Poesia + malattia = una nota su La distinzione di Gilda Policastro
di Luca Rizzatello
Un nome che può essere Salim
Stacco tutto e me ne vado:
è grosso, una stampella per parte
L’altro non sa scrivere il nome
Somalo? Etiopia. E te pareva,
quante possibilità ciàvevo, su un mijjone
Promiscuità, è questo a definirci
nell’anticamera del reparto dove il sonno ci intuba:
staccati gli aghi coi sveglieremo tutti sani o più malati
a digiuno
e niente acqua dalla mezzanotte
Mettiamo un po’ di musica così ce passa,
s’infila i guanti per Salim, lui non sa scriverlo
ma lei lo ha imparato col tu democratico
degli ospedali
Scrollo le poesie del poeta operaio
dice rinchiudi un porco nel reparto
noi aspettiamo in fila dopo il girotondo
del rispondi alle domande
(allergie, farmaci, malattie importanti)
poi spostati tu da quella parte
(a fissargli l’ago, senza i guanti)
Siamo in quattro, guardiamo un po’ in aria
un po’ ci sorridiamo mentre Salim non ha capito
che deve togliersi la giacca
Glielo mimo pensando al cianciare brutto
di ogni Facebook sui cosiddetti #migranti
(categoria che vorrebbe smarcarsi)
Siamo fermi in questo spazio che ci contiene
insieme al tempo che a dispetto della musica non passa
Saremo fuori, prima o dopo, saremo a casa
Salim forse resta, l’infermiera ha detto il nome
del suo male che non ha capito lui solo,
finalmente senza giacca
Quella che hai appena letto è la terza poesia del libro La distinzione, di Gilda Policastro, edito nel gennaio di quest’anno da Giulio Perrone Editore. Fa parte della seconda sezione, Sala d’attesa, che segue la sezione di apertura, Antefatto. Antefatto e Sala d’attesa, in questa posizione e in questo ordine, ci possono dare l’idea, tanto per cominciare, che un libro di poesie non debba per forza essere una raccolta di singoli. Insomma: che un libro di poesie possa, anzi dovrebbe, essere anzitutto un libro, tout court. Siamo fermi in questo spazio che ci contiene / insieme al tempo che a dispetto della musica non passa mi sembra, insieme a Salim forse resta, l’infermiera ha detto il nome / del suo male che non ha capito lui solo, una sintesi formidabile degli elementi che sostanziano la sezione e, più estesamente, il libro: il tempo trascorso (proprio e altrui, per quello che questa distinzione può significare), lo spazio forzatamente condiviso, le relazioni (di nuovo proprie e altrui eccetera) che si innescano all’interno di questo contenitore spazio/tempo. Franz Kafka ha scritto che cosa ti lega a questi corpi delimitati, parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualunque altra cosa, diciamo, al portapenne che hai in mano? Forse il fatto che sei della loro specie? Ma non sei della loro specie, perché appunto hai formulato questa domanda (Tagebücher 1910 – 1923).
Salim non capisce le cose che ci aspettiamo dovrebbe capire, ma il tema di quanto sia sufficiente capire per dire di avere capito non si risolve nel suo caso individuale, pur emblematico, di #migrante, e ritorna in tutta la sezione, su più livelli. Ritorna come ricostruzione filogenetica (e in forma di anafora, sono morta, in “Perché mi accorgo che morire, adesso, non mi serve”), come presa di coscienza (Ti vogliono ignorante / infastidisci se sai le cose, in L’autunno di gerd, poesia in cui una soluzione proposta è quella di presentarsi alla visita già googlat*), come reazione al cupio dissolvi (Alternativa tra giù e le fiamme / rincorsa e oplà / imparare a stare al mondo, in Così poi forse divento brava), come percorso a ostacoli ricorsivo (Ma lei ha guardato un’eclisse? / Ho anche parlato alla luna / ma no, non era questa, mentre ripete la domanda / e chiosa: anche nell’infanzia, in Poesia sugli occhiali).
Per arrivare a una prima conclusione, riporto un’analisi che fa Ivo Quaranta nel libro Malati fuori luogo: non tener conto della distinzione tra disease (l’interpretazione biomedica della malattia come patologia) e illness (il significato attribuito dai pazienti alla propria esperienza di malattia) potrebbe pregiudicare il costituirsi di un’alleanza tra medico e paziente sul fronte dell’adesione al regime terapeutico. Ignorare il significato che i pazienti attribuiscono alle proprie esperienze di malattia significa ignorare anche in che modo verranno da questi interpretate le indicazioni fornite loro durante l’incontro medico (Katon, Kleinman, 1981; Kleinman, 1982). […] Se aggiungiamo a queste considerazioni le problematiche che possono essere generate dalle differenze culturali, ci rendiamo immediatamente conto di quanto possa essere determinante tenere in debita considerazione le concezioni attraverso cui le persone elaborano il significato delle proprie esperienze di malattia: il processo di traduzione di segni di disagio in sintomi di malattia è, infatti, un processo mediato culturalmente (Young, 1982). (Ivo Quaranta, Il contributo dell’antropologia medica per una medicina interculturale, in Malati fuori luogo, Raffaello Cortina Editore, 2012).
La terza sezione, Dispositivi, si apre con una poesia intitolata Cut-up, un catalogo dei modi di morire, dove-come-quando, che mi commuove e mi diverte profondamente, proprio come Resumé di Dorothy Parker (Razors pain you; / Rivers are damp; / Acids stain you; / And drugs cause cramp. / Guns aren’t lawful; / Nooses give; / Gas smells awful; / You might as well live.). I dispositivi in questione sono da intendersi in alcune poesie come la cosa di cui si scrive (es. Workout, o Scrolling), in altre come quella con cui si scrive (es. SwiftKey, o GP(T)-3), per poi dirsi, a bocce ferme, che probabilmente sono sempre e contemporaneamente sia l’una che l’altra.
In questa sezione emerge quello che a mio parere è il nodo fondamentale del libro, che per ora definirei come il rapporto tra scrittura e malattia. Ma si tratta di “scrittura e illness” o di “scrittura e disease”?
Come si legge nelle note dell’Autrice, GP(T)-3 è l’esito dell’esperimento di scrittura automatica condotto dalla rete open AI Playground. Di fatto sono tre poesie in una, trattandosi delle risposte (in versi) a questi tre comandi, via via più dettagliati:
“Scrivi una poesia sulla malattia, gli ospedali, la morte”
“Scrivi una poesia ironica su ospedali, malattia, morte”
“Scrivi una poesia ironica sulla malattia, l’ospedale, la morte adatta a un pubblico adulto. Stile: contemporaneo”
Il risultato è sconfortante, e in quanto tale è stato riportato sulla pagina; tuttavia, per onestà intellettuale, devo ammettere che non sono le poesie peggiori, umani compresi, che io abbia letto. La poesia successiva, Poesia ASMR, prevede una serie di abiure che intendono determinare,per esclusione, un posizionamento all’interno della mappa (che non dovrebbe essere il territorio, ma si sa come va a finire) di chi pubblica/legge in pubblico le poesie. BZD expertise, Pandemonio e Notepad, dedicate rispettivamente alle benzodiazepine, al covid e al carcere, sono un antipasto, con tutte le differenze del caso di cui scriverò a tempo debito, della sezione Inattualissime. Come tenere insieme tutto questo? Mi viene in aiuto Roberto Bolaño, che in Letteratura + malattia = malattia (contenuto ne Il gaucho insopportabile, Adelphi, 2017, traduzione di Ilide Carmignani) scrive che uno dei test, forse il più semplice, mi impressionò molto. Bisognava tenere per qualche secondo le mani davanti a sé, con le dita tese verso l’alto, il palmo rivolto verso di lei mentre io guardavo il dorso. Le chiesi che accidenti voleva dire questo test. La sua risposta fu che, a uno stadio avanzato della malattia, non sarei più stato in grado di tenere le dita in quella posizione. Si sarebbero, inevitabilmente, piegate verso di lei. Credo di aver detto: Dio mio. Forse risi. Sta di fatto che da allora questo test me lo faccio tutti i giorni, ovunque mi trovi. Mi metto le mani davanti agli occhi, con il dorso verso di me, e osservo per alcuni secondi le nocche, le unghie, le rughe che si formano su ogni falange. Il giorno in cui le dita non riusciranno più a stare dritte non so bene cosa farò, ma so cosa non farò. Mallarmé ha scritto che un tiro di dadi non abolirà mai il caso. Eppure è necessario tirare i dadi ogni giorno, così com’è necessario fare ogni giorno la prova delle dita tese.
La quarta sezione, Gite ospedaliere, comincia con Uno tira l’altro, che a sua volta comincia così:
Tu è la persona che accompagna Io quella che si sottopone a controlli/accertamenti con o senza prescrizione (con vuol dire serietà), tu in quel caso è la persona che crede di dover tirare su il morale e proprio per tutta quella serietà che annette alla pratica sforzarsi di trovare battute frasi divertenti o carine, e poi va al cup, la persona tu, mentre io diretta in stanza per esame accertamento e ricevere diagnosi
Ci troviamo nel luogo della diagnosi, dove sfuma la dicotomia malato/sano, tanto in riferimento alla condizione di Io, quanto a quello del nucleo Io-Tu. Ne Il re pallido, David Foster Wallace ha scritto che quello che ora si chiamava stress prima si chiamava tensione o pressione. Pressione ora era più una cosa che si esercitava su qualcuno, come l’insistenza dei piazzisti (What was now called stress used to be called tension or pressure. Pressure was now more like something you put on someone else, as in high-pressure salesmen.) (David Foster Wallace, Il Re pallido. Un romanzo incompiuto, Einaudi, 2011, traduzione di Giovanna Granato).
Il testo successivo, dal più che esplicativo titolo Disfagia, mantiene la misura del reportage sui generis e sposta il fuoco dalla dialettica Io-Tu a un Lei (che sta per il personale ospedaliero, variamente inteso) monologante e provvisto di una ironia che si potrebbe definire funzionale al contesto, probabilmente più nelle intenzioni che negli esiti. È il passaggio dal luogo della diagnosi a quello della degenza. La sezione si chiude con Casting, una raccolta di consigli ricevuti in merito alla scelta di farmaci da prendere e di specialisti da cui farsi seguire. Leggendo questo testo la mia impressione è che ogni consiglio, al di là dell’utilità finale, sia mosso dal bisogno di esprimere una competenza, a maggior ragione se avvalorata dall’esperienza diretta, e quindi obliquamente un controllo, o una conferma del proprio status. È realistico pensare che anche chi offre i consigli abbia a sua volta fatto dei casting chiedendo dei consigli, rendendo di fatto impossibile l’individuazione dell’urcasting. Citerò di nuovo Ivo Quaranta: un oggetto incorporava, quindi, un insieme di rappresentazioni, relazioni, dinamiche locali e regionali, storie di contatti con altri sistemi culturali: costituiva, in altre parole, un sostrato materiale delle locali concezioni del potere. Queste relazioni sedimentate costituivano il valore attribuito a una stoffa, alla polvere di camwood, a una pentola, a particolari decorazioni o a determinati materiali ecc. Al di là della ragione economica, quindi, è l’origine aliena a donare ai beni scambiati il loro valore, e attraverso la loro acquisizione individui e comunità potevano mettere in scena la propria influenza politica e, dunque, il proprio potere magico. Il valore di questi oggetti risiedeva nel loro essere espressioni di potere, dimostrazione visibile della capacità di contenere e incorporare un mondo alieno e potenzialmente ostile, asservendolo ai propri scopi (Rowlands 1987, p. 61). Nel produrre, nell’acquisire o nell’ostentare oggetti esotici si metteva in scena il proprio potere, la propria capacità di accesso e controllo dello stesso (Ivo Quaranta, Corpo, potere e malattia. Antropologia e AIDS nei Grassfield del Camerun, Meltemi editore, 2006).