La strage e la memoria
di Giorgio Mascitelli
In un lungo articolo apparso alcuni giorni fa su The Guardian lo storico della shoah Raz Segal ha parlato di uso della memoria dell’Olocausto come arma da parte dei dirigenti politici israeliani in occasione della nuova guerra di Gaza. Fin da subito si sono avute dichiarazioni che tendevano a paragonare i massacri del 7 ottobre (un crimine contro l’umanità, che va perseguito come tale, ma che non autorizza a compierne altri per rappresaglia) con lo sterminio nei lager e che definivano la reazione militare israeliana una forma di una lotta al nazismo. Secondo Segal il fine di queste dichiarazioni è da un lato cancellare il contesto di tipo neocoloniale in un cui sono maturati quegli atroci eventi, senza prendere in considerazione il quale non è possibile immaginare un futuro differente, dall’altro eliminare qualsiasi freno inibitore nella reazione perché il richiamo al nazismo è il richiamo al puro male contro il quale ogni mezzo va bene. Non a caso i dirigenti israeliani hanno alternato a queste dichiarazioni sulla lotta al nazismo tutta una serie di lugubri uscite sul fatto che stanno combattendo contro animali da trattare come tali, che ogni cosa a Gaza vada rasa al suolo e altre ancora di simile tenore per giustificare gli eccidi che stanno avvenendo in queste ore. Sebbene Hamas sia sicuramente un’organizzazione antisemita e integralista, non è possibile dal punto di vista storico paragonare la situazione attuale degli israeliani, unica potenza nucleare della regione dotata di un esercito tecnologicamente all’avanguardia, con quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, inermi civili in un territorio controllato da una potenza ostile.
D’altronde, come nota Segal e come era capitato anche a me di notare alcuni anni fa su nazioneindiana ( qui), il riferimento al nazismo e a Hitler per definire l’avversario è un elemento essenziale del discorso di guerra ed è stato usato via via per Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi fino all’Ucraina dove entrambe le parti si richiamano alla lotta contro il nazismo. Ed è un elemento essenziale in senso retorico perché indica la totale necessità della guerra e la sua inevitabilità, perché contro Hitler redivivo non c’è pacifismo che tenga o dubbio di sorta. Eppure la diffusione di un simile argomento, che è naturalmente una banalizzazione della Shoah e in generale della storia, non sarebbe nemmeno pensabile senza che ci fosse stato un cambiamento profondo, anche se lento e carsico nel nostro rapporto con la memoria di quegli eventi rispetto ai tempi in cui solo testimoni del livello di Primo Levi o storici specialisti o leader politici antifascisti erano autorizzati a prendere la parola su questi temi, quando questi avvenimenti erano naturalmente sentiti come un monito fondante per la società del futuro.
Talvolta mi è capitato di chiedermi cosa direbbe un Adorno redivivo della grande massa di opere narrative, cinematografiche e teatrali volte alla divulgazione della Shoah che circola sempre di più. Immagino che il filosofo che si pose radicalmente la domanda se fosse possibile continuare a scrivere dopo Auschwitz, resterebbe alquanto inorridito, date le sue posizioni elitarie, ma forse anche Gunther Anders, che pure riconobbe a suo tempo il ruolo positivo di una serie televisiva di intrattenimento come Olocausto nel porre i tedeschi di fronte alle loro responsabilità storiche, avrebbe qualche perplessità.
E’ possibile che naturalmente questo sforzo abbia reso più difficile quelle forme di negazionismo implicito o di riduzionismo che indubbiamente allignavano nell’Europa dei primi trenta o quaranta anni dopo il 1945, ma non posso negare il mio disagio l’ultima volta che sono stato a Cracovia, l’estate precedente al Covid, vedendo nelle agenzie turistiche reclamizzata la gita ad Auschwitz come ad Amsterdam si fa con il giro dei canali in barca o a Napoli con quello a Pompei o alle isole. Questa turisticizzazione della percezione della Shoah non può portare nulla di buono sul piano politico e culturale, perché di fatto comporta una sua banalizzazione. Ma c’è un altro aspetto che mi ha colpito a Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, accanto alla possibilità di visitare sinagoghe e altri luoghi legati alla storia ebraica della città si aveva anche quella di visitare i posti dove era stato girato Schindler’s list in una mescolanza pericolosa di realtà storica e sua riproduzione finzionale. Credo che chi abbia messo in relazione questa offerta culturale così abbondante, e non sempre rigorosa, con forme di anestetizzazione delle coscienze che finiscono con il favorire il discorso dell’estrema destra abbia più di una ragione. E non c’è dubbio che la demonizzazione dell’avversario tramite il ricorso al nazismo finisca con il favorire questo tipo di dinamica banalizzante, oltre a giustificare talvolta azioni di guerra che sono a loro volta crimini.
Ora negli attacchi del 7 ottobre è abbastanza evidente che Hamas ha fatto una sorta di scommessa politica sanguinaria, crudele e cinica e allo stesso tempo disperata: attaccare con crudeltà Israele, scommettendo che la risposta del governo Nethanyau sarebbe stata ancora più efferata, così da cancellare, perlomeno fuori dall’Occidente, il ricordo del fatto precedente di fronte a un numero di vittime civile notevolmente più alto tra i palestinesi. Questo tipo di scommessa si basa sul fatto che la parte occidentale non ha più il monopolio delle immagini e delle informazioni, grazie alla presenza di Al Jazeera, non a caso più volte criticata dal governo israeliano. Questo ragionamento ha una sua efficacia, se perfino un commentatore come Paolo Mieli, decisamente vicino al mondo israeliano e occidentale, ha dovuto ammettere sul Corriere della sera che “Il prolungato attacco a Gaza, accompagnato da immagini quotidiane di vecchi, donne e bambini che mostrano i loro lutti, non è «compensato» dalla notizia che è stato colpito questo o quel dirigente di Hamas.” Ciò su cui ha scommesso Hamas, finora con ragione, è quello di uno spettacolo planetario in cui una popolazione perlopiù civile viene massacrata, in una misura esponenzialmente superiore alle vittime israeliane, da una potenza che dichiara di agire in continuità con la lotta contro il nazismo nel nome della democrazia. Immaginiamoci l’effetto che farà non solo su popolazioni non occidentali ignare della storia europea, ma anche a quella parte maggioritaria della popolazione occidentale digiuna di storia e completamente depoliticizzata. Immaginiamo per esempio che tipo di ricezione possa avere la scelta dell’ambasciatore israeliano all’ONU di intervenire indossando la stella gialla, che i nazisti davano agli ebrei nei lager, nelle stesse ore in cui il suo paese sta bombardando senza sosta una zona densamente popolata senza possibilità di sfollamento per la popolazione. Nella migliore delle ipotesi essa diventa un simbolo vuoto, un significante senza significato, in quella peggiore il segno di un vittimismo sanguinario.
Eppure noi abbiamo bisogno di quei simboli, non solo per contrastare i rischi crescenti di antisemitismo, ma perché essi rappresentano l’insegnamento politico della seconda guerra mondiale, la certezza della civiltà che vince sulla barbarie. Il loro svuotamento contribuisce ad alimentare un processo di cancellazione dell’eredità politica della seconda guerra mondiale e del suo ruolo nella formazione di una nuova coscienza civile, che ci lascerà disarmati in tante circostanze.
Condivido Giorgio. E la tua riflessione richiama quella compiuta solo pochi giorni fa da Enzo Traverso in un’intervista pubblicata dal sito Mediapart: https://www.mediapart.fr/journal/international/051123/enzo-traverso-la-guerre-gaza-brouille-la-memoire-de-l-holocauste
La posizione di Traverso nei confronti della risposta israeliana è particolarmente dura f; egli fa parte di coloro (non è il solo) a utilizzare il termine “genocidio” per caratterizzare quello che sta accadendo agli abitanti di Gaza. Ma al di là dell’uso appropriato o meno di questo termine – anche da parte israeliana viene usato per caratterizzare l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas – emerge una questione importante che è in sintonia con la tua.
Dice Traverso:
“Certes, le 7 octobre a été un massacre épouvantable, mais le qualifier de plus grand pogrom de l’histoire après l’Holocauste signifie suggérer une continuité entre les deux. Cela induit une interprétation assez simple : ce qui s’est passé le 7 octobre n’est pas l’expression d’une haine engendrée par des décennies de violences systématiques et de spoliations subies par les Palestiniens ; c’est un nouvel épisode dans la longue séquence historique de l’antisémitisme, qui va de l’antijudaïsme moyenâgeux jusqu’à la Shoah, en passant par les pogroms dans l’Empire des Tsars. Le Hamas serait donc le énième avatar d’un antisémitisme éternel. Cette lecture rend inintelligible la situation, cristallise ces antagonismes et sert à légitimer la réponse israélienne. Nétanyahou s’était d’ailleurs distingué, il y a quelques années, en déclarant que si Hitler avait mis en œuvre la Shoah, le Grand mufti de Jérusalem en serait l’inspirateur.”
E su questo mi trovo d’accordo con Traverso. La questione è ancora inerente non tanto al “tipo di narrazione” che scegliamo di fare riguardo a quanto sta accadendo, come se ogni narrazione fosse semplicemente funzione di una posizione da difendere e quindi, in fondo, equivalente a ogni altra. Ci sono narrazioni che funzionano e altre che non funzionano, ossia ci sono narrazioni che rendono intelliggibili i fatti, che permettono di organizzarli e di dare loro un senso, e altre narrazioni che li staccano da ogni contesto storico-concreto.
L’altra considerazione che mi viene da fare è questa. Il sostegno acritico dell’attuale politica israeliana portata avanti dal gruppo di potere più estremista, nazionalista e razzista che Israele abbia mai conosciuto, non aiuta in nessun modo la battaglia contro l’antisemitismo. In anni recenti, si è avuto purtroppo spesso l’impressione che ogni critica radicale della politica israeliana fosse giudicata come un’espressione, in fondo, di antisemitismo (e quindi come una negazione del diritto di Israele ad esistere). Anche questa attitudine ha finito per banalizzare la denuncia stessa dell’antisemitismo, che per altro davvero esiste, e si esprime purtroppo come tale, ossia come odio nei confronti degli ebrei, e non come ragionata critica alla politica dello Stato ebraico.
Aggiungo un altro passaggio cruciale di Traverso:
“Domanda: Quelles pourraient être les conséquences d’une telle interprétation pour la mémoire de l’Holocauste ? Le risque n’est-il pas aussi d’avoir un regain d’antisémitisme ?
Risposta: Oui, ce risque existe : une guerre génocidaire menée au nom de la mémoire de l’Holocauste ne peut qu’offenser et discréditer cette mémoire, avec le résultat de légitimer l’antisémitisme. Si on n’arrive pas à stopper cette campagne, plus personne ne pourra parler de l’Holocauste sans susciter la méfiance et l’incrédulité ; beaucoup finiront par croire que l’Holocauste est un mythe inventé pour défendre les intérêts d’Israël et de l’Occident. La mémoire de la Shoah comme « religion civile » des droits humains, de l’antiracisme et de la démocratie, serait réduite à néant. Cette mémoire a servi de paradigme pour construire le souvenir d’autres violences de masse, des dictatures militaires en Amérique latine à l’Holodomor en Ukraine, jusqu’au génocide des Tutsis au Rwanda… Si cette mémoire s’identifie à l’étoile de David portée par une armée qui accomplit un génocide à Gaza, cela aurait des conséquences dévastatrices. Tous nos repères seraient brouillés, tant sur le plan épistémologique que sur le plan politique.
On entrerait dans un monde où tout s’équivaut et où les mots n’ont plus aucune valeur. Toute une série de repères constitutifs de notre conscience morale et politique – la distinction entre le bien et le mal, la défense et l’offense, l’oppresseur et l’opprimé, l’exécuteur et la victime – risqueraient d’être sérieusement abîmés. Notre conception de la démocratie, qui n’est pas seulement un système de lois et un dispositif institutionnel mais aussi une culture, une mémoire et un ensemble d’expériences, en sortirait affaiblie. L’antisémitisme, historiquement en déclin, connaîtrait une remontée spectaculaire.”
Diversi anni fa avevo fatto la stessa sconvolgente esperienza, a Cracovia, con ulteriori dettagli, alcuni raccappriccianti, che tutti indicavano una sorta di teatralizzazione quasi favolistica della presenza ebraica nella città e in Polonia, come a negare, consolando, censurando le responsabilità storiche, la realtà irredimibile della tragedia. E grazie per tutto l’articolo, di cui alcune riflessioni mi trovano completamente d’accordo, altre meno, ma non credo sia questo il momento – né lo spazio – per discuterle. Una domanda tuttavia vorrei farla subito: perché definire la scommessa di Hamas “disperata”? A me sembra al contrario – e mi sembra che tale risulti anche alla lettura dell’articolo – molto ben studiata, calcolata, in ogni caso tutt’altro che impulsiva.
Per Andrea: grazie per la segnalazione dell’intervista a Traverso, che è molto importante. In generale direi che una delle idee centrali che si è affermata negli ultimi decenni ossia che la memoria della Shoah è una questione essenzialmente ebraica ( idea proveniente per ragioni diverse ma convergenti da Israele, Germania e USA) finisce con il favorire questo tipo di dinamica.
Per Giuseppe: può darsi che a Cracovia ci sia un po’ di malizia polacca, ma, come ha ricostruito Valentina Pisanty in un bel libro, questo inflazionamento è una tendenza internazionale. Per quanto concerne Hamas, pianificazione e disperazione non sono inconciliabili: prevedere un piano che presuppone di scatenare un intervento armato di Israele a Gaza, significa sacrificare non solo la propria popolazione, ma anche la propria struttura armata, che non ha nessuna possibilità di vincere contro l’esercito israeliano ed è destinata a essere distrutta ( direi che l’unica incertezza è relativa alle perdite israeliane) in nome della scommessa aleatoria che l’ondata di instabilità portata dalla guerra costringerà le potenze internazionali ad affrontare la questione palestinese. E’ un ragionamento disperato in senso etimologico, di chi non ha più altre speranze
Giorgio, grazie, io non me la sento di discutere così, tantomeno in questo momento, in cui l’urgenza è altrove (imporre un cessate il fuoco, e poi una ripresa del dialogo, che solo può avvenire nel rispetto reciproco della memoria dell’altro, cosa di cui ho cercato di dialogare proprio con Andrea: https://www.nazioneindiana.com/2023/10/26/le-diverse-ragioni-del-silenzio-lettera-ad-andrea-inglese/) – ma spero troveremo il modo di farlo. Però, di nuovo, voglio reagire almeno su un punto, per me il più patente: l’obiettivo di Hamas, basta leggere il suo programma e la sua azione, non è affatto di “costringere le potenze internazionali ad affrontare la questione palestinese”, come non lo è per chi lo finanzia e arma, cui in realtà della “causa palestinese” interessa poco o nulla – peraltro, da un punto di vista teologico (attenzione, sto riassumendo un discorso molto più complesso), il “sacrificio” della propria popolazione ha un senso ben diverso da come lo possiamo leggere noi. Credo che se questo non viene approfondito e integrato nella nostra analisi andiamo in una direzione sbagliata. E nella serie degli aggettivi “disperato” (cioè impulsivo, non meditato, dettato da esasperazione, necessità etc.) suona, come nei tribunali in cui si giudica un omicidio, come un'”attenuante”. E di nuovo mi viene in mente una delle questioni che ponevo nel mio articolo: la crescita di Hamas è “anche” o “solo” responsabilità israeliana? Quanto a Cracovia, a me sembra che ci sia ben più di un po’ di malizia: una mise en scène originalissima in cui l’esposizione e la negazione (con sotto il sempre rigoglioso antisemitismo) si rinforzano a vicenda – ma, di nuovo, semplifico un discorso che meriterebbe ben altro spazio.
L’aggettivo disperato, cito dal Treccani, soprattutto nel caso non sia riferito a persone ma a situazione e fatti, vuol dire “che non dà luogo a speranza”, le altre sono inferenze o connotazioni che lei trae, come dimostra il fatto che per dare valore alla sua inferenza associa questo ad altri aggettivi, che però io non ho usato. D’altra parte un attacco come quello del 7 ottobre può essere spiegato o sostenendo che non era pianificata la strage di civili ( cosa non credibile, dato il livello di organizzazione dell’attacco e il fatto che questi massacri siano avvenuti in più punti) o che Hamas cercasse di invadere realmente Israele (ancor meno credibile che attaccassero frontalmente con deltaplani e motociclette una potenza nucleare)oppure che puntasse alla prevedibile reazione israeliana che sarebbe stata, come era facilmente immaginabile, sproporzionata sul piano delle vittime civili. Anche ammettendo che Hamas sia totalmente indifferente alla popolazione di Gaza, era chiaro che la reazione avrebbe comportato una totale o quasi totale distruzione dell’apparato militare di Hamas e anche di alcune strutture organizzative essenziali, nonché di alcune capacità tecnologiche autonome di produzione di alcuni missili. in pratica Hamas ha mandato al macello consapevolmente la sua ala militare per guadagnare in peso politico ed emarginare Israele ( non penso che ci riesca, ma questo è un altro paio di maniche). E’ una logica disperata come le dieci giornate di Brescia o la rivolta di Pasqua di Dublino del 1916, in cui in una totale assenza di possibilità sul piano militare l’azione militare viene svolta comunque in una prospettiva che più ragionevolmente politica è di testimonianza di esistenza.