Cose da Paz

Quando le macchine danzano, i poeti dormono?

di Massimo Rizzante

Partiamo da qui: la poesia, l’arte in genere, non ama ripetersi. Ciò non significa che non possa ripetersi. Ecco la mia teoria: quando la poesia non si accorge che si sta ripetendo, la Storia inevitabilmente si ripete. Ciò se si crede, come io mi ostino a credere che, a differenza della poesia di Omero, nessuno studio storico potrà mai dirci qualcosa di essenziale su chi sono stati gli antichi Greci.

Da almeno trenta, quarant’anni ci troviamo in questa situazione di ripetizione dell’identico che, sebbene in modi sempre meno fastidiosi, ancora non si è smesso di chiamare epoca “postmoderna”. Parola sbagliata, scrive Octavio Paz in L’altra voce, Poesia e fine del secolo (1990), per più di una ragione. Primo, perché “postmoderno”, che significa letteralmente “ciò che viene dopo il moderno”, dovrebbe semmai chiamarsi “ultramoderno”. Noi contemporanei, che lo vogliamo o no, siamo più moderni dei nostri simili di ieri e dell’altro ieri. Secondo, perché non basta porre un “post” davanti a una parola, montarci su come se fosse un trampolino, compiere un salto triplo avvitato e, una volta riemersi dal tuffo, nuotare d’incanto nelle acque di una nuova situazione storica. Terzo, perché l’epoca cosiddetta “postmoderna” non mi sembra abbia superato del tutto la concezione lineare del tempo e la sua identificazione con la critica, il cambiamento e il progresso, ovvero la concezione di un tempo aperto verso la terra promessa del futuro. Quarto, il “postmodernismo” in poesia e in arte è stata un’invenzione della cultura anglosassone che, con l’arroganza e l’insularità che sono proprie di quella cultura, le ha piazzato un “post” davanti al suo modernismo (Joyce, Pound, Eliot, etc.) facendo finta di dimenticarsi che più di trent’anni prima, agli inizi del XX secolo, in Francia e in Europa quello che in inglese si chiamava Modernism aveva preso il nome di avanguardia. Per non parlare dell’America Latina, dove un certo Rubén Darío diede inizio con la sua poesia al modernismo di lingua spagnola. Pensate che si tratti di una querelle linguistica? Io sono d’accordo con Paz: il mondo è un insieme di parole. O meglio, il mondo è un mondo di parole. Se le parole ci abbandonano, è il mondo che ci abbandona.

 

***

 

Certo, scrive Paz, tutti più o meno sentiamo di essere alle soglie di un’altra epoca.

Tuttavia, non siamo alla fine della storia della poesia né alla fine della Storia (come qualche buontempone pronosticava), ma siamo, questo sì, alla fine di una tradizione poetica. Stiamo assistendo al “crepuscolo dell’estetica del cambiamento”. L’arte e la letteratura hanno perduto la loro forza di negazione, di critica (“Il poeta è moderno perché è critico ed è critico perché moderno”), il loro potere rivoluzionario (“Poesia moderna e rivoluzione sono sempre andate a braccetto”). Da diverso tempo le loro negazioni sono diventate ripetizioni rituali, formule prive di irriverenza e di spirito di rivolta, cerimonie senza trasgressioni. Mi chiedo: a che cosa sono servite le valanghe di studi sul “postmodernismo” che dal 1990, anno della pubblicazione del libro di Paz, ad oggi sono piombate come bombe a grappolo sulle nostre teste indifese? Beh, un risultato lo hanno ottenuto: hanno raso al suolo i pochi bastioni che restavano della critica letteraria, una struttura basata su gerarchie, livelli e talento. Ah l’élite del talento! Il nemico numero uno dei democratizzatori postmodernisti! E così a suon di bombe teoriche hanno fatto fuori (assieme a tutto il resto) il talento e raggiunto il traguardo che si prefiggevano: farla finita con il privilegio del sentire. Non ci sono modi più profondi o più autentici di sentire, e perciò di cogliere il valore di un’opera. I modi di sentire sono tutti uguali e tutti ugualmente importanti. Del resto, chi potrebbe metterlo in dubbio? Ci sarebbe bisogno di qualche transfuga uscito vivo dall’impallinamento postmodernista. Ma dove trovarlo? Forse in qualche casa di riposo per vecchi artisti o in qualche istituto di reduci dall’ultima battaglia sul canone occidentale!

***

 

La nostra civiltà, dicevo, è un motore imballato: per quanto la scienza acceleri, l’arte gira a vuoto. Ciò accade in fondo perché la fede in Dio è stata a un certo punto sostituita dalla fede nella cultura e infine dalla fede nella scienza (e nella tecnica, sua sorella invadente). Se la Storia si trasforma in storia della scienza, cioè se si concepisce l’avanzare della civiltà occidentale solo come progresso scientifico, è evidente che ereditare e rinnovare la storia della poesia (dell’arte, della cultura) non riveste più alcun interesse. Qui Octavio Paz ci avverte. Oggi il posto del greco e del latino lo occupano le scienze. Un cambio, tutto sommato, naturale e giustificato. Per nulla naturale e tanto meno giustificato, afferma, il dominio dello scientismo, una “superstizione moderna”. Eh sì, perché le scienze non se ne sono state al loro posto, ma hanno traslocato abusivamente in campi che non hanno nulla di scientifico: la storia, la società umana, l’individuo, le sue passioni. Per cui una domanda, per quanto démodée, torna attuale: è possibile esercitare le scienze cosiddette esatte senza tener conto di quel grumo di saggezza e di sensibilità che le opere letterarie riescono a sprigionare ad ogni lettura? Risposta di Paz: “Forse, ma il costo è enorme. Né Freud né Einstein hanno mai dimenticato i classici. Beh che gli scienziati di oggi non solo li abbiano dimenticati, ma che non li abbiano mai letti è sotto gli occhi di tutti.

Ecco: la lettura, i lettori, il libro. Un’altra questione su cui Paz riflette. Quanti leggono libri di poesia? Pochi, pochissimi. Certo. Una volta Juan Ramón Jiménez (ripreso da Paz) affermò in una sua dedica che erano “un’immensa minoranza”. Pochi, dunque, ma allo stesso tempo molti, tanto che non si possono contare, “come tutto ciò che è immenso”. La frase, inoltre, può contenere un altro significato: i lettori di poesia, per quanto pochi, sono molti nella misura in cui “partecipano individualmente e collettivamente all’immensità”. E che cos’è l’immensità? Ancora una volta ciò che non si può misurare. Perciò, conclude Paz, i pochi-molti che leggono poesia esplorano “realtà incommensurabili e in quegli specchi di parole scoprono la loro immensità E che cos’è l’immensità? Ancora una volta ciò che non si può misurare. Perciò, conclude Paz, i pochi-molti che leggono poesia esplorano “realtà incommensurabili e in quegli specchi di parole scoprono la loro immensità”. Tuttavia, ancora più che nel 1990, bisognerebbe chiedersi quanti sono i lettori in generale. I lettori, ad esempio, di romanzi. Martin Amis, morto alcuni mesi fa, nel suo ultimo libro, Inside story (2020), notava che romanzi come Lolita (1955) di Nabokov o Il dono di Humboldt (1975) di Bellow (due dei suoi maestri) oggi sarebbero improponibili. Oggi ogni informazione deve essere esposta in un linguaggio elementare: quando c’è da dedurre o congetturare, i lettori non hanno più gli strumenti”. I lettori deduttivi, per così dire, non ci sono più, così come non esiste più la pazienza, lo zelo e il piacere di soffermarsi sui dettagli che spesso sono gli indicatori più importanti per imboccare la strada maestra di un romanzo. Oggi o, meglio, da diversi decenni, prospera quello che Amis chiama il “romanzo aerodinamico, affusolato, accelerato”. Il romanzo “accelerato” è la risposta “al mondo accelerato”.

Forse il romanzo può sfrecciare alla velocità di uno Shinkansen Tokyo-Kyoto. Ma la poesia? In modo ancora più vitale del romanzo ha bisogno di fermare il tempo. Ci impone una epoké, una sospensione dell’assenso al tempo sempre più accelerato che è il nostro tempo. Ci chiede, pur nella sua brevità, più tempo. Più tempo per fermare il tempo. Che cos’è la lettura, in fondo, se non una forma di redenzione per gli innumerevoli peccati di dissipazione del nostro tempo? Leggere, afferma Paz, è “un esercizio mentale e morale di concentrazione che ci porta in mondi sconosciuti che a poco a poco si rivelano la nostra patria più antica e più vera: è da lì che veniamo”. Quanti oggi possono leggere così? Pochi, pochissimi. I più salgono a bordo di un romanzo “aerodinamico” o si gingillano con un romanzo-drone, telecomandato dagli editor del bestsellerismo planetario. Ma Paz non demorde, non si arrende: è in quei pochi lettori che dobbiamo confidare, perché non è nei numeri delle statistiche che “risiede la possibilità che la nostra civiltà continui”.

C’è un aspetto complementare a quello relativo alla scarsa quantità di lettori di poesia: lo scarso numero di esemplari di opere poetiche in commercio. Ora, questo aspetto diventa un problema se non sapessimo come sono andate le cose da almeno due secoli a questa parte. Dalle sue origini, la poesia moderna ha avuto sempre una relazione ambigua con la modernità. Il conflitto si è accentuato soprattutto nel corso dei primi decenni del XX secolo ed è durato almeno fino agli inizi degli anni ottanta. L’indifferenza del pubblico è sempre stata messa nel conto dai poeti moderni, i quali non si sono mai troppo preoccupati di quanti copie vendessero le loro opere, soprattutto le prime edizioni. Andate a vedere quanti esemplari sono stati messi in circolazione delle prime edizioni delle opere di Baudelaire, di Whitman, di Machado, di Seferis, di Montale… La quantità di lettori di poesia diventa un problema se il numero di copie vendute si fa beffe della continuità storica, cioè della capacità di un’opera di infiltrarsi con il tempo nelle vene e nelle menti dei lettori di diverse epoche. Quanti best-sellers sopravvivono al loro successo? E quanti ne vengono riscoperti? Quasi nessuno. Cerchiamo di essere onesti: non sono opere, ma prodotti. I loro autori non hanno cercato, a dispetto della vita, la perfezione dell’opera, come diceva Yeats. Che cosa distingue un’opera da un prodotto? Il secondo viene letteralmente consumato dai suoi lettori, mentre la prima, afferma Paz, ha la proprietà di resuscitare grazie ai suoi lettori. La poesia non cerca l’immortalità ma la resurrezione”. Ora, per credere nella resurrezione, bisogna avere fede. E se la sola religione che ci è rimasta è quella nella scienza e nella tecnologia (dopo la morte di Dio e della cultura), si capisce come le opere si siano ridotte all’osso.

 

***

 

Mi chiedo se il monoteismo scientifico-tecnologico potrà mai accettare l’eresia poetica. Quando le macchine danzano, i poeti dormono? O sonnecchiano in attesa di tempi migliori? O sono tutti morti e non lo sanno? O, ancora, “la mania”, il sacro furore poetico è stato definitivamente sostituito da una laica trance accademica? È possibile, dato che “la mania”, così definita da Platone e dalla medicina antica, era solo un polo dell’inguaribile malattia poetica. L’altro era l’assenza, il vuoto, l’accidia, lo spleen, la mancanza, il non saper che cosa fare della propria vita così priva di forma, così priva di coerenza, così breve, così vulnerabile, così poeticamente morta. Entusiasmo e vacuità, entusiasmo che ogni volta si rinnova di fronte alla vacuità. Elogio della pienezza della vita ed elegia della sua vacuità, anticamera della morte. Forse è questo la poesia. Che ce ne facciamo del consapevole blablà dei professori la cui percentuale di entusiasmo è inversamente proporzionale alla loro capacità di coprire, come ragni laboriosi, ogni mistero poetico con le loro ragnatele teoriche? Non coprono il vuoto, ma il già pieno. Hanno il cervello intasato di idee, mentre i loro demoni, per mancanza di interlocutori, se ne sono andati da un pezzo. E che cosa dire di quell’inferno di stupidità che è il nostro mondo eternamente connesso? Un individuo eternamente connesso non conosce né entusiasmo né vacuità. Non può né elogiare la vita né scoprirne il volto elegiaco. Non è in grado di essere né nemico del presente né amico del passato. Non può far altro che “navigare” in un’attualità senza peso. Fluttuare tra le onde senza sapere dove andare. Nel nostro presente attualizzato i fini evaporano a causa della quantità di mezzi che usiamo per raggiungerli. Troppi mezzi, nessun fine. Troppe possibilità di scelta, nessuna scelta. L’ansia di perfezione ha ceduto il passo all’ansia di accumulazione. Qualcuno, tanto tempo fa, ha scritto che ogni tradizione si conquista. Il passato è sempre in guerra con il presente. E la sola possibilità per un poeta o per un artista di essere originale è quella di partire alla conquista del passato. Dall’epoca romantica fino al surrealismo, scrive Paz, ogni movimento e ogni singolo poeta ha “inventato la sua tradizione”. Senza tale invenzione del passato non c’è nessun futuro artistico, non c’è nessuna possibilità per un poeta di essere letto, in modo probabilmente più profondo, da quelli che verranno dopo. La sua non è “sete di fama, ma sete di vita”. Capite bene che anche in questo caso si tratta di fede. Se ogni poeta, per essere tale, deve diventare un ponte tra passato e futuro, deve credere che i piloni che lo sorreggono siano saldi, o perlomeno non sospesi tra due abissi di cui non si scorge la fine. Il suo smarrimento nel presente non ha nulla a che fare con il fluttuare ondivago nel mare dell’eterna attualità.

 

***

 

Nell’ultimo capitolo, quello che dà il nome all’intero libro, Paz riassume il suo pensiero. Nella tradizione critica e ribelle della modernità, la poesia occupa un posto allo stesso tempo centrale ed eccentrico. Centrale perché è sempre stata a fianco del pensiero critico e sovversivo che ha attraversato il XIX e il XX secolo. È difficile trovare un grande poeta che non abbia partecipato in modo più o meno flagrante a un movimento di emancipazione. Tuttavia, la particolarità della poesia moderna è che è stata “l’espressione di realtà e aspirazioni più profonde e più antiche delle geometrie intellettuali dei rivoluzionari e delle carceri mentali degli utopisti. Ha spesso sfiorato le visioni religiose. Per questo motivo è stata sia rivoluzionaria che reazionaria. In ogni caso eterodossa, eretica nei confronti di tutte le chiese e di tutte le dottrine. Eppure vicina alle realtà più umiliate e riluttante rispetto ad ogni impresa ideologica come a ogni speculazione razionalistica. “Tra rivoluzione e religione, la poesia è l’altra voce”. Che cosa intende dirci Paz?

Intanto che la poesia è voce. Ne rivendica l’origine antica e orale. In solitudine o in pubblico, la poesia prima di essere scritta è detta e il poeta è perciò qualcuno in ascolto. Ma il suo non è un soliloquio. Non ascolta la sua voce, ma l’altra. Chi parla allora? Da dove viene questa voce? Dall’oltretomba? Si tratta di follia, possessione? Di eliotiana impersonalità dell’arte? O di una spontanea facoltà di associare parole, immagini, suoni, forme?

Si può dire che non viene da fuori, ma da dentro e che tutti i veri poeti, in quei “rari momenti sebbene frequenti” in cui sono poeti – l’hanno ascoltata. Si può dire che, essendo voce, parola detta, non è precisamente moderna, ma viene da dove è sempre venuta, almeno da quando l’uomo è uomo. Si tratta di una voce premoderna e perciò antimoderna che fa sì, come scrive Paz, che il conflitto tra poesia e modernità non sia “accidentale, ma consustanziale”. Ecco il passaggio-chiave di tutto il libro:

 

Una poesia può essere moderna per i suoi temi, per il suo linguaggio e per la sua forma, ma quanto alla sua natura profonda la poesia è una voce antimoderna La poesia esprime realtà estranee alla modernità, mondi e strati psichici che non solo sono più antichi ma anche impermeabili ai cambiamenti della Storia. Sin dal Paleolitico la poesia ha convissuto con tutte le società umane; non c’è una società che non abbia conosciuto questa o quella forma di poesia. Ora, benché vincolata a un suolo e a una storia, la poesia si è sempre aperta, in ciascuna delle sue manifestazioni, verso un al di là sovrastorico. Non alludo a un al di là religioso. Parlo della percezione dell’altro lato della realtà. Si tratta di un’esperienza comune a tutti gli uomini di tutte le epoche e che mi pare anteriore a tutte le religioni e a tutte le filosofie.

da Filosofía & Co

 

Post-scriptum

 

La coscienza può essere un perizoma che cerca inutilmente di nascondere la nostra nudità. In realtà, è quasi sempre una rete a strascico che porta in superficie ciò che non vorremmo vedere. Tutto questo per dire che in un mondo retto dalla logica di mercato e dall’efficienza scientifico-tecnologica, per una mente mediamente in sintonia con la nostra epoca la poesia si riduce a essere un oggetto superfluo e di poca utilità: uno spreco. Un uomo ricco di poesia, che cosa possiede? Senza contare che le poesie non si possono mettere in banca. Si devono spendere, cioè dirle. Anche per Paz è un mistero: “le poesie contengono poesia a condizione che questa non venga conservata”. Se nel XXI secolo la poesia potrà essere un “antidoto alla tecnica e al mercato” molto dipenderà da questa misteriosa e poetica facoltà dell’uomo, presente sin dal paleolitico, di donarsi senza chiedere nulla in cambio.

Il testo pubblicato è l’ introduzione a “L’altra voce” di Octavio Paz Mimesis, Milano 2023,

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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