Qualche infedeltà
di Walter Nardon
A volte, tutto sta nel trovare un buon pretesto. Non che debba per forza essere inattaccabile, anzi è meglio se lascia trasparire una sua distesa anonimità: il fatto è che a una verifica superficiale, l’unica alla quale in genere sarà sottoposto, deve reggere, apparire plausibile. Superata questa soglia, tutto procede senza intoppi. Del resto, contrariamente a quel che si crede, la gente non si interessa che in apparenza dei fatti degli altri, che fungono per lo più da distrazione davanti alla reale portata delle esigenze personali. Grazie alla complicità del mio amico Luca Rigino, che dava una mano all’Associazione La natura e noi, ero riuscito a introdurmi nella discussa residenza di Riboni per dare un’occhiata al corridoio dei quadri. Correva voce che avesse speso una cifra inverosimile, tanto che – si diceva – per evitare guai e sollecitare il meno possibile l’eventualità dei furti d’arte, i suoi legali lo avevano consigliato di aprire una galleria privata, eventualità che mi sembrava eccessiva, date le sue scarse conoscenze in ambito artistico. Naturalmente, Riboni non c’era. Ci aprì sua moglie, anzi aprì a Luca che doveva venire a ritirare le magliette per un’iniziativa organizzata con le scuole sulla difesa della natura. Io ero lì per dare una mano. Superato un giro scale ordinario in marmo, si accedeva all’ingresso. Poco oltre un secondo portoncino d’entrata, in penombra, ecco il corridoio: lo percorremmo a passi regolari senza accendere la luce mentre aspettavamo che la signora Lucia andasse a prenderci la borsa. Forse la fama aveva portato con sé qualche esagerazione. Da ambo i lati, sul muro, c’era forse una trentina di quadri di dimensioni diverse e degli stili più vari, in prevalenza contemporanei e astratti; ma di un astrattismo che aveva un certo credito a livello locale: un fondo per lo più scuro, blu o nero, popolato di poche forme geometriche, di rette e di triangoli, come in alcuni quadri meno noti di Kandinskij. Forse a Riboni piacevano, o magari conosceva l’autore, a cui probabilmente aveva cercato di dare una mano (non era facile indovinare la relazione che aveva favorito gli acquisti). Alcune tele di fine Ottocento ricordavano i macchiaioli e comprendevano scene campestri e paesaggi di alta montagna; più ordinari, però, questi ultimi, lontani da Segantini, dominati dal grigio, o altri da un rosa un po’ troppo acceso a riprodurre convenzionalmente l’alba. La maggior parte dei quadri si disponevano dunque secondo queste due tendenze: quella figurativa, che appariva comunque più autentica, e una invece contemporanea rivolta agli intenditori d’arte locale, messa insieme per non sfigurare, assicurando il visitatore che il gusto, anche in fatto di pittura, era aggiornato. Ma c’era dell’altro. In quei pochi minuti in cui aspettavamo il ritorno della signora, mi sembrò che si facesse strada un terzo elemento, una dominante che interessava entrambe le tendenze, una nota scura e un po’ insidiosa, quasi una sospensione in un che di allarmato. Mi sembrava di intuire che questa nota potesse derivare non da lui, ma proprio da lei, che sapevamo più volte tradita e che in questo modo, chissà, esprimeva forse un’esigenza di risarcimento. Le scene campestri infatti, le uniche in cui c’erano figure umane, erano sì apprezzabili, ma riportavano tramonti o temporali in arrivo. E il grigio di alcune Alpi dolomitiche – per quanto ne potevo capire nella semioscurità – non le rendeva certo esultanti.
Sbucando col borsone da una porta in fondo al corridoio, la signora Lucia ci sorprese a osservare i quadri.
«Sono contenta che vi piacciano», disse, accendendo la luce.
Non mi ero sbagliato: scendendo dai faretti posti in alto e male orientati la luce elettrica si rifletteva troppo sui vetri delle cornici; ma era sicuramente una collezione fuori del comune. Luca finse un interesse superiore al reale; del resto, non era la prima volta che li vedeva.
«Parlano sempre di mio marito; ma la maggior parte li ho scelti io».
«Sono davvero di buon gusto», osservò Luca, con una frase che sembrava perfetta per liberarmi dal dovere di intervenire. Invece lei voleva qualcosa in più.
«Ti ringrazio. E il tuo amico, che dice?».
Mi trovai ad ammettere generosamente, ma senza mentire, che erano belli.
«Beh, col tempo, se ci si lavora, si può davvero mettere insieme qualcosa di buono».
Alta, magra, indossava un vestito bianco, sopra il quale portava una maglia di cotone antracite a trama larga, senza bottoni. Confermava il noto equilibrio della sua eleganza, che appariva decisamente lontana dallo stile del marito. Del resto, in pubblico le piaceva mostrarsi sempre più spesso da sola, nei suoi abiti neanche troppo austeri; al più, si faceva accompagnare dalla figlia. In lui i bottoni slacciati della camicia, il vezzo di togliersi la cravatta davanti agli altri, mostravano così didascalicamente l’intenzione di andare verso i suoi ascoltatori – di scendere, per così dire, nel cortile per incontrare i contadini – da soffocare la bontà di ogni iniziativa, per quanto sinceramente promossa.
Affidò il borsone a Luca.
«Ma scusatemi, non vi ho offerto nulla».
«No, non si preoccupi. Dobbiamo proprio andare».
Mentre scendevo le scale, restai col pensiero su di lei, sulla sua complicata serenità, perché sapevo che quella sera si sarebbe tenuto il primo incontro della direzione della società pubblica di promozione turistica del territorio, in cui Riboni era entrato quasi di diritto e ora ambiva alla Presidenza. Sembrava che nulla di tutto questo la toccasse, o perché sentiva che era tutto deciso, o forse, più probabilmente, perché delle imprese del marito ormai non le importava così tanto. Con giudiziosa discrezione si stava riprendendo in mano la propria vita, senza prodursi in contrasti aperti, ma sottraendosi progressivamente all’adesione pubblica ai progetti di lui. Qualcuno avrebbe potuto pensare che lo facesse per ragioni di famiglia e probabilmente lei lo avrebbe incoraggiato in questo senso ma, vista da vicino, anche solo dal modo in cui ci aveva presentato la raccolta d’arte, si avvertiva che – con o senza di lui – non si sarebbe limitata a un ruolo di contorno. Il tono della sua voce era sobrio quanto l’abbigliamento, ma il filo segreto d’inquietudine che avevo avvertito correre fra i cieli dipinti, doveva essere un turbamento lontano che ora restava come monito per una stagione di maggiore indipendenza.
2.
L’amante ufficiale di Riboni si chiamava Roberta, ed era una delle due sorelle maggiori di Sandra Stifanti, l’educatrice con cui avevo trascorso mezza giornata in fiera. Alta, magra, capelli sempre neri. Si diceva che avesse poco meno di cinquant’anni, ma pochi ne avrebbero saputo indovinare l’età. L’avevo incrociata un paio di volte in corriera, e in entrambe mi aveva dato l’impressione di essere eccessivamente riservata. In effetti, la prima volta, dopo essere rimasta tutto il viaggio china sulle pagine di «Amica», si era congedata dalla sua compagna di sedile (Cornelia, una sua lontana parente), salutando senza aggiungere una parola; gli altri passeggeri non li aveva neanche guardati. Ma non era la timidezza a frenarla; piuttosto, un’indole che avrei scoperto poco più avanti e che non mostrava agli adolescenti, né agli anziani, due classi di persone dalle quali non aveva nulla da aspettarsi. Aveva adottato dei criteri pratici di selezione che, brutalmente, onorando l’economia tendevano a farle risparmiarle conversazioni inutili. Qualche settimana dopo, infatti, nella piazza davanti alla biblioteca, l’avrei vista ridere spensierata con due suoi coetanei. Una risata stretta e acuta, con una punta maliziosa e bassa emissione di voce; eppure convinta, anzi per certi versi perentoria rispetto al suo costume. Mostrava l’intenzione andare subito al sodo. E, anche se non era detto cosa ci fosse di mezzo – stavano pur sempre scherzando – non era difficile intuire una relazione erotica. O forse anche più di una.
All’ufficio appalti provinciale presso il quale lavorava aveva avuto occasione di conoscere vari imprenditori privati e manager del settore pubblico, fra i quali anche Riboni che, pur godendo di un certo apprezzamento, in quella sede non poteva raccogliere lo stesso consenso a cui aspirava in paese. In Long FAR, l’ente di Riboni, Roberta era stata vista più volte, anzi era diventata quasi una presenza familiare, disponibile a fornire qualche consiglio amministrativo agli impiegati che lo chiedevano, ma di norma ritirata nelle stanze dirigenziali a perfezionare le concessioni del caso. Chi frequentava i circoli degli industriali si abituava a portare su di sé il riflesso della loro forza, ossia la capacità tradurre concretamente una decisione in un risultato; avendo accumulato un’esperienza di più anni, aveva acquisito un senso di superiorità sulle vicende quotidiane che non tardava a manifestarsi e che si perfezionava nel suo rapporto con i ventenni ai quali, sebbene fosse poco più di un’impiegata, si rivolgeva in tono sbrigativo, come se tutto ciò che stavano studiando le fosse già noto per esperienza, anzi come se tutte le loro aspirazioni non potessero ambire a raggiungere una posizione come la sua. Luca pensava che questa sua tendenza arrivasse a livelli pressoché insostenibili soprattutto con gli universitari, dai quali sperava di essere ammirata e che accostava mimando i gesti di un potere che non possedeva, fatto che non era a tutti noto, e che quindi selezionava i candidati verso il basso. Forse, senza riflettere su ciò che questo sforzo assumeva per vero (e incautamente per giusto), Roberta replicava ciò di cui era stata testimone nei sui uffici, mettendo però sé stessa al centro della scena. Ad ogni modo, in strada la si vedeva sempre sola; ma negli incontri di qualche associazione che frequentava, a cominciare da La natura e noi, sovente la si trovava seduta, un po’ per caso, vicino a Riboni o ad altre autorità; ovviamente, se arrivava per prima, di solito si sedeva nel posto centrale che uno spettatore comune non avrebbe mai voluto occupare, poi aspettava composta.
Nessuno ha più l’abitudine di chiedersi se una persona sia felice o meno; nel suo caso, si sarebbe potuto dire che aveva messo a punto un modello di cui si accontentava.
Nei giorni in cui Lucia venne a scoprire non tanto l’infedeltà del marito, che le era già nota – e che del resto lui non si curava di nascondere – ma il fatto che questa si stava trasformando in un legame di dominio pubblico, cercò mostrarsi fra quanti preferiscono fingere di non sapere. Data l’eleganza con cui portava il peso dell’umiliazione, attirò su di sé la benevolenza dei conoscenti che, sapendola intelligente, la compiangevano e un po’ l’ammiravano per la dignità con cui aveva deciso di garantire a sua figlia un contesto equilibrato in cui crescere. Tuttavia, come succede per certe piante comuni che in genere si osservano solo nel loro aspetto ordinario, mentre in circostanze particolarmente difficili, ad esempio dopo il rigore invernale, la loro natura estremamente robusta porta a osservarle con maggiore attenzione, così, davanti a questi eventi, lo scrigno interiore di Lucia rivelò di possedere risorse insospettate. E in effetti, qualche mese dopo, da un garage interrato attiguo e comunicante col suo, mentre era in città per delle certificazioni aziendali, di primo mattino e per la precisione subito dopo la corsa di Giulia per prendere lo scuolabus, un biondo consulente d’azienda cominciò a imparare la strada che portava al più profondo recesso dell’abitazione di Lucia. E lei, che la sera studiava al fianco della figlia, lavorava ogni giorno a redigere con grande scrupolo i suoi piani per gli anni a venire. Solo un’amica fidata aveva intuito la faccenda; Lucia si era limitata a non commentare. Ma questo lo venni a sapere parecchio tempo dopo.
Intanto mi dicevo che le strategie di copertura di Roberta e Lucia erano diverse: per la prima si erano consolidate al punto da formare uno stile di vita, che custodiva una realtà – il suo appartamento – accessibile solo agli eletti, uomini e donne fisicamente attraenti e ricchi di possibilità; per Lucia erano invece uno strumento di difesa: la prudenza spinta al limite non apparteneva al suo carattere, più estroverso e almeno in giovinezza perfino impulsivo, perciò questa pratica la sfibrava, aggravando una fatica che non riusciva mai a dissimulare completamente.
3.
«Beh, insomma, cosa ne pensi?» mi chiese Luca, mentre portavamo il borsone tendendolo una maniglia ciascuno.
«Che hanno messo insieme parecchie cose diverse».
«Ma che ti aspettavi, i disegni di Picasso?»
«No, più che altro, è l’insieme a sembrarmi un po’ cupo».
«È perché i quadri li ha scelti lei che ovviamente non se la passa benissimo, ma mi dico sempre che, se ha sposato Riboni, anche lei deve avere per così dire un lato meno regolamentare, non trovi? Altrimenti perché se lo sarebbe tenuto?»
«Non saprei. Per la figlia?»
«Ma no, oggi no. Trent’anni fa, forse. Ma oggi il divorzio le metterebbe in mano libertà, denaro, la figlia – che, è ovvio, andrebbe con lei – e anche una reputazione per la quale giustamente non ha niente da rimproverarsi. Dunque perché restare? So che ha lavorato parecchi anni come rappresentante nel settore della gioielleria, prima della nascita di Giulia, quindi non dovrebbe fare fatica a trovarsi un impiego. E infatti non riesco ancora a capire. Io credo che quando ci si incontra, in fondo, un’idea sulle attitudini reciproche ce la si faccia in fretta. Poi, a meno che non succeda qualcosa di grave, questa attitudine non cambia tanto, più che altro si approfondisce. Riboni doveva essere così anche a vent’anni. Ma mi chiedo: lei, com’era? Viene da una famiglia quasi povera. Non aveva forse anche lei delle ambizioni? Si nutriva delle ambizioni di lui? È ancora una bella donna, e anche a lei piace vivere bene. Anzi credo che, vivendo come è vissuta dopo il matrimonio con Riboni, nel complesso sia migliorata, senza doversi dannare l’anima nello studio».
Io ero meno sicuro delle condizioni in cui viveva Lucia, mentre Luca sembrava pensare che trascorrere degli anni in una casa ben arredata, a contatto con i quadri, favorisse un’elevazione spirituale. Certo, apparentemente non aveva concluso un corso di studi, ma non mi sembrava che le ragioni dell’umiltà che aveva mostrato fossero tanto elementari. In fondo, allo stesso modo si sarebbe potuto osservare che l’essere ammirata doveva aver approfondito in lei la sensibilità per gli sguardi delle persone fino a suggerirle qualcosa sulla loro indole che né l’esperienza dello studio, né alcuna idea intellettuale avrebbero potuto supplire. Avevo l’impressione che la sua refrattarietà a tutto quel che succedeva nel mondo del volontariato, che sembrava tenerci tanto vitalmente in forma, non fosse per niente poco fondata e che consistesse in una serietà che a tanti di noi mancava; e che forse a volte era mancata soprattutto a me. L’adesione superficiale da parte degli amici alle nostre varie iniziative civili non era poi così diversa, né tanto superiore all’adesione che avevamo visto e liquidato con fastidio, quando non apertamente condannato, da parte di quelli che un paio di decenni prima si erano infiammati in piazza per manifestazioni di più aperto carattere politico.
In macchina con Luca ero ancora avvolto dalla sensazione di aver scoperto qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco; come se d’un tratto la serietà che avevo intuito nel modo in cui Lucia si stava riprendendo in mano la sua vita rivelasse una necessità che avevo avvertito crescere riguardo al tempo che avevo impiegato in varie iniziative; questa esigenza di semplicità e di pulizia, il bisogno di sfrondare i miei impegni da ogni contenuto accessorio, mi faceva tornare in mente l’immagine di un’officina dove andavo con mio padre qualche anno prima: una sala sporca, ma con ogni attrezzo in ordine. La disposizione degli strumenti, espressione di una fatica che mi sembrava onesta, redimeva a suo modo anche le pareti che non erano state imbiancate per almeno vent’anni. Lì, più che in biblioteca, avevo respirato un’atmosfera in cui mi ero sentito a mio agio, dove l’onestà ineriva all’importanza di ciascun oggetto, democraticamente distribuita: non c’era niente che reclamasse maggiore stima o prestigio. Gli strumenti valevano in virtù della loro affidabilità. Ora quella lontana impressione mi confortava spingendomi a riconoscere che anche una sede scassata, metaforica o meno, poteva pur sempre essere rimessa in ordine. In sintesi, avevo parecchio da fare.
«Non ti dispiace, vero, se mi fermo un attimo da Ferrante in officina?»
«No, fa pure».
«Devo fissare la data per il tagliando».
Senza che Luca lo sospettasse, questa sua deviazione costituiva una segreta coincidenza. Fiero della Golf usata verde bottiglia, Luca parlava con la sicurezza di chi deve prendersi cura di una proprietà. E in effetti, poco dopo, mentre dal finestrino lo vedevo discutere con Ferrante, potevo rendermi conto che lui – nonostante i troppi giudizi affrettati – godeva di una reputazione chiara, che non richiedeva un riconoscimento ulteriore, mentre nel mio caso Ferrante, in tuta da lavoro, conosceva più che altro mio padre, ma non sapeva come inquadrarmi. Per non aggravare questo senso di estraneità reciproca, scesi dall’auto e mi appoggiai in piedi alla portiera del passeggero. Mentre allora l’officina apparteneva a un mondo interpretato di cui mi padre era custode – e che forse anche per questo ammiravo – ora l’officina immacolata di Ferrante dimostrava solo che in certi contesti, più che motivatamente, non avevo avuto ancora alcuna ragione di essere riconosciuto. Se l’ordine dei quadri che avevo intravisto poco prima riproduceva una ragione affettiva, come già in parte quello dell’officina che avevo visto da bambino, da Ferrante l’ordine si era smaterializzato, non si coglieva più nelle varie apparecchiature disposte attorno alle auto: si poteva cogliere eventualmente nelle ragioni del loro utilizzo. Insomma, mi sembrava più lontano dall’intuizione.
Coinvolgente.