Alcuni metri
di Fabrizio Pelli
Due strade innervano la collina, due fibrille rilassate sul crinale: il monte di neve è sul bivio: Puttana troia, dice, Puttana: sul bivio, proprio sul bivio. Lo guarda, dalla jeep, splenico, sentinella, il guardiacaccia. Lo guarda da dietro il finestrino: non si capisce se brillino gli occhi o il vetro, dietro le percosse del fanale.
Dunque tua moglie non sta bene?, chiede l’amico.
No, risponde lui, Non volevo lasciarla a casa da sola, lei ha insistito che venissi.
L’amico tace: un silenzio lungo fin troppo, che si denatura nel giro di poco. Loro, gli amici, la coppia unita di fronte a lui, granulano l’imbarazzo in una risata.
Cosa si sente?, chiede l’amica.
Le è venuta la febbre dopo, risponde lui, Dopo la frattura, le è venuta la febbre, fra la gamba rotta e la febbre ha preferito stare a casa.
L’amico appoggia la forchetta sul tavolo — un tintinnio.
Con un tintinnio si rompe il moschettone e lei precipita al chiodo di sotto. La gamba, assediata, rimane fra la parete e il suo corpicino — corpicino che schiaccia l’osso. Si rompe senza un rumore. L’urlo cade, pietra, lungo la parete e rimbalza nella valle.
Lui è sotto, legato al chiodo più in basso: la domanda è: come ci si fida del ferro. Lei rimane sola penzolante dall’alto.
Mi sa che dovrà anche dormire da sola, dice l’amica, poi si volta verso la finestra — sembra che la stanza salga: non che la neve scenda.
Nevicava già quando sono partito, dice lui, È già alta la neve?
Molto, dice l’amica.
Alta quanto?, chiede lui.
L’amico si alza e si affaccia. Fa così con le mani, le apre fin dove non vorrebbe: sono distanti.
Rimani a dormire, c’è un letto per te, dice l’amico.
Meglio non mettersi per strada con questo tempo, dice l’amica.
L’uscita di casa, la partenza per andare dagli amici, è stato per lui l’abbandono. Più come se lei abbandonasse lui, che il contrario. Autonomo è la parola che lo poteva descrivere: si sentiva autonomo, capace di essere solo. E, mentre scendeva, non saliva come nelle ferrate con lei, ma scendeva al sicuro nella macchina dalla collina, mentre scendeva per lui era una piccola rivoluzione.
Quando è arrivato a valle, davanti a casa degli amici, guarda la collina alzarsi fino a coprire la luna. La collina, ricorda dalla scuola, è tale fino ai 600 m di altitudine — oltre è montagna: montagna, lui si dice, è tutto ciò che copre la luna.
Non veniva a nevicare così da qualche anno. Un anno è venuta una bufera: la neve si è accumulata sui rami dei pini e per le strade, il giorno dopo, si sono trovati i rami, braccia strappate, per terra.
Un anno, dico, è venuta una bufera, ma è da tempo che non nevica così. Lui si alza dal tavolo e va alla finestra — l’amico si sposta — e la apre. Fuori gli alberi svettano soli dal velo di neve. Sparisce quel che sta sotto alla neve — le cose diventano inesistenti fino allo scioglimento. In un certo senso, è una controversia nicciana: una costruzione e una distruzione; si dimentica, con la neve, quel che sta sotto, fossili i viventi, una strada il letto di un fiume, rovine i palazzi.
Ed è come vivere l’ultimo istante di questa terra: un’eruzione vulcanica; le cose: non altro che corpi pompeiani, divisi dall’aria da un velo di neve, sepolti dallo stesso catrame bianco.
Rimani, dài, avvisala che non puoi andare e rimani, dicono, coro, gli amici.
Ti preparo il letto, dice l’amico, In cambio puoi dare una mano a sparecchiare.
Nel letto non si copre nemmeno. Prova a dormire coprendosi gli occhi con il braccio; l’orologio è proprio di fianco all’orecchio, batte i secondi, ticchetta. Il problema dei secondi è che passano: anzi: non passano: son fermi, lui li attraversa. E a sentirli, quei minuscoli rimbombi incapaci di arrivare all’orecchio — nemmeno se ne accorge, a volte, di sentire il ticchettio: lo sente per un istante e pensa sia un rumore ambientale, bianco, invece è il ticchettio; si chiede, preda, da dove arrivi il battito, a braccarlo, un fruscio nel fogliame, una nocciola che casca — a sentirli, i secondi, gli sembra che vadano troppo veloce: anzi: gli sembra, sembra a lui, di andare troppo veloce.
La neve, invece, tace. Qualche volta, da piccolo, ha provato ad ascoltarla. Si buttava, stava fermo per ascoltare. Non sentiva niente, allora faceva l’angelo: muoveva le braccia così, su e giù, e scavava nella neve uno stampino a forma d’angelo. La neve faceva il rumore di un tessuto sfregato troppo forte.
Prova a chiamarla, ma non prende: non squilla nemmeno, non prende.
Prova a mandarle un messaggio: Troppa neve, dormo qui. Domani mattina torno a casa. Come stai? — non parte, non arriva.
Buonanotte, gli dicono dall’altra parte dell’uscio — La voce è analogica, funziona sempre, pensa.
Non dorme: è passata un’ora e più, ma non dorme. Il messaggio non arriva, con lui nemmeno il sonno. La bufera, fuori, sembra essersi calmata.
Prende le sue cose, le ammucchia sul braccio, le stringe. Scende in salotto: l’amico dorme sul divano, di fianco al camino.
La mano gli trema, ma lascia scritto su un foglio che se n’è andato, che non poteva restarsene lì senza riuscire ad avvisarla: Non sono autonomo, scrive. Poi esce, schiaccia la neve fino alla sua macchina. Con due calci abbatte il monte che si è formato di fronte alla portiera.
Una volta sedutosi, dal vetro guarda la porta della casa degli amici: le tracce si sciolgono lentamente in altra neve, scompaiono come se non fosse mai esistito — spariscono così le tracce dalle case, dalle stanze. E si chiede se, una volta morto, rimarranno delle tracce, se qualcuno si ricorderà della sua presenza: se lei o un genitore andranno a frugare nella sua roba, cercando significati in una foto strappatosi per errore, in un pantalone che gli era stato regalato rimasto con il cartellino attaccato. Si chiede se sia mancato anche a lei, ora che il messaggio non le era arrivato; se lei, nel letto, stanca di febbre, si chieda di lui.
Accende la macchina e, con lei, si accende una luce in salotto: dalla finestra l’amico, sentinella, lo saluta con la mano.
La strada è pulita fino al bivio. Dal bivio partono due strade che innervano la collina, due fibrille rilassate. Puttana troia, dice: sul bivio è crollato un albero, su di esso la neve ha formato un monte. Strada bloccata fino all’arrivo dei soccorsi — soccorsi, però, che non arrivano da ore, dice il guardiacaccia, uscito dalla macchina mentre lo ha visto arrivare.
Non riescono ad arrivare, dice, C’è troppa neve, e troppe piante hanno ceduto sotto la neve.
Abito di sopra, come ci arrivo?, chiede lui.
Non ne ho idea, risponde il guardiacaccia, Ha presente la via Emilia in centro? Il vialone alberato? È tutto bloccato dai rami caduti. La gente ha paura di non poter arrivare in ospedale. Sgombreranno prima quella e finiranno domani mattina.
Domani mattina, dice a se stesso.
Il guardiacaccia risponde comunque: Comunque era stato detto in TV, dell’allerta meteo, lo dicono da giorni, dice, Ci stia attento la prossima volta.
Lui non risponde — guarda la montagna di neve.
Esce dalla macchina mentre il guardiacaccia torna alla sua. Arriva fino ai piedi della montagna di neve: non copre la luna. Non è una montagna, dice, ma è alta alcuni metri, alta così, pensa, tanto così, e nella mente apre le braccia più di quanto vorrebbe. Si butta sulla neve, che tace persino quando sprofonda — la gamba rimane fra lui e la parete, ma sprofonda, la scava, non si rompe. Prova ad arrampicarsi sui rami dell’albero sepolto.
Un uomo sulla neve — un ragno su un muro.