ha risposto all’attacco del 7 ottobre con i bombardamenti di Gaza, c’è stato un momento in cui si è assistito a una vera battaglia per conquistare l’assenso dell’opinione pubblica mondiale (che non è omogenea, certo, ma che comunque si esprime in vari modi). Mi sembra chiaro oggi che Israele l’ha persa, e lo testimoniano anche giornali moderati, in genere ben poco critici nei suoi confronti. E l’hanno dimostrato le manifestazioni di piazza. Sul breve periodo, hai ragione a dire che cio’ non cambiera nulla, ma Biden ha già perso i voti dell’elettorato arabo statunitense, che è particolarmente decisivo in certi stati. Quasi dieci anni fa (2014), il “Courrier International” aveva dedicato un dossier a Israele intitolato: “Israele-Occidente, la rottura. Chiuso su se stesso lo Stato ebraico non sopporta più le critiche.” Oggi la situazione è ben più grave. Ormai Israele rischia di avere l’appoggio solo delle destre più reazionarie dell’Occidente e non per amore degli ebrei, ma per odio degli arabi. Tutto questo avrà conseguenza sugli Stati Uniti e su Israele, comunque vadano le cose sul piano dell’azione militare. Anche i peggiori regimi hanno bisogno di esercitare la loro influenza non solo tramite la forza militare, ma anche attraverso l’egemonia ideologica.
Infine: né manifestando in piazza, né ragionando pubblicamente possiamo fermare la guerra e il massacro dei palestinesi, ma starcene zitti non mi sembra un’alternativa migliore. Inoltre, per quel poco che vale, è importante che i palestinesi sappiano della solidarietà che testimoniano le popolazioni, sopratutto in Occidente.
Lorenzo, intervengo su due punti di disaccordo, rispetto a quanto scrivi.
“Insomma, la nascita di Israele non aveva molto a che fare col trovarsi un posto sicuro, con dei vicini accoglienti.
L’obiettivo primario, io credo, fosse, ed è tuttora, riappropriarsi della terra dell’Israele biblico, in primis tutta Gerusalemme, la città sacra con il Muro occidentale del tempio.”
Ecco non condivido questi due punti. Mi sembra una lettura anacronistica e distorta della vicenda di Israele e del sionismo. L’idea, insomma, che tutta la storia di Isarele andrebbe letta in termini dell’ideologia religiosa che solo una sua componente ha espresso, componente che per altro ha acquisito una centralità politica solo in un secondo tempo. Le ragioni per cui non la condivido, stanno già nel mio intervento. Quest’ultimo cerca proprio di cogliere la contraddizione che sta al centro della storia israeliana e che nasce comunque dall’esigenza primaria di “mettere in sicurezza la popolazione ebraica”.
Detto questo sarebbe da discutere quanto le due componenti del sionismo, quella socialista e quella revisionistica, condividesssero, alla fine, l’obiettivo dell’espansione territoriale, ma non certo spinti da un medesimo motivo di carattere religioso.
Su un altro punto: “La sicurezza si ottiene con l’esercito, con il Muro, con l’espansione delle colonie, con il controllo capillare della terra, con i patti con gli stati arabi, ormai incapaci di costituire vera minaccia militare.” Quello che è accaduto il 7 ottobre è appunto la smentita di questo credo. E non ha senso invertire gli effetti con la causa. L’attuale azione militare “difensiva” di Israele puo’ essere considerata un’occasione per ridurre ulteriormente l’autonomia già residuale del popolo palestinese, ma essa sopraggiunge in risposta a un avvenimento non previsto e traumatico.
Andrea,
nella tua risposta scrivi:
“Quest’ultimo [il tuo articolo] cerca proprio di cogliere la contraddizione che sta al centro della storia israeliana e che nasce comunque dall’esigenza primaria di “mettere in sicurezza la popolazione ebraica”.
E dopo: “Quello che è accaduto il 7 ottobre è appunto la smentita di questo [che Israele si difende con il Muro ecc.] credo. E non ha senso invertire gli effetti con la causa”.
Il senso del mio commento è mettere in discussione il tuo assunto di base, ossia che l’esigenza primaria di Israele sia “mettere in sicurezza la popolazione ebraica”. E’ tutta da capire cosa sia la causa e cosa sia l’effetto.
Chiaro che se tu non sei disposto a porti dei dubbi su quell’assunto, tutto quel che scrivo ha poco senso.
Altra cosa è avere opinioni diverse sul ruolo che gioca l’aspetto religioso nel determinare il colonialismo israeliano.
Io credo che tutto il sionismo, che nasce in apparenza laico, abbia introiettato elementi religiosi che si esprimono nel legame inscindibile con la terra, in particolare con Gerusalemme. Lo stesso voler “tornare” in Israele, riappropriarsene dal mare al Giordano, rappresenta una un’introiezione del sentimento religioso che lega gli ebrei ai loro luoghi sacri. Ma lo dico sulla base di quel che sostengono vari ebrei israeliani di sinistra: “il sionismo come movimento nazionalista laico ha inglobato l’idea religiosa di una grande Israele dal Mediterraneo al Giordano. Quindi, sia che al potere vi siano israeliani religiosi, sia che governino dei laici, la politica israeliana non cambia. Per esempio, il progetto delle colonie, volto a occupare tutta la Palestina secondo l’idea religiosa della Grande Israele, è stato sostanzialmente progettato da Begin e Sharon, due ebrei laici.” (Jeff Halper)
A ogni modo, distinguiamo la mia interpretazione dai fatti.
Se consideriamo che l’espansione delle colonie non è stata mai fermata da nessun governo israeliano (nemmeno Rabin l’ha fatto, nonostante i proclami), allora dovremmo quanto meno porci la domanda:
“l’esigenza primaria di Israele è la sicurezza degli ebrei o l’espansione coloniale (che comporta giocoforza la pulizia etnica dei palestinesi)?”
Quello che tu consideri “tragico” per Israele, che chiami “contraddizione” potrebbe essere spiegato sostenendo, detto in modo rozzo, che Israele vuole la botte piena (la sicurezza) pur non rinunciando a ubriacarsi (la colonizzazione). In questa prospettiva, c’è ben poco di tragico.
(Per il popolo palestinese, invece, siamo di fronte a una tragedia tale da potersi considerare un punto di non ritorno che segnerà la storia).
Seconda osservazione.
Sostenere che “l’attuale azione militare “difensiva” di Israele […] sopraggiunge in risposta a un avvenimento non previsto e traumatico” presuppone far proprio il punto di osservazione ideale di Israele.
Se si fa proprio il punto di vista palestinese, nasce una narrazione opposta:
– quanto compiuto da Hamas il 7 ottobre è la reazione a una serie di fatti sul campo che hanno portato all’occupazione di vari luoghi religiosi musulmani, all’aumento dei detenuti amministrativi, all’espansione delle colonie nella West Banck con annesse violenze sui palestinesi ecc. (c’è la dichiarazione di Hamas che fa testo). La Palestina insomma stava scomparendo pezzo a pezzo nel silenzio del mondo e mentre i paesi arabi stringevano patti con Israele: Hamas ha reagito a tutto questo.
Il destino dei palestinesi, secondo me, era già segnato prima del 7 ottobre. Hamas ha deciso di (re)agire contro questo destino TRAGICO, di non accettarlo, nell’unico modo di cui è capace
(ci sarebbero altri modi, per inciso, ma quelli nonviolenti, che vari palestinesi hanno praticato, richiederebbero la nostra cooperazione di occidentali per avere un effetto).
Risultato: un’accelerazione della storia, ossia della fine della nazione palestinese. E’ Hamas a spingere Israele ad agire sul piano militare o è Israele a spingere i palestinesi ad agire sul piano militare? Possiamo dare risposte diverse a questa domanda, ma sul risultato penso siamo d’accordo: sul piano militare le perdite di vite umane dei palestinesi rispetto a quelle degli ebrei israeliani sono in un rapporto almeno di 20 a 1, e insieme alle vite i palestinesi perdono il loro territorio.
In questa narrazione c’è un Israele vicino alla vittoria, se si considera primaria la sua connotazione coloniale.
Lorenzo,
trovo interessante l’interpretazione di Halper, ma continuo ad essere convinto che non si puo’ concepire la storia di Israele e del sionismo al di fuori dell’esigenza primaria di creare un territorio sicuro per gli ebrei, nel contesto della persecuzione e dello sterminio perpetrato dai nazisti. Questo non cancella di per sé l’ingiustizia nei confronti dei palestinesi e la catastrofe seguita all’espulsione di una parte della popolazione.
Detto questo mi pare che tu non colga uno dei punti che mi è interessato affrontare nel mio intervento, ossia il punto di vista non dei dirigenti israeliani, ma della popolazione di sinistra, che si dice per la pace, che magari è apertamente contro le colonie, ma che in casi come questo si schiera a sostegno del governo. Come ho scritto, riconosco che la politica di colonizzazione è stata in realtà favorita da governi sia di sinistra che di destra.
Ho poi usato il termine tragico applicato sopratutto alla cultura nazionale israeliana nell’accezione specifica che ne da Szondi in un preciso passaggio: “l’uomo soccomb[e] proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”.
Se si accetta che uno degli obiettivi del sionismo sia la sicurezza degli israeliani, allora l’uso sistematico della forza piuttosto che la fiducia nel diritto mostra in che senso Israele si sia infilata in una situzione tragica: la via della salvezza (la legge del più forte) non fa che perpetrare la minaccia nei confronti dei cittadini israeliani (finché c’è colonizzazione, c’è guerra).
“Se si fa proprio il punto di vista palestinese, nasce una narrazione opposta:”. Una notazione a lato: nel mio discorso, cerco di costruire una sola narrazione, quella che un testimone esterno, in base ai principi del diritto internazionale (e di alcuni valori morali ampiamente condivisi), puo’ tentare di formulare su questa vicenda. Ed è per questo che mi considero filopalestinese: in base a una possibile narrazione condivisa legata all’Onu e alle sue decisioni. Ovviamente ha senso situarsi dal punto di vista dei due rispettivi attori del conflitto, ma se si è testimoni esterni bisogna poi cercare di trovare degli elementi condivisi, in base ai quali giungere a una sola narrazione la più possibile plausibile, veritiera, intelligibile.
Sono contenta che oggi ci sia stata una bella marcia per la pace ad Assisi, nonostante tutto. Non ci si può rassegnare che soltanto la violenza conti. E voi di Nazione Indiana fate bene a pubblicare i testi di Yousef Elqedra.
Gentile Roberta, ovvio che questo testo non è “solo per Giuseppe Samonà”, cioè per me, anzi, mi verrebbe da dire che “per me” non lo è affatto, nel senso che con quello di cui abbiamo effettivamente parlato io e Andrea, c’entra poco o nulla…
Andrea – che resti caro e amico, anche se (permettimi di prenderti in prestito una parola del tuo titolo) mi hai cacciato in una bella “trappola”… – appunto: in queste tue “nuove” parole, di quel che io e te abbiamo discusso e confrontato c’è, direi, solo l’inizio, certo importante, e su cui peraltro, con piccole sfumature di differenza, ci siamo ritrovati armoniosamente d’accordo (la dannosità-“impoliticità”-criminalità di questa guerra che fa strage di civili, insieme alla necessità di fermarla, nel contempo ponendo fine all’occupazione della Cisgiordania), ma poi mancano altre cose su cui pur ci eravamo, mi sembrava, perfettamente intesi, e che per me sono fondamentali per capire quel che da molti decenni succede in quella regione, in particolare la necessità, come punto di partenza di qualunque discussione, di considerare, rispettare, difendere le due memorie che abitano in quello stesso luogo. Tu invece ti inoltri in una direzione molto diversa, e hai ovviamente tutto il diritto di farlo, ma io non riesco a seguirti, mi ci sento veramente a disagio, ne soffro: quella di un’ambiziosa interpretazione globale del conflitto che da quasi un secolo infiamma il medio-oriente, dove, di fatto (nonostante ogni tanto evochi delle non meglio precisate responsabilità palestinesi e dei loro alleati arabi, che tuttavia sembrano stare là semplicemente per “garantire” imparzialità al discorso, senza veramente “sporcarsi”), dove di fatto dunque attribuisci alla presenza di Israele “in sé”, al sionismo che l’ha informato, sostenuto, guidato, la colpa di aver portato violenza, guerra, uso della forza in quei luoghi: è una variazione, magari più garbata, più intelligente – perché tu sei garbato e intelligente – di una tradizione interpretativa ben conosciuta e molto popolare dentro la sinistra, almeno a partire dagli anni 70.
Ricordi quel che ti dicevo all’inizio del nostro scambio sui rischi della “contestualizzazione a metà”? (Avevo una foto, che non riesco più a trovare, di un graffiti su un muro di Betlemme – in arabo, per altro – che dice più o meno: una mezza verità è peggio di mille menzogne… ). Ecco: nel tuo primo articolo avevo colto un’apertura verso questa “doppiezza”, questa complessità, il che mi aveva permesso – pur con molte esitazioni, come sai – di inserirmi. Qui non la vedo più: certo, ci sono qua e là molte osservazioni che apprezzo, in cui ti seguo (soprattutto all’inizio e alla fine), ma la spina dorsale del tuo ragionamento è appunto orientata in tutt’altra direzione, come se ci fosse stato un cortocircuito, o forse hanno agito dei presupposti granitici che non avevo avvertito e che ti hanno fatto scegliere – magari anche per il lodevole bisogno di immaginare una possibile soluzione – una via unilaterale, più facile, e a mio avviso fuorviante: e devo confessarti, caro Andrea, che se non fossi tirato come si dice “per la giacchetta” (e con la generosità e la passione che ti conosco, e apprezzo, quindi in tua “splendida fede”, potrei aggiungere) eviterei di rispondere anche queste poche righe, non perché non abbia cose da dire, o eviti il confronto, anzi, ma perché questo spazio, in questo modo, con questa prospettiva – e il come si sta sviluppando la discussione lo conferma – è proprio il terreno che io rifuggo, perché favorevole non al confronto ma agli equivoci, alle sterili contrapposizioni, alle polemiche, in cui invece di avanzare nella comprensione si infrangono le amicizie, s’interrompono gli scambi (e io allo spazio in cui siamo riusciti ad ascoltarci reciprocamente, a ragionare insieme, tengo) – eventualmente te ne avrei parlato in una delle nostre rituali chiacchierate “vietnamite”. Ma appunto, mi chiami in causa, ti rivolgi a me: come faccio a tacere? Ma anche: come faccio a parlare?
Avevo scritto una lunga lettera, limitandomi a indicarti a contrappunto delle tue osservazioni alcuni fatti: su chi, come e quando ha introdotto l’uso della forza e della guerra in Medioriente; su come quando e da chi, in quali circostanze, sono state ignorate le risoluzioni delle Nazioni Unite; su come e quando Gaza è stata annessa dall’Egitto, e la Cisgiordania dalla Giordania, e su come in questi paesi vivevano – e vivono ancora, quelli che ci vivono – i palestinesi; sulla storia del sionismo, con le sue gravi ombre – come in tutti, t.u.t.t.i, i nazionalismi – ma anche le sue luci, che quasi tutti a sinistra ignorano, o hanno dimenticato; sulla storia dei “revisionisti”, nemici del gruppo sionista che portò alla nascita di Israele, i cui eredi governano oggi Israele; su chi erano, cosa pensavano, come agivano, come erano o non erano armati i “coloni” della prima fase del sionismo; su come è cambiato il senso, nel contesto mediorientale, del termine “colono”; su come è appunto nato Israele, chi e come l’ha popolato ai suoi inizi; sugli altri nazionalismi presenti nella regione, e sulle altre ideologie connesse o rivali che hanno attraversato e traversano il mondo arabo e palestinese, fra cui quella di Hamas, per via di Israele ma anche a prescindere, con il loro portato di violenza, di intolleranza, di esclusionismo, di razzismo, che nelle tue righe non sono neanche nominati; sul lavoro dei Nuovi storici israeliani, che per altro passano il tempo ad azzuffarsi fra di loro, tanto è intricata quella storia; sul lavoro degli storici più in generale, e in quelle terre, e su quali paesi abbiano messo a loro disposizione degli archivi, e quali li abbiano lasciati chiusi; sulla differenza fra “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”; sull’empatia selettiva della sinistra europea, che giustamente ha manifestato e manifesta in solidarietà con i palestinesi, ma di fatto ha abbandonato negli anni la sinistra israeliana, che non ha mai veramente conosciuto nei suoi diversi aspetti e contraddizioni – e andrebbe invece conosciuta, appoggiata, aiutata, incoraggiata, perché sono gli unici che possono in qualche modo uscire il mondo da questo inferno – e di più: non ha espresso nessuna solidarietà per il massacro del 7 ottobre, che ha in particolare colpito proprio quella sinistra; su come e cosa si scriva veramente su Haaretz, senza riferirsi solo agli articoli che di quel giornale giungono sino a qui; sulla profondità del trauma che il “pogrom” del 7 ottobre (nell’imperfezione di qualunque comparazione storica è, come sottolinea Luigi Manconi, il termine più adatto: “ebrei uccisi perché ebrei”) ha determinato nella società israeliana, e in particolar modo nella sua sinistra, segnatamente colpita fra omicidi, stupri e rapimenti; sul silenzio con cui una parte importante del movimento femminista, per sua stessa natura traversale, ha accolto quegli stupri, come se ci fossero donne di serie a e di serie b (è un’appendice del’empatia selettiva di cui sopra); sulla perversione del principio di innocenza e sui rischi di chiamare all’appello gli “ebrei” – quali, poi? – perché si pronuncino sulle malefatte di Israele (dello stesso ordine peraltro di quando si chiede ai musulmani di pronunciarsi ogni qual volta è stato commesso un attentato); sul rischio e le conseguenze della distinzione fra “buoni” e “cattivi” ebrei; su molte altre cose ancora…
Ma finalmente, questa chilometrica lettera, ho capito che non aveva senso pubblicarla qui, e forse sto sbagliando anche a farti la lista dei suoi, diciamo, “soggetti” (ho esitato anche in questo): perché tu, e soprattutto i tuoi lettori, Roberta, Lorenzo, etc., a quei fatti opporreste altri fatti, anche con ragione! – come quando in un divorzio complicato, doloroso, a un fatto ignominioso citato dall’uno, l’altro oppone un fatto ignominioso uguale e contrario, e non se ne esce più: lo sanno bene i giudici e gli psicologi. Ora io non voglio opporre i miei fatti ai tuoi o a quelli di Roberta o di Lorenzo – appunto il fatale vizio di contrapporre i torti e le ragioni, come le memorie – vorrei leggerli insieme: perché è solo questa lettura complessa, senza scorciatoie, senza semplificazioni, che fa capire, a mio avviso, cosa sta succedendo. Qui, almeno per adesso, la direzione che ha preso la discussione lo conferma, questo confronto spassionato di fatti non è possibile; e insisto, mi ripeto, perché temo che tu non mi comprenda appieno, non è questo o quel fatto o interpretazione che tu metti in avanti che io contesto, con molte del resto sono persino d’accordo: sono le convinzioni nascoste, i punti di osservazione, l’impianto di fondo, l’atmosfera dentro cui il tuo e vostro discorso si snoda a non lasciarmi voce… Perché per l’appunto parli e vi parlate – con gradi diversi di elasticità – fra ‘filopalestinesi’: io, come ho già detto e ripetuto, sono ‘filoentrambi’, considero le ragioni e i torti di entrambi, e con Marx (William, professeur au Collège de France de Littératures comparées, non Karl!, dans Le Monde du 15 novembre) sono portato a pensare – e mi dispiace se le sue parole possono suonare dure – che “quiconque se déclare pour l’un ou pour l’autre camp n’a rien compris à ce qui se passe”.
Era del resto il senso della mia prima lettera. Tu citi, indirettamente, Sofocle; io vorrei citarlo direttamente, anche ricordando gli insegnamenti dei miei maestri Vernant e Vidal-Naquet, per sottolineare che il conflitto tragico insegna proprio – vedi il caso di Antigone – la doppia legittimità di ragioni contrapposte. Ecco: quel che succede da quasi un secolo in Medio-Oriente è, in senso proprio, una Tragedia, che non conosce soluzioni univoche – solo la dolorosa accettazione di tutte le ragioni permetterà, un giorno ahimè temo lontano, di imboccare la strada della pace. Io ho saputo che ci sono almeno tre persone (forse di più? non lo so…) nel girone di Nazione Indiana che sono sulla mia stessa lunghezza d’onda, ma che si sono ben guardate dall’intervenire perché, più sagge di me, hanno capito che per questo soggetto-passione spazio per un vero confronto non ce n’era. Mi pento, in questo senso, di aver pubblicato la mia lettera privata a te, Andrea, ho mancato di saggezza; ma poi anche no: era impossibile che facesse discutere, è vero, e tuttavia ha raggiunto e sostenuto, dato voce a persone con una visione delle cose analoga alla mia – e poi ha permesso a noi due di conoscerci meglio, e questo anche è una cosa buona. Per questo, giovedì 14, verrò ad ascoltarti e ‘sans doute’ ad applaudirti; e anche, se vuoi, parleremo con calma di tutte le cose sopra evocate, e di altre, continuando a incontrarci al nostro piccolo ristorante vietnamita. Ma pubblicamente, rassegnamioci: su questi temi impregnati di passione un confronto in questo modo è impossibile, solo è possibile ritrovarsi con chi già è installato in una prospettiva simile alla nostra. In ogni caso, se proprio vogliamo leggerla in modo più ottimistico, ho detto tutto quel che potevo dire in questo spazio, ho raccolto quel che potevo raccogliere, prolungare i miei interventi non avrebbe molto senso, mi sembrerebbe di parlare cinese in un convegno in cui tutti parlano giapponese, e anche sento in agguato il possibile ‘dérapage’: quindi con questa risposta mi chiamo fuori, anche perché mi annoda lo stomaco continuare a discettare di questo o quell’aspetto del sionismo mentre la gente continua a morire sotto le bombe. Concentriamoci invece su quello che ci unisce: la più che ferma opposizione appunto a questa scellerata guerra, che sta distruggendo Gaza e anche, mi permetto di suggerire, quel che resta della democrazia israeliana – e per l’una e l’altra, anche ‘adesso’ è già troppo tardi, molti danni purtroppo rischiano di essere ormai irreversibili… C’è un modo per fermarla, questa guerra?
Ma vorrei almeno aggiungere per Lorenzo (se avrà avuto la pazienza di leggermi fino a qui) che capisco bene i suoi ragionamenti, alcuni anche li condivido (con la riserva delle “mezze verità” di cui sopra), non per cortesia, ma per via della mia storia: da giovanissimo ammiravo George Habash (pensavo che il bene fosse tutto da una parte, il male dall’altra…), e in ogni caso da sempre ho sofferto e continuo a soffrire per le miserie dei palestinesi, mi impegno per come posso per la fine di una condizione di oppressione, di occupazione che ritengo intollerabile. Solo che poi, essendo storico di formazione e di mestiere prima che scrittore, mi sono interessato alla storia moderna e contemporanea di quella regione (la sua storia antica era l’oggetto del mio dottorato). In quaranta e più anni su quella storia ho letto moltissimo – e non è mai abbastanza –, e anche di quel mondo ho letto moltissima letteratura (ultima lettura, sul comodino, gli scarni, implacabili testi di Yousef Elqedra), che per certi versi aiuta ancora più della storia a raccontare l’umanità e le sue sofferenze, le sue speranze; fra Stati Uniti e Canada dove ho vissuto a lungo, ho anche conosciuto palestinesi e israeliani espatriati o dispatriati, ho parlato con loro, ho maturato delle amicizie, che è sempre diverso dall’astratta lettura di un articolo o di un’intervista e, insieme al consolidarsi di un’avversione ragionata nei confronti di ‘tutti’ i nazionalismi e delle loro mitologie, ho capito che quella storia era molto più complessa, tragica appunto, di come l’avevo vista all’inizio.
A Roberta invece, che dice di non avere mai assistito nella sua vita a “discriminazioni contro gli ebrei”, ma in realtà anche a Lorenzo, che afferma che quello contro gli ebrei della diaspora “non è vero antisemitismo”, vorrei dire che purtroppo questo è una realtà quotidiana in molti paesi di un continente, l’Europa, che a dire il vero, a parte rarissime eccezioni, non ha mai veramente misurato la portata devastante della Shoah. In Francia, ad esempio, dove viviamo io e Andrea. Mi opprime l’animo dover spiegare una cosa che dovrebbe essere evidente per tutti, in primo luogo per gli intellettuali. Mi limito dunque a raccontare un “piccolo” episodio, che risale a ieri, ma è solo l’ultimo di una serie di fatti, più o meno grandi, che testimoniano di un crescente clima di odio, e per cui diverse persone care vivono nella paura. Il mio amico X, dunque, il cui unico torto è quello di aver trovato quando ero giovanissimo rifugio in Israele per fuggire da una dittatura che lo aveva già arrestato, torturato etc. (Israele è l’unico paese che aveva accettato di accoglierlo) e che oramai da moltissimi anni vive in Francia, di sinistra, da sempre impegnato per la giustizia e la pace, contro il governo di Netanyahu etc. si è visto recapitare il seguente messaggio (lo traduco tale e quale, privo com’è di punteggiatura, e mi auguro che nessuno replichi che a causa della guerra in corso è meno grave): “Free Palestine e incula Israele banda di ebrei faremo tornare Hitler per sterminarvi viva Mohamed Merah” [n.d.r.: Mohamed Merah è il terrorista che, insieme ad altri attentati, è stato protagonista di una sparatoria contro una scuola ebraica a Toulouse, che ha fatto diversi morti, fra cui dei bambini ]. C’è bisogno di aggiungere altro?
A Giuseppe:
Non credo di aver compreso a fondo il tuo discorso né di aver capito bene il tuo punto di vista sul tema in oggetto dopo aver letto il tuo ultimo commento.
Ho colto un riferimento a me sul tema della complessità della storia di Israele, e sul fatto che si dicano mezze verità.
E poi un altro riferimento a me sul tema dell’antisemitismo.
Posso dirti questo.
Ogni storia è complessa, se la si vuol comprendere in profondità. Quella di Israele dal 1947 a oggi può anche esserlo in modo superiore alla media. Ma una storia complessa non implica automaticamente una difficoltà nel comprenderla e nel giudicarla. Una storia complessa può anche dar adito a un giudizio netto.
Non vorrei, detto brutalmente, che la presunta complessità della storia sia un modo per giustificare i crimini di Israele, per costellare ogni discorso con un “Sì, ma c’è anche questo, la tua è una mezza verità ecc.”. Non vorrei che discutere diventi una scusa per complicare e cavillare su ciò che, nella sua complessità, può essere perfettamente comprensibile.
Personalmente, ritengo che il principale problema nel porsi verso la questione israelo-palestinese non sia la complessità dell’argomento, della storia, quanto piuttosto l’alto tasso di disinformazione, manipolazione e anche negazionismo dei fatti.
E questo perché sotto la lente ci sono gli ebrei (io cerco di essere molto diretto, proprio per farmi comprendere facilmente), per quanto ci si riferisca soprattutto agli ebrei israeliani. Quando si parla degli ebrei, non lo si può fare con la scioltezza con cui lo si fa per qualsiasi altro popolo o gruppo di persone. Si debbono avere mille accortezze in più, pena molto spesso l’accusa di antisemitismo, che io ritengo l’accusa di razzismo in assoluto più abusata che ci sia.
E qui arrivo al secondo punto. Ciò che ho scritto mi sembra molto chiaro: qualunque azione contro gli ebrei della diaspora che trovi la sua origine nei crimini che commette Israele non è “vero” antisemitismo poiché il vero antisemitismo è un odio e discriminazione verso gli ebrei in quanto ebrei. Insomma, le conseguenze sugli ebrei derivanti da qual che fa Israele non sono vero odio razziale. Mi sembra semplice la questione. Poi, più si identifica l’ebraismo con il sionismo (come sta avvenendo per opera soprattutto di Israele, degli ebrei sionisti in generale e di chi è filosionista) più sarà difficile distinguere l’avversione verso Israele dall’odio razziale verso gli ebrei in quanto ebrei. Ciò che dovrebbe fare qualsiasi persona laica e progressista, a mio parere, è tenere ben ferma la distinzione tra Israele (sionismo) ed ebraismo – come già invocava Fortini nella sua profetica lettera agli ebrei. Resta il fatto che se le comunità ebraiche della diaspora si appiattiscono totalmente sul sionismo e non riescono a muovere critiche nette verso Israele, anzi, ne approvano apertamente ogni iniziativa di guerra, come mi pare succeda in Italia, il problema c’è.
Un’ultima cosa. Tu vivi in Francia.
Dove sono vietate le manifestazioni pro-Palestina per legge, da quando sono iniziati i bombardamenti su Gaza.
Nonostante fin da subito ce ne siano state due, a Bordeaux e a Parigi, molto partecipate. Una mia amica mi ha mandato le foto. E mi ha spiegato i rischi legali per gli organizzatori.
Da noi in Italia come sempre si è dato ampio spazio per gli atti di antisemitismo accaduti in Francia. Ma ben pochi sanno che in Francia le manifestazioni in favore della Palestina sono vietate. Cosa che secondo me è una gravissima discriminazione dei diritti civili.
Eppure si parla dell’antisemitismo.
Dico una cosa giusta o sbagliata affermando che nessun paese europeo si sognerebbe mai di vietare le manifestazioni a favore di Israele?
E se dico una cosa giusta: perché allora nessuno si è scandalizzato del fatto che in Francia si vietino le manifestazioni pro-Palestina: come te lo spieghi? E tutto questo mentre a Gaza è in atto un genocidio, stando a quel che dicono tutti gli esperi Onu per i diritti umani (importante a questo proposito la lettera di dimissioni di Craig Mokhiber, alto commissario Onu di New York, che ha parlato di un caso di genocidio da libro di testo). Quindi, il problema più grande è l’antisemitismo o l’islamofobia?
Ad Andrea:
Se i sionisti di sinistra fossero realmente contrari alle colonie, come molti di loro in effetti affermano, dovremmo chiederci come mai anche i governi israeliani guidati da esponenti di sinistra non abbiano minimamente fermato la costruzione delle colonie. Il che richiederebbe di addentrarci nelle logiche politiche
israeliane. Forse è contraria una parte della base ma gli esponenti politici non hanno il coraggio di prendersi l’impegno in tal senso sapendo lo scontro che aprirebbe nella società civile israeliana?
Questo mi porta al secondo punto:
La difficoltà di una narrazione condivisa, che necessariamente deve prendere in considerazione entrambi i punti di vista. Per esempio, è chiaro che impostare il discorso soltanto sul Chi ha iniziato, non porta da nessuna parte, perché ormai, come in una faida, ogni azione è reazione a quel che ha fatto prima la parte avversa. La storia insomma, diventa circolare.
Basarsi sul diritto internazionale e sulle leggi della politica universali dovrebbe essere la bussola.
Io per esempio, ho smesso da molto tempo di considerarmi filopalestinese. In effetti, non ho niente da spartire con i palestinesi, non li tengo in particolare considerazione, semplicemente li considero un popolo oppresso, persone vittime di grave ingiustizia.
Apro una parentesi.
(Essere vittima, di per sé, non deve essere considerato un merito, come spesso succede nelle più svariate situazioni, come se le vittime avessero sempre qualcosa da insegnarci).
E in base a cosa li considero oppressi?
In base al diritto internazionale. In base al fatto che (citando Sergio Romano, uno dei più lucidi osservatori che io conosca) una legge politica universale dice che se dopo 50 anni non si è ancora trovata una soluzione tra stato occupante e popolo oppresso occupato, per quanti sbagli possa aver fatto il popolo oppresso, la responsabilità maggiore va addebitata allo stato occupante, proprio in quanto occupante ossia detentore del potere di far cambiare la situazione. E’ così banale che vien male a pensare che la maggior parte delle persone si barcamena a parlare di torti e ragioni dell’una e dell’altra parte, di situazione complessa ecc.
Insomma, il fatto che le colonie oggi come oggi, impediscano la fattibilità di uno stato palestinese è responsabilità di Israele. Questo dovrebbe essere a mio parere il punto di partenza di ogni discussione. E se, com’è vero mappa in mano, che la situazione sul campo rende ormai impraticabile la formazione di uno stato palestinese
(per non parlare del fatto che Israele continua ad espandere le colonie, sempre, l’ha fatto anche durante la farsa del cosiddetto processo di pace, tanto che pure Abu Mazen si è defilato: che vi parlo a fare se mentre discutiamo di togliere le colonie voi date ordine di aumentarle?)
si può sapere perché tutti i politici europei, americani e anche quelli dell’Onu, oggi più come mai, a genocidio in corso, continuano a dire: poi però dobbiamo dare ai palestinesi uno stato?
Con questa totale falsa coscienza (ipocrisia?), che progressi potrà mai fare una qualsiasi discussione su questo tema?
Lorenzo Galbiati: “E qui arrivo al secondo punto. Ciò che ho scritto mi sembra molto chiaro: qualunque azione contro gli ebrei della diaspora che trovi la sua origine nei crimini che commette Israele non è “vero” antisemitismo poiché il vero antisemitismo è un odio e discriminazione verso gli ebrei in quanto ebrei. Insomma, le conseguenze sugli ebrei derivanti da qual che fa Israele non sono vero odio razziale. Mi sembra semplice la questione.”
Ok, e con questa frase chiudo i commenti. I commenti avevo deciso di chiuderli per altri motivi, che argomentero’ in seguito, ma questa frase di Galbiati me li fa chiudere subito. E’ un commento che ritengo inaccettabile, almeno sotto il mio post, e sotto il tipo di dialogo che, nei miei limiti, ho cercato di sostenere.
Galbiati non vuole proabilmente riconoscere che gli attacchi terroristici perpetrati in Francia dal 2015, in modo particolare, e che hanno colpito cittadini ebrei francesi (e anche non ebrei), sono ammazzamenti apertamente antisemiti. Perché mai dovremmo discutere dei bombardamenti di Gaza, se uccidere dei civili legati a un certo governo è un’azione politca e militare legittima?
Caro Giuseppe,
Questo dialogo pubblico è nato a partire da criteri condivisi, e si chiuderà allo stesso modo. Si chiuderà perché penso che abbiamo toccato, almeno in forma scritta e pubblica, i limiti di quanto potevamo dirci. Questo non significa che il nostro dialogo è interrotto, ma che continuerà in altre forme, in forma sicuramente privata, ma non proseguirà qui e ora. Questo è quanto tu dici nel tuo lungo commento, ed è quanto io accetto e comprendo. Tu ti chiedi sei hai mancato di saggezza. Me lo chiedo anch’io di rimando, e mi sembra di aver peccato per certi versi di superbia, non solo per aver trasformato un mio articolo, nato in forma autonoma e isolata, in un difficile dialogo pubblico, ma anche per quello che questo dialogo mi ha invitato a scrivere. Vorrei però difendere – prima di tornare al silenzio, prima di lasciarci e di lasciare anche i nostri interlocutori –, almeno un aspetto insito in questo difetto. Quali titoli ho io per intervenire su questa guerra? Per scrivere addirittura qualcosa sulla storia di questa guerra, proponendo chiavi di lettura, riflessioni, analisi? L’argomento – come tu stesso ricordi – è troppo complesso, da un lato, e in più, tocca nervi scoperti degli uni e degli altri in continuazione. Dunque? Che fare? Lasciare la parola solo agli esperti? Ma quali esperti? Quelli che scrivono sui giornali e in tv? E su quali giornali e in tv? E poi cosa vuol dire, tacciamo? Vuol dire che assumiamo tutti una posizione agnostica? Che alla fine rinunciamo radicalmente a ogni pronunciamento? E intendo posizione agnostica non tanto nei confronti di una richiesta di cessate il fuoco, ma di valutazione delle rispettive responsabilità degli attori in gioco. Potrebbe essere la mia, ma nel caso specifico non lo è. Ma anche se lo fosse, vorrebbe dire che, per chi si astiene dallo schierarsi, non ha senso spiegare il perché lo fa? Dare le sue ragioni? Darle in prima persona? Nei miei due interventi, e soprattutto nell’ultimo, ho voluto dare le mie ragioni, argomentare perché io sia filopalestinese. E questo significa: al di là degli errori politici commessi in passato dai palestinesi, prima del 7 ottobre le chiavi della pace erano soprattutto nelle mani di Israele. Da qui il rifiuto di sostenere e difendere la sua politica. Rifiuto che si rinnova ora, per la sproporzione della risposta militare israeliana, che aggiunge atrocità ad atrocità, crimini a crimini, senza risolvere nulla.
Qualcuno a questo punto potrà dire, ma chi se ne frega di star qui a dare le tue ragioni. Bisogna fermare il bombardamento di Gaza, bisogna fermare gli ammazzamenti. Insomma, può sorgere l’idea che, tautologicamente, ci sono cause giuste, che non hanno bisogno di essere giustificate, perché sono giuste. Solo che io sono uno scrittore, e non mi fido tanto di quello che penso e capisco, per questo ho bisogno di articolarlo, di farlo passare al vaglio della scrittura. La scrittura è per me una forma di conoscenza, e di conoscenza responsabile. Perché quello che uno scrive pubblicamente, lo deve poi difendere. E se si accorge di aver sbagliato, deve anche riconoscerlo pubblicamente. Altri potrebbero dire che la superbia o, anzi, la leggerezza ingiustificabile, sta nella pretesa di parlare di queste cose, di questa guerra, io che non sono né israeliano né palestinese, né ebreo né arabo, e che me ne sto seduto a vedere i massacri alla televisione. Su questa obiezione avrei molto da dire, ma in ogni caso la respingo temerariamente. La respingo perché, proprio in quanto scrittore, nego che solo alcuni possano parlare di alcune cose, nego che si possa parlare solo alla prima persona, per esperienza diretta, di certe situazioni. Se accettiamo che esistono solo due punti di vista, quello palestinese, da un lato, e quello israeliano, dall’altro, e che sono poi inconciliabili, allora davvero non ha nessun senso appellarsi a una qualche giustizia internazionale, a una qualche istanza esterna ai due attori del conflitto. Insomma, predicare questa sorta di tesi linguistica (parli di una cosa solo chi ne può parlare alla prima persona) significa non solo riconoscere la parzialità e la relatività di ogni diritto internazionale, ma l’esistenza stessa di una qualsiasi istanza terza rispetto a un conflitto, che si risolverà esclusivamente in virtù di chi vince picchiando più forte. Non sei tu partigiano di questa tesi, dunque non è indirizzata a te questa osservazione.
Ma torniamo al nostro dialogo. È stato un tentativo di comprensione reciproca, per aprire il campo dei fatti e delle interpretazioni secondo una visuale più ampia. Per me non è stato inutile ripeto, sono più consapevole di certi rischi di semplificazione e più attento alle ragioni degli israeliani e degli ebrei della Diaspora, pur nella mia posizione di critica delle politiche israeliane. Questo non vuol dire che la posizione che ho espresso nel mio ultimo intervento sia accettabile per te e, anche se non la riprendi punto per punto, il tuo ultimo commento permette di cogliere il senso globale della tua critica. E poi, per quanto mi riguarda – ma su questo credo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda – sono più amico dei miei amici che della mia verità, anche perché diffido di essa, ne vedo sempre fin troppo bene la sua fragilità umana, personale, ecc. Quindi ognuno ha detto qui una parte di quello che poteva e doveva dire. Chiudiamo per ora il discorso. E quindi anche i commenti. Chi volesse discutere con me del mio pezzo, può scrivermi a questo indirizzo: andrea.inglese@yahoo.it.
Un’ultima cosa vorrei dirla, ripensando alla frase di Roberta, di cui ho capito il senso. Solo che, in Francia, già quella frase funzionerebbe in un contesto ben diverso. L’antisemitismo francese non è solo un retaggio del passato e nemmeno si limita a lettere minatorie o scritte sui muri, che già allarmano e danno il voltastomaco. Qui, in Francia, a Parigi in particolare, l’antisemitismo ha ucciso, e a partire dal 2015, per dare una prima data. Ebrei francesi (e anche non ebrei) sono stati uccisi o feriti gravemente da terroristi armati, in quanto ebrei o frequentatori di locali i cui proprietari erano ebrei. In Francia, su questo i nervi sono davvero scoperti, e lo sono per altro non solo per gli ebrei, ma per gli stessi arabi, che scontano comunque forme di sospetto, discriminazione e stigmatizzazione generiche. E, insomma, sono importanti i dialoghi, per fallibili che si dimostrino, ma anche i contesti dentro cui avvengono.