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Materialismo (sillabario della terra # 19)

di Giacomo Sartori

a Frederika Randall

Io vengo dal materialismo. Sono cresciuto in una regione ancora molto bigotta, ma in casa mia non esistevano santi o forze trascendenti, e men che meno divinità, c’era solo l’esistenza, che andava goduta fino in fondo, in particolare sfidando le montagne, bellissime e tanto varie, perché poi veniva la morte, che era la fine di tutto. Senza alcuna possibilità di sopravvivenza anche solo nel pensiero di altre persone, o sotto forma di lascito, di esempio. La morte era un nemico temibile e infausto del quale non si parlava. Restava quindi la ricerca delle sensazioni, fintantoché si era in vita, meglio se estreme. Fisiche, ma in seconda istanza anche artistiche, e in particolare letterarie. Quelle negative andavano invece relativizzate e tenute sotto controllo, senza mai lamentarsi. Erano i deboli e gli inetti, a lagnarsi sempre.

La mia scelta di studiare Agraria va letta in questo lignaggio ancorato nella materia, anche se qualcosa non quadrava più di tanto nelle coordinate familiari. Ancor meno allorché mi sono ritrovato a dedicarmi alla terra, sporcandomi le mani e i vestiti. Non era quello l’orizzonte di mio padre, alpinista che non aveva mai digerito la perdita dei motti altisonanti del fascismo e di mia madre strattonata tra i luccichii della mondanità, le gioie spartane della montagna e gli struggimenti dei romanzi. Era una materialità troppo priva di smalto e di afflati narcisistici, troppo terra terra. Troppo vicina a quella dei contadini piegati sulla zappa, con i quali avevo simpatizzato nell’infanzia, nel loro stupore, e della plebaglia senza ideali di grandezza, che ciascuno di loro a suo modo rifuggiva.

Nei primi anni di università mi sono tuffato nei mondi delle rocce e delle piante e dei meccanismi della vita, quella che chiamiamo natura. A ben vedere erano gli stessi esseri e elementi nei quali si erano imbattuti i miei sensi di bambino quando ci eravamo trasferiti in campagna, ma ricevano questa volta nomi meticolosi e mostravano i loro complessi meccanismi: questo nuovo incontro, che mi entusiasmava altrettanto di quello precedente, era cerebrale. Mi seducevano molto meno i metodi delle coltivazioni, che prendevano mano a mano il sopravvento nel corso universitario: li trovavo pedissequi e rigidi, quasi ogni complicazione fosse d’improvviso scomparsa. E anche uscito da lì lo studio della terra per me non è mai stato un lavoro, ma una passione nel contempo fisica e mentale, come tutti i grandi amori: una attrazione fatale. Se dicevo che lavoravo era solo per adeguarmi e farmi capire, senza creare sospetti o disagi. Occupandomi della terra dimenticavo la fatica di vivere, sfinendomi di dedizione mi riposavo.

La terra, che consideravo una sostanza nobile, restava però per me un oggetto materiale. Da frequentare, da studiare, da proteggere, appunto da amare, ma lontana dai miei questionamenti di fondo, dal mio essere più segreto. L’infinito lo cercavo nella letteratura. Leggevo romanzi e poesie per sete di rovelli abissali, legami nascosti e trascendenza. Su quella via sono andato poi più lontano, ho fatto dell’addomesticamento delle parole una pratica costante e necessaria. Ho scritto racconti e romanzi, pur estraneo alla piramide della cultura sono riuscito a farli adottare da rinomate case editrici. Avevo bisogno delle parole per ricostruire le macerie di me stesso, dando dignità alla mia esistenza, riscattando bassezze e sconfitte.

La poesia e i romanzi mi appagavano ma anche mi sfinivano. E non ho mai trovato pace nella sistematizzazione cerebrale. Nessuna teoria mi è mai sembrata assolutamente necessaria, e tanto meno le mie. Le parole mi servivano come esaltanti materiali di costruzione, come campi di battaglia, non come balsami lenitivi, o anche solo stampelle. E non mi sono mai sentito a casa, nemmeno per pochi istanti, nella narcisistica arena letteraria. La terra mi serviva a ritrovare un punto di appoggio e l’equilibrio, a risentirmi parte di qualcosa, pur nella marginalità più estrema delle mie collaborazioni precarie. Svolgeva il ruolo di contrappeso.

Annusando i suoi odori di muffe e di tempo e sistematizzando i suoi dati analitici ritrovavo la quiete. Dentro di me lo consideravo un modo come un altro per guadagnarmi da vivere, e mi rammaricavo del tempo enorme che mi prendeva, rubandolo alla scrittura: giornate di quattordici ore, settimane senza domeniche, mesi. Mi mentivo. Era lì che ritrovavo la grinta e il carburante che mi servivano per scrivere.

A un dato momento la mia esistenza è diventata troppo difficile, e questo andirivieni tra la letteratura e la terra non era più sufficiente a permettermi di andare avanti. Solo nell’assenza di pensiero, nell’eliminazione delle parole, ritrovavo la pace. Avevo bisogno di ritemprarmi ogni giorno nel silenzio. Ancora adesso non posso farne a meno. Dentro di me il silenzio si è affiancato alla terra e alle parole, mi ha permesso di riprendere l’annosa spola.

Le cose si sono chiarite solo di recente, dopo l’impazzimento collettivo della pandemia: le malattie a volte portano appianamenti e saggezza. La terra è uscita allo scoperto e ha invaso le mie pagine: non voleva più restare confinata. Non sopportavo più che la letteratura andasse avanti per la sua strada già tracciata, al meglio cogliendo le ansie di superficie, accompagnando di fatto la grande rimozione delle responsabilità nella catastrofe ambientale in atto. Mai come allora la maggior parte dei romanzi contemporanei mi apparivano anacronistici e inessenziali.

Mi pareva che la terra avesse bisogno di aiuto, che almeno per un po’ dovessi concentrare le mie forze lì, pazienza per il mio romanzo in fieri, al diavolo gli sforzi per essere presente sul claustrofobico palcoscenico delle lettere. Mi sembrava che dovessi impegnarmi a fare capire la sua importanza e a farla conoscere. Ho cominciato quindi a incontrarla con i bambini delle scuole, gli interlocutori che mi sembravano più promettenti, assieme l’abbiamo toccata, ascoltata e disegnata. Anche proprio grazie alla loro candida sagacia riflettevo meglio sulla sua essenza, scoprivo che non era solo quella che credevo, quella che per tanti anni avevo trasformato in cifre e carte colorate: non si limitava alla materialità, non aveva forse niente a che fare con questa.

A ben vedere con la sua anima al contempo minerale e organica e biologica la terra era la vita, con i suoi incessanti cambiamenti e i suoi segreti incomprensibili, le sue necessità che se ne fanno un baffo dei singoli individui e delle follie di grandezza nelle quali noi umani ci siamo barricati. Quella vita incommensurabile e ingovernabile, fluida e cangiante, percorsa da legami nascosti e corrispondenze sotterranee, che avevo per tanto tempo misconosciuto, con la zavorra della mia educazione, nella falsa credenza di abitare un altrove dove tutto aveva spiegazioni e conseguenze certe.

In realtà ero io che necessitavo il suo aiuto, non viceversa. Avevo bisogno di prendere atto della sua essenza enigmatica e dei suoi misteri per sbarazzarmi una volta per tutte del materialismo. Non era agli antipodi dell’assoluto e del silenzio che perseguivo, ne era anzi il paradigma, un ricettacolo privilegiato. Il prezioso vuoto che trovavo nella meditazione, era anche dentro di lei. In ogni caso non dovevo più tenerla lontana dai miei scritti, potevo finalmente mescolare le carte. Nei miei racconti s’è fatta avanti la puntigliosità della scienza, nei miei saggi s’è infiltrata la poesia.

Non c’è alcuna differenza tra scrivere una storia e andare in giro per i campi a fare rilievi con una trivella manuale, sono analoghe ricerche negli strati non visibili dell’esistenza, adesso posso prenderne atto. Non è quindi un caso che sia finito a occuparmi della terra. Non l’ho capito prima perché ero imbrigliato nella religione della materia che ho respirato fin dall’infanzia, e che opponeva la vita alla morte, l’uomo alla natura, gli esseri alle cose, e l’alto al basso, facendo dell’alto della superiorità umana, con il suo petulante raziocinio e i suoi principi, la guida da seguire. E invece nel basso della terra c’è l’alto, basta solo saperlo vedere, ci sono il silenzio e l’equivalenza di ogni tempo, che sono le verità ultime. Come nell’alto dei grandi testi letterari c’è prima di tutto il basso della materialità, questo lo sapevo già. Le polarità tra le quali ho fatto la spola per decenni erano solo apparentemente contrapposte, non c’è alcuna contraddizione, posso mettermi l’animo in pace.

 

 

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5 Commenti

  1. Fantastico, caro Giacomo, fantastico! Ce ne fossero di post in cui uno/a si racconta con tale capacità di coinvolgimento emotivo. Se tu hai già in progetto di fare un libro di tutto ciò, ne sono felice (comunque io ho stampato tutte le puntate del sillabario dalla prima), ma se non hai questo progetto, facciamo senz’altro un libro di Nazione Indiana, come i primi che avevamo combinato vari anni fa, libro stampato meglio di ebook, ma comunque qualcosa che resti. Grazie comunque assai assai.

  2. vi ringrazio moltissimo per questi vostri apprezzamenti, per me preziosissimi; devo confessare che nella situazione attuale di sovrabbondanza di testi e contenuti sul web, che va di pari passo verosimilmente a modi di lettura veloci e tendenzialmente distratti, da tempo ero restio, a postare degli scritti, e tanto più a mettere in conto delle serie, come ho fatto in passato; poi mi sono detto chissenefrega, io faccio quello che ho voglia di fare e posso fare, continuando il mio percorso, certo ben cosciente che le mie parole vanno a affiancarsi a fiumane di altre parole e immagini; ma perché no, magari allora con una più grande umiltà, e con una acuta coscienza della marginalità; però appunto che qualcuno segua e apprezzi vuol dire che la cosa è ancora possibile, checchè si dica sulla morte e stramorte dei blog;
    e sì, mi piacerebbe farne un libro, se potesse interessare qualcuno, e questo sarebbe appunto il pezzo di conclusione (e tengo presente la proposta di Sparz);
    insomma grazie
    g.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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