Ninna Mamma
di Federica Rigliani
Me la ricordo a letto, mamma. E io di lato che cullo il suo dormire.
In casa siamo sempre stati noi due. Una camera ciascuno e la cucina, che odorava di legna e affacciava sull’aia. Lì, quattro galline ovaiole razzolavano tra il basilico e i gerani, compressi nelle latte di pomodoro e addossati tutt’intorno al muro.
Mio padre le ha aperto le gambe una sola volta. A lei ha lasciato me. A me l’altezza, la corporatura robusta e il neo in rilievo sotto l’occhio destro.
Quanto gli somigli, diceva mamma.
Guardi me per rivedere lui, rispondevo.
Lei ripeteva che era una mia ossessione. Che ero io a immaginare, pensare, credere; e che immaginavo, pensavo e credevo male. Ma ero certo: perché vedesse me, dovevo scardinare l’invadente fisionomia paterna che avanzava tra la peluria imberbe del mio viso.
Incurvare le spalle mi ha tolto nel tempo cinque centimetri: parlo col mento sul collo e guardo il mondo con occhi ribaltati. La robustezza l’ho asciugata coi brodi vegetali, orgoglioso delle spigolosità che affioravano e tronfio del sottopeso degno del corpo segaligno di mia madre. E sul neo, grande poco meno della sigaretta che ci ho spento sopra, resta una stigmata purificatrice.
Ho fatto tutto da solo. Di nascosto e con il ghiaccio. Mamma ha gridato quando mi ha visto.
È stato allora che ha chiamato la vecchia.
Capelli bianchi intrecciati a crocchia, gonna nera al polpaccio, scialle corvino. Al collo, un rosario. Con la sinistra sfila un crocifisso dai seni cadenti, lo punta al cielo, lo bacia. Mette l’olio nella scodella piena d’acqua. Recita mugugni. Mi guarda. Una volta, due volte. Alla terza, la chiazza d’olio esplode in tante goccioline; la legna della stufa stride con acuti; lo sportellino di ferro si apre e uno sbuffo grigiastro disegna un vortice in aria.
La vecchia si alza.
Ribalta la sedia.
Inciampa, quasi cade.
Si fa il segno della croce con una velocità che sdoppia il braccio. Picchia forte fronte petto spalla spalla. Strozza le parole tra i denti, strangola l’Amen tra le labbra, appoggia un bacio tra pollice e indice.
Indietreggia. Fronte petto spalla spalla. Bacio.
Mi fissa. Fronte petto spalla spalla. Bacio.
Fa impressione.
Tira fuori un corno rosso e un santino di carta. Leggo: “San Alberto degli Abati”.
Mettiglielo sotto al cuscino. Tuo figlio ha il male dentro, dice. E se ne va intonando una lugubre nenia, con le spalle curve e la voce lamentosa delle préfiche.
Mamma era rimasta incollata alla sedia. Gli occhi di marmo e le mani sulla gonna palmi in su.
Nel mobiletto a specchio del bagno, pasticche e flaconcini. Su uno, sotto a una parola troppo difficile da ricordare, c’era scritto a penna Rilassante. Ho diviso il contenuto in tre e gliel’ho dato per tre sere. Il quarto giorno, non si sentiva bene. Ho chiamato il medico.
Deve riposare. Venti gocce dopo cena per quindici giorni; poi quindici, dieci e cinque a settimana. Vedrai, migliorerà, ha detto prima di uscire. E ha lasciato la ricetta sul comodino.
Ho fatto bene a non credergli e ad aggiungere una dose la mattina e due dopo i pasti. La vecchia doveva averle messo la pazzia in testa coi suoi riti, perché mamma dopo i primi giorni trascinava i passi. In bocca, la stessa nenia: Dormi dormi, mio bambino, che la mamma… Ma non la cantava a me, la cantava e basta: seduta sulla sponda del letto con gli occhi al pavimento; mentre dondolava in cucina sulla sedia impagliata; in piedi davanti alle pentole tracimanti. Io la chiamavo, e lei niente.
Poco mi importava il suo modo di disertarmi quando mi avvicinavo con le medicine: la schiena a metà e l’eterno profilo da cui spiccava quell’unico occhio torvo. Voleva andare da Ada per l’orlo ai pantaloni, dalla signora Gina per il vestito da finire, anche fare la spesa o una passeggiata può distrarmi, diceva. Tutto pur di non stare in casa. Ho cambiato la serratura. Doveva guarire per tornare a vivere.
Prima che si allettasse la portavo a prendere il sole nell’aia: io seduto sui gradini della veranda; lei che dava il mais alle galline e raccoglieva le uova calde nella rimessa. Amava le sue galline. Le teneva solo per le uova, le piacevano così tanto le uova. Quando ero piccolo me le batteva con lo zucchero, ora le battevo io per lei. Dopo i pasti contavo una, cinque, dieci… e le cantavo Ninna Mamma. L’avevo scritta con tutto l’amore che potevo.
Ma lei ha iniziato a rifiutare le gocce. Davanti al bicchiere tirava fuori l’espressione grifagna dei rapaci, arretrava, mi scostava con le braccia lunghe davanti a sé e si voltava dall’altra parte. Per fargliele ingoiare, le aggiungevo allo zabaione e al cibo del pranzo e della cena. Le occhiaie ancora non erano viola, ma le emicranie prendevano il sopravvento. La terapia del dottore l’aiutava, ma a mitigare la spossatezza fisica e l’eterno malessere con cui conviveva erano le mie dosi aggiuntive. Insieme al buio. Perché le finestre sono chiuse anche di giorno? chiedevano le vicine.
Sapevo quanto conforto le desse la penombra, sapevo sempre cos’era meglio per mamma. Quindi ho comprato lampadine fioche e spessi tendaggi marroni. Contavo uno, cinque, dieci… e subito dopo cantavo per lei. Che scuoteva il capo fin quando non si addormentava, con la riversina fino agli occhi stretta tra le dita e il solco nella fronte sempre più profondo.
Ninna Mamma
Fai la nanna
Che nei sogni troverai
Quella pace che non hai
Scaccia tutti i tuoi pensieri
Quelli grigi e quelli neri
Che tuo figlio ti è vicino
Non ti lascia il tuo bambino
Se apri gli occhi te li chiude
Così scaccia le tue pene
E fa buio tutt’intorno
Per il bene del tuo sonno
Ninna Mamma, fai la nanna
Fai la ninna, cara Mamma
È stato il dottore a modificare la cura, a ordinare iniezioni, ad aggiungere capsule. Nausee, vomito e mal di pancia sono comparsi allora. Le gocce di sempre non avevano mai influito su stomaco e appetito. Pur pigramente, mamma aveva sempre mangiato. Per questo continuavo a dargliele. Eppure, si nutriva sempre meno e non si alzava più. Preoccupato per la sua inappetenza, ho tirato il collo a una delle sue galline.
L’ho spiumata in cucina. Su e giù nell’acqua bollente del calderone, tra miasmi di piume marcescenti e carne sudata. Lei mi guardava con disgusto dalla camera. Poverina, l’odore di cibo doveva disturbarla. Ho fatto brodi e bolliti anche delle altre, non li ha voluti mai. Stringeva le labbra, girava la testa, si sbrodolava fin dentro al seno, sporcava le lenzuola. Una, cinque, dieci… poi le capsule, poi le siringhe, poi Ninna Mamma. E finalmente chiudeva gli occhi.
Dopo una settimana, la pelle aderiva al viso tirata e raggrinzita come quella degli stoccafissi.
Ho maledetto la vecchia e ho chiamato l’ambulanza.
Tac, indagini, risonanze, ossigeno, ago a farfalla, flebo in vena. Cinque notti in ospedale senza lasciarla mai. Ninna Mamma, Fai la nanna, Che nei sogni troverai, Quella pace che non hai… Il quadro organico era buono, ma fegato e pancreas erano inspiegabilmente compromessi e i valori del sangue tutti sballati. Non capiamo perché, dicevano i medici. L’hanno predisposta per la nutrizione parenterale e dimessa.
Una, dieci, venti… Spingevo lo stantuffo nei tubicini trasparenti perché le gocce dessero sollievo immediato. Poi, Ninna Mamma… e coperte su coperte da quando strani tremori la attraversavano improvvisi. Scuotevano il letto, tanto erano forti.
A poco serviva alimentare il fuoco nella stufa, mamma tremava sempre. Allora, ho riesumato il prete dalla rimessa. Ho tolto le ragnatele prima di impregnarlo di kerosene e incellofanarlo per due giorni, affinché l’olezzo asfissiasse i tarli. Poi ho messo il braciere nel prete e il prete sotto le lenzuola, rinvigorivo i tizzoni non appena si annerivano e li rimettevo ardenti.
Deve essere stato uno dei suoi tremori a smuovere la brace. Quando ho sentito l’odore di fumo, ho aperto la porta. Un’unica colonna di fiamme univa il letto alle travi del soffitto.
Sotto il sole sbiadito, un piccolo escavatore solleva le zolle.
Frammenti di lettere dorate su fondo viola si mescolano ai sassi e ai cocci di vasi di altri morti, una pioggia sorda che a poco a poco ricopre la bara.
Mi fanno le condoglianze con un cenno del viso. Ogni tanto mi fissano. Se alzo gli occhi, distolgono lo sguardo. Tranne la vecchia. Lei non smette di guardarmi e muove le labbra in silenzio. Riconosco il rosario, e anche gli abiti sembrano quelli di allora. L’avranno portata qui i sensi di colpa.
Ho lanciato un fiore prima che la sepoltura emergesse oltre il livello del prato. Il becchino sorregge la croce provvisoria e si scosta di lato per far spazio al braccio metallico dell’escavatore. Il macchinista lo appoggia sul legno e conficca la croce in profondità. Sostituirla con una lapide degna di mia madre è tra le ultime cose che farò per lei, oltre a comprarle fiori e a farle visita fino all’ultimo mio giorno.
Ti accolga la pace che non hai avuto in vita. Tuo figlio. Depongo il cuscino sulla terra fresca e canto ancora per lei, così a bassa voce che non sento le parole. Sistemo la scritta. Addrizzo il gambo ritorto di una rosa. Allargo la nebbiolina tra le foglie per coprire un buco nella composizione. Sono accucciato quando alla vecchia cade il rosario.
Guarda dietro di me.
Giunge le mani.
Un’ombra mi scavalca e muore lunga sul nome di carta di mia madre. Mi volto. È un uomo alto. Robusto. Indossa un cappotto nero e il cappello a tesa larga è dello stesso colore. Ha un grande neo in rilievo sotto l’occhio destro. Ai suoi piedi, una blatta ribaltata graffia l’aria.