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Tu, muori

di Ilaria Parlanti

Tu, muori

24 operazioni chirurgiche. 3 vertebre toraciche malformate. 2 coste e mezzo mancanti. 24 cicatrici sulla schiena. 1 polmone ipoespanso e non funzionante. 42° Cobb di curvatura toracica. 2 ganci uncinati alle lamine vertebrali. 46° Cobb di curvatura lombare. 30% scarso di capacità vitale respiratoria. 1 barra di Harrington. 1 ciste siringomielica nel midollo. 2 arti con disfunzioni neurologiche. 38 chilogrammi di peso. 1 lesione midollare. 156 centimetri di altezza. 1.18 litri di aria a espansione forzata polmonare.

Anni: 26.

Mutazione del gene DLL3

La disostosi spondilocostale autosomica recessiva (ARSD) o sindrome di Jarcho Levin è una malattia rara dovuta alla mutazione del gene DLL3.

(Sito ufficiale Orphanet)

Non posso avere ricordi della nascita e dello spazio perinatale che ho occupato nel mondo. So soltanto le storie che mi hanno tramandato le donne di famiglia. Mio padre ancora oggi non mi dice niente, a riguardo: si è sempre mostrato scosso.

Era un venerdì di aprile del 1997, faceva freddo. Che la mia situazione fosse grave si percepì subito dall’insufficienza dei decibel del mio pianto e dalla postura innaturale che aveva assunto la mia colonna: la spalla destra incurvata fino a toccare le ossa dell’anca. Eppure nelle trentadue settimane di gestazione non si erano registrate anomalie, solo un certo presagio di tragedia scuoteva le notti di mia madre.

“Morirà in tre giorni” dissero i medici una volta che fui ripulita dai liquidi della placenta e attaccata ai tubi dell’incubatrice.

Mi concessero settantadue ore per vedere il mondo, ingabbiata in un ospedale. Poteva accadere – la mia morte – per un semplice arresto circolatorio, per l’elisione dell’esofago o per soffocamento. Stava a me decidere.

Di quei giorni non so altro, se non cose che ho scoperto poi, origliando. Pochi si erano arrischiati a venirmi a trovare. Qualcuno aveva detto che ero un piccolo mostro. “È senza collo” fece notare un altro, soffocando un sorriso. La sterilità dell’ambiente, la stanchezza della rianimazione neonatale, le procedure di sicurezza igienica avevano fatto il resto.

La turbolenza della nascita ha istigato terremoti emotivi anche negli anni formativi.

“Non ride mai di gusto” mi disse il chirurgo agli inizi della nostra conoscenza, presso l’Hôpital Saint Vincent de Paul allora a Parigi.

Gli devo dare il merito di aver detto una verità. Sono così seria e contrita; ironica solo quando avverto l’irrefrenabile impulso di screditarmi. Molto dipende da quel giorno di aprile, quando mi tolsero dall’abbraccio materno e mi comandarono, occhi negli occhi: “Tu, muori”.

Distrattore costale

Il distrattore spino-costale è un sistema utilizzabile in presenza di limitazioni della crescita del polmone e scoliosi grave e progressiva. Il sistema è stato messo a punto specificatamente per i bambini molto piccoli.

(Sito dell’Istituto Ortopedico Rizzoli)

Ho subito bullismo in tutte le sue forme. Eppure non sentivo la solitudine della malattia. Negli ospedali osservavo con meticolosità le malattie degli altri bambini e comprendevo che noi – i bambini malati – non eravamo soli, ma un gruppo ristretto di persone sfortunate. Quello era l’unico gruppo cui appartenevo.

Ero in quarta elementare. Raggiunsi i compagni con il mio grembiule nero svolazzante, i capelli legati in una coda alta e il bustino che rendeva ogni movimento più meccanico e artificioso. Proposi una variante del gioco. Nessuno mi rispose, anzi nessuno alzò nemmeno la testa per guardarmi. Pensai non mi avessero sentito e ripetei la proposta con un tono più alto. Niente.

Soltanto una bambina, alle mie grida di protesta e supplica, si alzò dal cerchio e mi venne incontro.

“Non vogliamo la tua malattia. Tu ci fai solo pietà”.

Eccola la parola: pietà.

La odiai, nel modo immediato e assoluto che è virtù degli infanti. E per metonimia, estesi la sua malignità a tutti i bambini, passati e futuri.

Credo che sia nata così la mia incapacità di legarmi, la mia totale mancanza di interesse a creare un punto di contatto con loro. Li odiavo – li odio – tutti, i bambini: indistintamente.

Davvero ci si avvicina a me solo per pietà? Le mie relazioni sociali, affettive e sessuali saranno solo di questo tipo? Sarò l’amica disabile o l’amante disabile o quella con cui si scopa perché non la scoperebbe nessun altro?

Harrington modificato

L’asta Harrington è un sistema strumentale di acciaio inossidabile utilizzato in bambini e più spesso in adolescenti per il bloccaggio della colonna vertebrale, ovvero l’intervento di artodesi.

(www.ior.it)

Mi ricordo che al suono di quella parola – mi fece schifo sul momento, un ribrezzo come poche volte ho provato nella vita – scostai subito lo sguardo in direzione di mio padre.

Non solo provai una grande rabbia nei confronti del dottore, ma anche un certo moto di fastidio per aver accostato al mio comportamento di liceale ubbidiente e inattaccabile un’azione tanto crudele – per la me di allora – come l’atto sessuale completo. E che mio padre sentisse, sapesse che a diciassette anni io non avevo mai fatto sesso, che non avevo nemmeno un briciolo di esperienza. E che si parlasse apertamente non della possibilità che io ne facessi in futuro – i malati e i disabili il sesso non lo consumano, pensavo all’epoca – ma della certezza premeditata che sarebbe accaduto.

Mi sarei voluta alzare in piedi con tutta la mia fragile bassa statura e gridare che io il sangue delle mestruazioni lo avevo sempre voluto – sempre sempre sempre! – e che l’avevo ottenuto a quindici anni e tre mesi con la sorpresa di tutti, anche del chirurgo. Avevo dimostrato che non era vero che sarei rimasta una bambina per tutta la mia vita, il mio corpo aveva risposto alle radiazioni di quegli anni con un grumo rosso scuro che mi era colato tra le gambe durante l’operazione del giugno 2012.

Ma accoppiarsi avrebbe significato la rottura dell’imene. E quello mi era necessario: serviva a non mescolare il mio dolore a quello del mondo.

Quando finì il trattamento chirurgico la pneumologa mi disse: “Puoi tornare in Italia pensando al futuro. Se le cose rimanessero così a livello respiratorio, sarebbe difficile sostenere una gravidanza, ma non impossibile. Se le cose peggiorassero, come la patologia comanda, allora è il caso di rivalutare”.

Io risposi solo: “Non voglio figli”.

Codice Orphanet: 2311

Orphanet gestisce la nomenclatura delle malattie rare di Orphanet, strumento essenziale per migliorare la visibilità delle malattie rare nei sistemi informatizzati della sanità e della ricerca: a ciascuna malattia in Orphanet viene attribuito un identificativo univoco e stabile, il ORPHAcode.

(www.orpha.net)

La mia maturità sessuale ha avuto inizio in ritardo, come molte delle tappe della mia vita: avevo ventidue anni.

A un certo punto mollai tutto: la mia ambizione, le mie amicizie, la scrittura, la lettura, tutto ciò che mi aveva sempre dato gioia, soltanto per ricercare quel fine ultimo ed estremo, che come tutti agognavo non senza una certa ignoranza: il sesso.

Mi legai a un amico della mia compagnia, al quale piacevo da un po’. Che cosa pensai, io, in quel momento, di lui? Che fosse un pazzo masochista, che avesse scelto me per punirsi. Lui mi diceva tante cose, io non gli credevo minimamente: che mi amava, che lui ascoltava il cuore e non la mente. Io il cuore non lo ascoltai mai. Mi dissi che sarei stata una vigliacca se mi fossi persa questa opportunità di normalità e, ingoiando i sentimenti, quell’urlo interno che mi consigliava di aspettare – romanticamente: di innamorarmi –, mi buttai.

Detti il mio primo bacio con una tachicardia che sentì anche lui, ma a me interessava altro. L’atto sessuale completo.

Di quella prima volta ricordo soltanto il dolore. E la macchia su un lenzuolo che andai subito a gettare nella discarica in fondo alla strada.

Durante avevo solo un pensiero fisso, una preghiera a quell’Altissimo nell’atto del peccato estremo: fa’ che sia come per gli altri, fa’ che la disabilità non si noti. Mi aspettavo che da un momento all’altro qualcosa ci impedisse di andare fino in fondo. Il mio corpo storpiato, la mia colonna curva, i miei polmoni fatiscenti. Non ci fu nessun impedimento. In venti minuti avevo perso la verginità e quello che ricordo fu il mio tetro mutismo.

Ci pensò lui a ricordarmi quanto fossi diversa.

“Pensavo tu non potessi” mi disse, steso accanto a me a letto, a casa mia.

Ho avuto relazioni con uomini che mi piacevano, con ragazzi che credevo giusti per altre qualità.

L’amore non l’ho mai sentito, ma sul sesso ho vissuto esperienze di libertà che mi sono conquistata passo passo, almeno sul piano fisico. Su quello mentale, causa il mio disturbo ossessivo compulsivo, è stato un massacro.

Ho sempre avuto il timore di rimanere incinta, pur prendendo la pillola e facendo usare il preservativo. Ho rispettato la posologia del medicinale: con una sveglia interiorizzata da miti e paure reali, ho contato i minuti che passano tra la sua assunzione e una possibile scarica diarroica o episodio di vomito, ho smesso di prendere gli antibiotici più adatti ai batteri che mi colpivano per sostituirli con quelli che non avessero interazioni, ho avuto quattro o cinque blister di scorta intatti nella vetrinetta della mia camera, ho tartassato ginecologi dei presidi ospedalieri nelle notti festive per chiedere se corressi il rischio o meno dopo un rapporto con preservativo bucato: “Ma se prende la pillola, è coperta!” mi dicevano. Contattavo un altro ospedale della zona, tanto per essere sicura.

Ero e sono terrorizzata dalla medesima cosa ma per ragioni diverse: non voglio rimanere incinta.

Prima ragione: pensavo in assoluto di non volere figli. Seconda ragione: se fossi rimasta incinta, con tutte le contraddizioni e il buon senso del caso, quel figlio probabilmente lo avrei tenuto.

Ed è questo pensiero – o meglio, sentimento – che non mi spiego.

Ho ricercato la normalità in un’esperienza – l’atto sessuale – che sebbene sia un evento sempre uguale a sé stesso nella sua meccanica, reca in sé un lato empirico difforme per fisicità, emotività, psicologia, oltre che per fattori sociali, culturali e ambientali.

Mi scopro così: schiava dei miei istinti biologici.

Utero retroverso

La retroversione dell’utero è una anomalia di posizione dell’organo che si presenta deviato all’indietro anziché inclinato in avanti.

(fondazioneveronesi.it)

Ultimamente sogno spesso di essere madre. Non c’è niente di razionale, in queste mie fantasie, me ne rendo conto. Immagino il momento felice, tenendo per mano il mio compagno – che non ho –, mentre annuncio alla mia famiglia di aspettare una bambina. Non è mai un maschio. Nei miei sogni aspetto una bambina.

Le ecografie le eseguo con ansia: “La bambina ha la sindrome? È malata?” I medici mi dicono di stare tranquilla, che sta bene ed è una portatrice sana.

Poi, il giorno stabilito del parto, ciò che era un sogno condiviso, diventa la mia personale tragedia.

Ovviamente, non posso creare un dipinto che non sia mio, quindi ben venga lo spazio per la tecnologia medica. Ecco allora apparire la cannula dell’ossigeno che mi pizzica il naso, imporsi un’immobilità assoluta dal secondo mese – questi sono i momenti in cui mia madre mi coccola e si trasferisce da me per aiutarmi – e un’induzione del parto all’ottavo mese, senza epidurale perché la curva scoliotica non lo permetterebbe. So affrontarlo, il dolore: questo mi dico.

Non l’ho stabilito io che la storia è un ciclo continuo di corsi e ricorsi; che io, e mia madre prima di me, e così mia nonna, facciamo parte di un progetto più ampio, un cerchio infinito di tempo che trascende la morte.

Forse, per la mia malformazione genetica che già aveva marchiato i miei avi, dovrei parlare di una figura meno perfetta: un’ellisse, magari.

Infine ho la certezza attesa.

La bambina ha la sindrome di Jarcho Levin, una forma tutta diversa dalla mia, che oltre alla colonna vertebrale, al costato e ai polmoni, ha neutralizzato l’apparato urogenitale. E poi, somma della somma, i livelli di ossigeno che mi hanno somministrato per tutta la gestazione sono stati troppo bassi e così lei ha subito un’anossia con relative conseguenze per le capacità cognitive.

Di chi è la colpa, madre? Di chi l’ha voluta, madre!

Dei miei polmoni, del mio utero inospitale, dei miei tentativi impossibili di far nascere una vita da una vita che avrebbe dovuto andarsene dopo solo tre giorni.

Da quel momento iniziano i test, le risposte sommesse, i dubbi, le paure, e io mi danno perché nonostante conoscessi la mia condizione ho voluto cedere all’egoismo.

La bambina non muore precocemente, rappresenta la mia punizione: il ricordo costante che sono stata io a chiamarla a me, a crearla, per i miei desideri di strega cattiva.

Il sogno va anche oltre. Io, che conosco la patologia, so già di dover portare mia figlia all’estero e quanti soldi servono.

Lei non mi può dire la locazione del dolore, non muove un passo e mi costringe a costruire una casa adeguata alle ruote della sua sedia a rotelle. Io resto impigliata ai doveri di genitore. Dopo ciò a cui l’ho condannata, mi amerà ugualmente come si amano le madri o mi odierà come si odiano i nemici?

Non ho nemmeno il tempo di formulare una risposta, perché intanto la malattia è tornata a tormentarmi.

La lascio alle cure del padre – c’è ancora un padre? – sono libera di sparire – una sparizione precocemente annunciata, diranno –, ma mai libera dai miei peccati e dalla paura di lasciarla sola su questo mondo che è un luogo cattivo.

Sono stata dalla ginecologa per un’ecografia al seno, come ogni anno. Mi sono stesa sul lettino, ho tolto maglietta e reggiseno, mi sono sdraiata, ho sentito il gel freddissimo e poi l’ecografo sotto l’ascella. Non ho osservato il monitor, non ho guardato la dottoressa.

L’esame è durato un quarto d’ora, a dire tanto, e il medico – Martina, leggo sulla targhetta – mi ha assicurato che non ho noduli sospetti. Poi ha fatto una pausa, ha puntato gli occhi sul mio viso contratto ed è esplosa in una risata gioiosa.

“Il seno ha un sacco di ghiandole mammarie, prevedo un fiume di latte per i tuoi figli!”

Non ho risposto. Mi ha mostrato come fare l’autopalpazione di routine e sono uscita veloce dalla stanza.

Le sue parole mi sono entrate in testa. Cosa significa tutto ciò? È questo il momento?

Ci ho pensato a lungo, ho dibattuto con tutti e su tutto.

La sola verità è che io sono malata. Ho la sindrome di Jarcho Levin, una patologia genetica recessiva con un tasso di mortalità del 99% nel primo anno di vita. Non si fa ricerca perché i casi sono pochi. Non si sa niente riguardo al futuro che mi aspetta.

*fotografia di Mariasole Ariot

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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