Bookcity
di Roberta Salardi
Olio di gomito per pulire gli elementi della cucina, poi di corsa a un evento pomeridiano di Bookcity. Quest’anno forse riesco a seguirne due o tre, anche se me ne ero prefissa cinque o sei.
Nel grande teatro del centro la sala principale è dedicata alla presentazione di un romanzo storico-rosa che sta spopolando. È difficile entrare per la ressa: una moltitudine di ragazze in coda per farsi firmare le copie dall’autrice ostacola non poco l’accesso alle altre sale che ospitano diversi eventi. Il mio è al primo piano: Mappe nel caos della poesia contemporanea. I relatori cercano di dire qualcosa su un mondo corporativo e autoreferenziale (sic), quello della poesia contemporanea che cita e ordina sé stessa, consegnandosi alla posterità già confezionata in alcune antologie e mappe orientative.
La saletta non è proprio vuota, anzi più piena del solito, perché, a differenza dei tre-quattro ascoltatori che abitualmente costituiscono il fedelissimo pubblico dei reading, qui si stanno concentrando una decina di persone, forse qualcuna in più, delle quali soltanto alcune si salutano, altre è la prima volta che si vedono: e questa sì che è una gran differenza rispetto alle solite letture pubbliche di poesia, dove i pochi convenuti si conoscono, si sono già letti e ascoltati, se la cantano e se la suonano, comunque contenti di ascoltarsi e auscultarsi vicendevolmente. I lettori di poesia sono i poeti stessi, si diceva qualche tempo fa; ora si può aggiungere che i poeti stessi sono anche i critici della poesia. Un relatore osa di più: per un certo periodo i veri e propri critici (quelli non poetanti?) hanno avuto paura a pronunciarsi sulla poesia attuale.
Qui solo un gruppetto chiacchiera, mentre altri presenti, perlopiù estranei, sono calati ciascuno sui suoi appunti, su pagine sfogliate qua e là della rivista che viene presentata o sull’immancabile telefonino. Il mio l’ho spento per evitare spiacevoli interruzioni, odiatissime in questi casi, in ogni altro luogo invece perfettamente consone all’ambiente, tranne in chiesa forse. Il silenzio discreto mi predispone bene fin dall’inizio.
Osservo la quantità di carte stampate e foglietti scritti a mano visibili un po’ dovunque. Se addirittura qualcuno sfoglia degli appunti, vuol dire che vi saranno tanti interventi, rifletto però con una punta di ansia. Rischio di perdere l’evento successivo, non ho molto tempo per fiondarmi da una location all’altra. Vedo schierati alla cattedra quattro relatori: un professore universitario + un assistente che introduce il discorso (era quello pieno di appunti) + un poeta anche giornalista anche conoscitore del mondo editoriale (così si presenta) + un altro poeta anche editore. Tutto si tiene, tutto delinea fin dalle premesse la ragnatela sottostante i discorsi che seguiranno. Gli ambienti di provenienza degli attori/autori in questione sono: l’editoria, il giornalismo culturale annesso e connesso, la frangia di accademia limitrofa alla società culturaleditoriale. Buona parte dei poeti nominati durante tutte le quattro relazioni sono a loro volta redattori o editori o addetti al lavoro editoriale, tra i pochi fortunati superstiti in un settore sempre più ridottosi nei decenni, con manovalanza ormai esigua, marginalizzato dalla più proterva industria dello spettacolo, dell’informazione e dei media.
In ogni caso noi lettori sfigati, che ancora si ritrovano perdendo ore di tempo libero intorno a una rivista cartacea vecchio stampo, siamo ospitati al piano di sopra, in una stanzetta piccola ma sopraelevata; l’esordiente romanziera con grande seguito di pubblico e tante follower in attesa di una copia-feticcio, al pianterreno, che appena fai qualche passo sei sulla strada nella polvere.
“La polvere mangia i libri,” asseriva mia madre invitandomi a spolverare la libreria cui ero tanto affezionata. “Più polvere in casa meno polvere nei nostri cervelli,” pensavo io, la mente fissa agli slogan femministi, il corpo buttato in tutto tranne che nei lavori domestici.
Si analizzano i principali orientamenti della poesia contemporanea, fondamentalmente due, veniamo edotti con un certo sollievo: i lirici e non, i classici e non, i neo-neo-neoavanguardisti (si potrebbero aggiungere prefissi a iosa) e i tradizionali, avanti di questo passo. Uno dei relatori, il più simpatico, pare per un attimo confondersi nel groviglio interpretativo. Sta elencando le ulteriori biforcazioni e ramificazioni (sottocategorie in cui addirittura compaiono sottoinsiemi occupati da un solo poeta, il che comporta una serietà della situazione, perché è vero che ogni artista deve avere una sua originalità, ma anche una comicità derivante dall’immaginarsi il poeta solo sull’isola deserta, tipo il disperato Tom Hanks nel film che tutti conosciamo) di quei due rami principali dell’albero sempre più biforcatosi, che mostrano etichette difficilmente distinguibili l’una dall’altra, espressione di una maniacale esigenza di linneico ordinamento (quasi a dire: siamo qui, canonizzati sul nascere… nasciamo già canone… canonici, codificati, etichettati e chiusi nel nostro apposito contenitore o posti sull’apposito scaffale di una biblioteca nazionale… tutti questi fogli imbrattati ma anche ragionati, ponderati, categorizzati sono già tradizione, nuova, ma pur sempre tradizione, la futura storia della letteratura… ci affrettiamo a sigillare il tutto, a salvarlo dall’oblio in saecula saeculorum eccetera eccetera).
Valuto a più riprese se acquistare una copia della rivista. Accanto alla scrivania delle vendite la maneggio un po’. Hanno parlato molto della copertina, che in effetti è significativa: mostra una grande nuvola foriera di tempesta che sta per abbattersi su delle rovine o su di una città, non è chiaro, la città potrebbe anche trovarsi sotto i bombardamenti e quella nuvola essersi levata dopo un’esplosione. Ci si sofferma sulle possibili letture dell’enigmatica copertina, si scattano molte foto a testimoniare che l’evento c’è stato davvero, nel caso qualcuno per i motivi più strani decidesse di dubitarne. Tutti ammiriamo la copertina ma il ragazzo volontario assegnato alle vendite ci mette in mano un opuscolo, non so se dell’editore o di Bookcity, incoraggiandoci a guardare quello, che è una sintesi e ha il considerevole vantaggio di stringere i tempi: “Questo è gratis”. Non ho tempo di guardarlo; gli avventori dell’evento successivo ci spingono per entrare. Ho rinunciato alla rivista: non sono riuscita a vedere l’indice, troppo complicato in mezzo alle correnti di entrata e di uscita. Le sottocategorie “conoscenza e mondo”, “mondo” senza conoscenza e “conoscenza” senza mondo m’incuriosivano non poco: non era affatto intuitivo capire la differenza tra l’una e le altre.
Il pomeriggio precedente a un altro incontro di Bookcity avevo visto un film sulla biblioteca di Umberto Eco; il film compreso e applaudito, Umberto Eco un po’ meno. In una delle interviste registrate aveva asserito che chi non legge non ha curiosità intellettuali quindi non è vivo. Quanto di più contraddetto dalla mia esperienza di vita: per quello che ho potuto constatare, le persone meno istruite e meno attratte dagli studi sono in genere le più vitali e gioiose. Del docufilm mi avevano affascinato i molti libri inquadrati nella casa di Eco e quelli distribuiti su molteplici piani in alcune grandi biblioteche del mondo, ma le parole dell’erudito showman sotto sotto lasciavano intravedere una sua spocchia da aristocratico che aveva accumulato un non indifferente capitale culturale e, con esso, sapere potere ricchezza. La curiositas certo l’aveva sospinto, ma la sua chiusura nello studio lo aveva forse allontanato da quella sensibilità profonda che invece dimostravano Leopardi, Proust, Cortázar quando parlavano del più bel fiore dell’anno e della vita o delle intermittenze del cuore che casualmente, per una suggestione esterna, un sapore, una luce, ci fanno recuperare il nostro passato perduto o dei nuovi rapporti umani, e sinceri, che potrebbero formarsi se un mutamento radicale avvenisse nel nostro stile di vita.
Mentre mi faccio largo per guadagnare l’uscita, sono attirata dal romanzetto rosa ma ironico della giovane autrice dal nome inglese ma italiana, si sussurra, mentre viene narrato già qualcosa di lei tra le fanciulle in coda. Sì, perché la fila per la firma delle sue copie, passata un’ora, non è ancora terminata. Troppo rosa però per i miei gusti, che sono ancora una ragazza degli anni Settanta e corro a un altro appuntamento con Bookcity, spero problematico, discutibile, contraddittorio, segnato su una mappa ingarbugliata sia per arrivare sia per uscirne.
( Nota dell’autrice: il presente racconto è ispirato a un aneddoto rielaborato liberamente)
forse lei, anzi senza dubbio, non ha mai conosciuto Eco
saluti
Né mi avrebbe interessato conoscerlo di persona. Non condivido il suo percorso intellettuale: da teorico della neoavanguardia a estensore di un romanzo giallo-bestseller. Pur scegliendo, legittimamente, di scrivere un romanzo (benché avesse dichiarato in gioventù che non lo avrebbe mai fatto), avrebbe potuto cimentarsi in temi meno legati all’intrigo, al complotto, tipici dei bestsellers. Un altro erudito più o meno di quei tempi, Manganelli, ha raggiunto risultati notevoli in opere più profonde, per esempio La palude definitiva”.
Bello quest’articolo! Divertente e interessante, riesce a fare una affettuosa critica di questo tipo di eventi. Mi ha anche fatto pensare ai libri di poesia che ogni tanto compro e… raramente leggo.
Confermo: non lo conosce, nemmeno come percorso tra i suoi scritti
Il docu-film “Umberto Eco: la biblioteca del mondo” è un film riuscito, interessante, non facile come argomento ma ben sdipanato dal regista, applaudito da molte persone, anche da me al momento della proiezione durante Bookcity. In una delle numerose interviste e registrazioni di incontri pubblici Eco sostiene che chi non legge (e si tratta di parecchie persone, com’è noto) non è una persona viva. Paradossale, no? E dire che a lui lettore forte-fortissimo sarà capitato certamente almeno una volta fra le mani “Il disagio della civiltà” di Freud quindi doveva conoscere per forza la teoria, molto condivisa, secondo la quale la sublimazione, l’educazione, sopprimono/trasformano gran parte della naturale esuberanza adattandola alle esigenze della vita sociale. L’affermazione di E., oltre che indimostrata e inverosimile (anche in base all’esperienza comune la vitalità umana si esprime in molte forme che non siano la lettura o lo studio), può risultare irritante, enunciata con una supponenza un po’ snob. Sappiamo che spesso le persone colte ed educate sono anche le più fortunate come estrazione sociale, non sempre le più vitali e piene di gioia di vivere peraltro. Se la sua affermazione è falsa e superficiale, quella risposta è un modo per liquidare troppo brevemente un vasto problema. Se dobbiamo prendere per vero quanto candidamente e sfrontatamente affermato dal nostro, è ancora peggio. Se fosse vero che le persone meno istruite o non istruite affatto sono prive di vitalità, spente, forse troppo affaticate dal lavoro per coltivare interessi, per assecondare la loro curiosità di sapere eccetera, la cosa non andrebbe detta col sorriso sulle labbra ma semmai con rammarico, con dispiacere per una delle tante ingiustizie che affliggono l’attuale mondo umano. Il sorrisetto soddisfatto di E. al pensiero che chi non legge libri sia in fondo una persona già defunta (il suo ridere sotto i baffi e il suo burlarsi vendicativo nei confronti di chi ignorava e continuerà a ignorare bellamente anche i suoi libri) dimostra, fosse provata (come non è) tale affermazione, il suo ridere delle disgrazie umane e il suo sentirsene superiore.
Vede, Eco non ha detto affatto che chi non legge non è una persona viva ma
Chi non legge, a settanta anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’Infinito. Perché la lettura è un’immortalità all’indietro.
Eco era spiritoso, divertente, pieno di vita, niente affatto snob, parlava sempre volentieri e giocondo e profondo con noi studenti, quindi immagino con tutti perché noi eravamo perfetti sconosciuti e certamente pedanti per fare un poco di figura con lui, le sue lezioni erano puro godimento e qui mi fermo anche se potrei raccontare molto molto di più.
Consiglio a Nazione Indiana, che amo, di fare più attenzione quando pubblica pezzi come il suo, francamente vuoto e presuntuoso
Ma che brava maestrina! E’ questo che in fondo in fondo il suo Maestro le ha insegnate: la censura! Comunque quell’opinione di Eco sui non-lettori, quella voce dal sen fuggita, è rimasta in un’intervista e adesso in un film. E’ agli atti. Chissà perché Lei la vuole negare.
Il motivo della lettura che rende vivi è un topos umanistico risalente almeno al racconto cavalcantiano di Boccaccio, tradizione a cui Eco si riallacciava consapevolmente nel fare questo tipo di dichiarazioni. Allo stesso modo un certo tipo di polemica vitalista antiletteraria che Roberta riprende qui, è nella linea delle avanguardie novecentesche. Forse sarebbe più interessante collocare qui il dibattito. Quello che devo respingere è la richiesta di censurare un post. E’ una richiesta contraria allo spirito e alla lettera dell’opera dello scrittore, tanto più per un accenno critico, che figure di quel rilievo culturale ricevono non di rado, in un post che si occupa di altro.
Mai chiesto censure, solo stupita, ma molto
L’argomento da cui è derivato il discorso (anche nel film cui mi riferivo a proposto di Bookcity) era il libro classicamente inteso, il libro cartaceo e il suo contenitore per eccellenza, la biblioteca. Il docufilm aveva a tema la biblioteca di uno scrittore famoso. E’ curioso da che sia nata questa breve discussione. Il libro era al centro del discorso ma noi ne stiamo parlando qui su internet, su un sito web, e lo spunto è scaturito perché qualcuno ha costruito un film mettendo insieme stralci di interviste con l’autore che possedeva tutti quei volumi, dialoghi coi familiari di lui, immagini di grandi biblioteche del mondo, con un quesito di fondo che non può non trapelare: nell’era digitale che fine faranno tutti quei volumi conservati, difficili pure da stipare in luoghi adatti, storie magari addirittura di mondi impossibili, di invenzioni fantastiche, strampalate, assurde eccetera eccetera (di quella e di tante biblioteche)? E’ curioso che noi chiacchieriamo in un angolo della blogsfera dopo aver visto un film con interviste registrate a uno scrittore di fama mondiale di cui però forse soprattutto un libro era noto (dall’autore stesso considerato il peggiore dei suoi), gli altri pochissimo citati e ricordati. E’ singolare tutto questo, sebbene la disputa sia nata su un tema non nuovo anzi antichissimo, come ricorda Mascitelli: quello di chi legge e chi no. Persino alcuni dei primi grandi pensatori si domandavano se fosse corretto scrivere o soltanto parlare di filosofia e di cose importanti. Sappiamo che Platone era critico nei confronti della scrittura. Il punto è che prima ancora del cambiamento epocale che stiamo vivendo legato alla digitalizzazione e all’uso planetario di internet, accanto all’uso dei supporti cartacei come strumento per comunicare è sempre esistito il divario fra lingua scritta e lingua parlata. Poiché il nostro linguaggio di animali umani è la lingua parlata. In ogni caso quella parlata viene prima e appartiene indistintamente a tutti i Sapiens. Dobbiamo rassegnarci noi cultori dei libri al fatto che la scrittura e la lettura non sono mai state un patrimonio proprio di tutti, mentre la lingua parlata sì. Anche fra stranieri nella vita quotidiana ci si può intendere a gesti o per frasette standard, mentre è difficile entrare in un discorso scritto in un’altra lingua. Oltre a ciò abbiamo la percezione che la musica, l’immagine, l’immagine in movimento sono arti più immediate, più rapidamente condivisibili rispetto alla scrittura. Mentre la lingua parlata è usatissima, quella scritta non necessariamente e talvolta è stata pure guardata con diffidenza. Forse alcuni si domandano se sia meglio scrivere un libro, visto il punto a cui siamo arrivati, o piuttosto girare un film o postare messaggi sui social come gli influencer, laddove i lettori/seguaci possono subito rispondere e sentirsi coinvolti Tuttavia, dopo millenni dalla sua invenzione, la scrittura continua a interrogarci e ad affascinarci. Nonostante tutto lasciamo dei segni su schermi, usiamo spesso e volentieri lettere dell’alfabeto per comunicare da una parte all’altra del globo: la voce non basterebbe.