Nuovo inizio
di Gianluca D’Andrea
I – Lo spettacolo della fine
I.
Nella capsula, l’aria viziata
non era ancora stata incanalata
nel tubo di espulsione.
Guardavo in apprensione
eppure con distacco
l’acqua intoccabile dopo
che l’ultimo strato si era dissolto.
Fuori dalla piccola sfera
non avrei sopportato l’aria
se non per qualche ora.
Due o tre, secondo i dati acquisiti
alla console. L’acidità dell’atmosfera
era visibile all’orizzonte; la nebulosa
gialla copriva metà della visuale
e gradualmente la prospettiva
si restringeva, diminuiva l’opacità.
Un senso di spossatezza accompagnava
la curiosità di vedere ogni evento –
solo con la giusta attenzione
avrei avuto la possibilità
di ricostruire i particolari
nella memoria. Dal vivo,
per così dire, senza il filtro
dello schermo se avessi registrato.
Mi addormentai comunque. Al risveglio,
dopo qualche ora, rilevai
che l’evento era ancora in corso.
Mi feci ricadere sul letto rigido
posto dietro la console, come
in ogni capsula, e provai a ricordare
l’origine dei fatti.
VII.
«È spaventoso pensare che mio papà impugnasse gli elettrodi per la tortura con le stesse mani con cui mi accarezzava», racconta Analía, 34 anni, figlia di Eduardo Kalinec. Per tutti era Dottor K, uno dei più feroci aguzzini, condannato all’ergastolo nel 2010. «All’inizio non sapevo, poi non volevo vedere, alla fine ho aperto gli occhi», spiega Analía.
Oltre lo scandalo resta la notizia, le associazioni suscitate, i fantasmi del tempo, dell’Argentina il velo biancoceleste.
Non esiste altra storia se non quella dell’individuo e la quantità di informazioni incamerate.
Dottor K, mi fa pensare a mosche e scarafaggi, scarti, reietti, eppure lui ha nome e soprannome, e gli elettrizzati? I morti affogati e imbottiti di Pentothal (altro nome della morte buona e pietosa) e lanciati – pesi morti – e schiantati e disidentificati e sparpagliati e discomparsi e mancanti e anestetizzati, ecc.
Tutto gestibile ancora meglio dalla console, perché è accaduto e ho ancora un po’ di tempo per fare le mie ricerche, aspettare e guardare e leggere e informarmi e incamerare e quantificare e potenziarmi e lavorare su nuovi aggettivi, ecc.
È spaventoso pensare che il corpo svelato sia così puro e tenero e che abbia una chimica così complessa, un’emivita così prolungata… raddoppiata e dimezzata tendente al vegetale – forma di vita perfetta.
Alba celeste che non sorgerai più
come la videro gli scomparsi
o i calciatori e gli insetti,
alba che finisci in un tempo
che si rinnova in altri cicli,
alba naturaleinnaturale,
darwiniana e rituale,
alba che induci al canto involontario
ogni essere digitale
prima di comprendere e neutralizzare
anche la scomparsa.
XVII.
Nel racconto Dalla veranda (The Overloaded Man, 1962) Ballard – altro tizio in arrivo sempre prima e dopo il diluvio – presenta un protagonista, Faulkner, che sta «diventando matto a poco a poco».
La sua “follia” consisterebbe nella ricerca metodica di una fuoriuscita, realizzabile attraverso la scomparsa della percezione come in un’esperienza allucinogena («l’effetto era simile a quello della mescalina e di altri allucinogeni»), dal mondo.
Non è un caso che il protagonista di Ballard si chiami Faulkner, infatti, lo stesso sembra un Compson (Benjy) in fuga dal tempo “industriale” e dalla ripetitività delle forme.
Una fuga che avviene dal cunicolo della percezione ed è scomparsa, dissoluzione di un reale opprimente che non risparmia il soggetto («Potrei arrivare a uscire dal tempo»; «Non puoi chiudere gli occhi di fronte al mondo. La relazione soggetto-oggetto non è così antitetica come potrebbe far pensare il “Cogito ergo sum” di Cartesio. A ogni svalutazione che fai del mondo esterno, corrisponde una svalutazione di te stesso»).
Ma l’autodistruzione risiede nel rifiuto di un ordinamento. Così, il Faulkner di Ballard è un altro signor K della storia letteraria che – un po’ come il Torrance di Kubrik ma non di King – nella sua dissoluzione, portata a termine con gli strumenti stessi della tortura (irrazionalismo e destrutturazione), punisce un sistema oppressivo e uniformante – ad infinitum.
Lo dico dalla solitudine della mia capsula e dal sentire comune che ci vuole liberi di immaginare, finalmente, nella nostra solitudine.
P.S. La fine non sembra arrivare.
XXI.
Come non ritornare alla delizia delle immagini e fantasticare sulla loro necessità. Quelle visioni o gli incubi più ricchi di particolari sono percezioni reali. Come l’incubo della giostra e del piede ferrato, del corpo esploso nel fuoco e della fornace coi residui di carbone e con le persone in ginocchio stimolate negli orifizi, ecc.
La vertigine amplificata dai riflessi di un luna park in cui le montagne russe sono enormi e i binari serpeggiano dentro un apparato di specchi deformanti. Il dispositivo cresce su se stesso, così la luce plasma mostri in decomposizione nel gioco dei riflessi. D’altro canto, ogni incubo, anche questo, è un mostro sul petto che cova misteri e che non lascia superstiti, mai, ecc.
Dentro la capsula l’aria è asfissiante.
II – Nuovo inizio
I.
La sensazione di raggiungere una casa è fondante in ogni esistenza. Collegabile alla necessità di protezione che caratterizza l’infanzia, è la divisione distintiva tra dentro e fuori. Sentirsi dentro o fuori dalle situazioni, nel mondo o ai suoi margini, dipenderebbe dalle capacità di accoglienza o vicinanza di un rifugio, dalla distanza o vicinanza alla sicurezza. La casa è una dimensione tattile e anche olfattiva che si radica nella personalità e ne determina l’adattamento. Non parlo di un’appropriazione del sé attraverso la casa, ma di un riassetto germinante del vuoto d’esperienza che definisce l’infanzia.
Tornavo con gli occhi alla strada, affrettavo i passi per sentire da vicino l’interno. La soglia profumava di fughe, desiderio di accoglienza, di calore, di una nuova energia. Ero nella zona intima di un processo, di una curvatura che avvicinava a un centro come pura ipotesi.
Mi riconosco in questa ipotesi e attraverso la soglia.
*
Testi tratti da Gianluca D’Andrea, Nuovo inizio (L’arcolaio 2023), prefazione di Antonio Devicienti.