Sepsi
di Francesca Gentile
Cinque sei sette otto. Chi l’ha detto che bisogna cominciare a contare dal numero uno? I ballerini iniziano dal cinque. Cinque sei sette otto. E uno e due e tre e quattro. Otto passi, avanti e indietro per questa stanza. Nessun armadio, né sedia, né tavolo. Hanno paura che ci riprovi ancora. Certo che ci riproverò. L’ho già fatto.
Oppure potrei iniziare con milleuno, milledue, milletre, millequattro. Se arrivo a milledieci sono sicura che sono trascorsi esattamente dieci secondi. Tre notti sono passate. Vedo farsi buio dalla piccola finestra in alto. Ora il cielo è grigio scuro: cozza con il biancore della stanza. Ma almeno dà un po’ di colore. Ecco, perfetto! Adesso s’è messo pure a tuonare. Forse tra poco la Madonna piangerà: mi diceva sempre così, mia madre, quando pioveva.
“Grazie Maria”, dico a voce alta.
“Chi è Maria?”
“La Madonna.”
“Vede la Madonna?”
Rido sguaiatamente.
“No… è che sta per piov… Lasci stare.”
“No, no, mi dica. Sono qui apposta”, mi incita.
Scuoto la testa e torno a camminare. A contare. A fare le giravolte. Poi un plié. Lo guardo torvo. Non mi sta simpatico. Però è un bell’uomo. Se non fosse per Bruno…
“Ora le faccio un arabesque”. Mi metto sulle punte dei piedi e mando una gamba all’indietro, sto per sollevare le braccia, ma perdo l’equilibrio. Riesco a non precipitare a terra. Ci riprovo: niente da fare.
“È brava!”
“Non ho rispettato la sequenza”.
“Da quanti anni studia danza?”
È chiaro: mi prende per il culo. Decido di ignorarlo e mi stendo sul pavimento. Porto su le braccia a altezza occhi e fisso i polsi legati. È per questo: sono sbilanciata. Restiamo in silenzio a lungo. Non misuro la durata del nostro mutismo. Non mi va più di enumerare cifre.
“Va bene, allora a domani” dice ed esce dalla stanza immacolata.
Mi precipito sul battente blindato e inizio a menare colpi con i pugni.
“Resti”, piagnucolo. “Non mi lasci”.
Non mi ascolta. Sento i suoi passi allontanarsi. Mi mordo la lingua. Sento dolore e sapore ferroso in bocca. Umetto le labbra con la saliva intrisa del mio stesso sangue e prendo a baciare la porta. Stampo piccole impronte rosse. Non so perché lo faccio. Forse Bruno lo sa. Come vorrei che fossi qui, Bruno. E che foste qui tutti. Vi implorerei di farmi capire. Vi tempesterei di perché. Come: perché pensate che sia un’arrivista? Perché credete che io non possa essere la nuova Carla Fracci? Ah, lo so cosa pensate: che non ho la grazia della Fracci nemmeno per cagare. E tu, Bruno, come fai a difenderle? So per certo che è così. So per certo come la pensate tutti: sono diventata un segugio: ho rizzato le orecchie e aguzzato la vista. Sono diventata così affamata non di quello che mostrate, falso come Giuda, ma di quello che non dite, della verità che pensate e che mi è così chiara come la luce del Sole. Visionaria. Me l’hai detto tu, Bruno: “sei visionaria. T’immagini cose che non ho mai detto o fatto”. Come se non sapessi che vuoi lasciarmi. Ma tu non vai da nessuna parte mio caro Bruno. E poi perché sei così lontano da me? A vivere, ridere, mangiare, dormire, masturbarti senza di me. A stare bene senza che quel bene sia io a procurartelo. Non lo sopporto. Non devi fare queste cose senza di me. Se non posso farti bene allora vorrei che soffrissi per mano mia. Vedi, Bruno, a cosa mi riduci? Cosa sono in grado di pensare?
Mi incanto a fissare l’ultima immagine delle mie labbra: è solo un contorno: pare una piccola voragine o una delle figure di Rorschach. Poi di nuovo mi ricordo di piagnucolare, di fare pietà a chiunque ci sia dietro questa porta. Lo so che ci siete.
Visionaria. Sembra una malattia tipo la legionaria. Ha tutta l’aria di essere un’infezione, un baco che penetra nella testa e si moltiplica sotto forma di congetture che finiscono per diventare opportuniste. Patogene. Causando danni grossi. Irreversibili.
Se gli altri davvero non mi sopportassero. Se provassero invidia, gelosia nei miei confronti. Se davvero mi detestassero e facessero di tutto per evitarmi, per mettermi i bastoni tra le ruote… Se tutto questo fosse vero – e sarebbe terrificante – cosa potrei fare? C’è una sola cosa che potrei fare: convincervi che vi sbagliate. Che sono una brava amica. La compagna perfetta della vostra vita – a partire dalla tua, Bruno, perché non mi credi? –. Un’ottima collega nonché una meravigliosa étoile.
Potrei convincervi. Devo convincervi che sono simpatica e che mi amate. Dovete amarmi. Voi siete la mia forza e io sono così stanca di tutto questo tramare. Sono stanca di stare qui da giorni – quanti erano?! Trenta o solo tre? –. Sono stanca di pensare. Di attribuire un potere quasi regale, di riverenza e sottomissione agli altri. A tutti voi. Chi cazzo siete? Solo persone che entrate e ve ne andate dalla mia vita. Interscambiabili. Sì, Bruno, anche tu: oggi ci sei, domani no e allora – che tu sia maledetto! –, me ne troverò un altro!
Mi appoggio al muro e strofino la schiena. Prude. In un punto imprecisato che non riesco a beccare. Strofino ancora di più, il calore si diffonde fino alle gambe. Forse sto prendendo fuoco. Non mi fermo. Mi piace pensare di essere un bastoncino di legno che s’incendia. Saprei che questa volta ci sono riuscita. Che ce l’ho fatta. Il calore e il dolore ora sono acuti, ma continuo finché sento il tessuto del camice impregnarsi di un liquido. Forse sto sanguinando. E brucia tutto.
Mi trascino a letto e prendo a fissare il soffitto. Il dolore mi tiene viva e lucida. Sì, sono ben cosciente di quanto questa specie di malattia si stia trasformando in una vera e propria sepsi: so che se non smetto di impiegare il mio tempo, le mie energie, in fantasie che io stessa creo, finirò male. Devo smetterla di architettare storie in cui una strega malvagia se ne sta in agguato e attende paziente di farmi la pelle. Non posso davvero credere che le persone che conosco – e anche quelle che non conosco – vogliano fottermi. Questo significa avere manie di protagonismo. Essere una specie di dio onnipotente alla mercé del suo popolo. Questo significa non avere alcuna fiducia nell’altro. E cercare di ottenere l’amore, l’approvazione, dagli stessi di cui non mi fido nemmeno per sbaglio, non è sano.
Di nuovo mi mordo la lingua e di nuovo prendo a sanguinare. Questa volta bagno l’indice e mi acquatto sul pavimento. Scrivo: devo poter morire. Morire è sbiadito, quasi illeggibile.
Sì, ora ho capito perché questa stanza è tutta un candore: è così che mi immagino la morte: bianca, placida. Una via lattea contaminata da linee rosse. Incerte come la mia mano e sicure come i miei pensieri. Ora so. Gratto il pavimento con i polpastrelli. Di nuovo tutto brucia, tutto s’incendia. Ora so: il mio sangue è diventato l’inchiostro di questa pagina intonsa che mi accoglie. Mi aspetta. Lasciatemi morire, scrivo ancora. Morire, scrivo più sotto. Morire, urlo. E continuo a grattare. Strofinare. Mordere. Rosso e bianco. Cinque sei sette otto.
Un fulmine lacera le nubi nere. Poi un tuono. E la Madonna prende a singhiozzare.