Come in cielo
di Marco Candida
I solchi d’erosione nel calcare e nelle marne argillose sembrano delineare labirinti. Nives e Ascanio da un costone vi si perdono a rimirarli. Ricordano a entrambi i percorsi incerti delle loro vite. Perdipiù, l’intreccio finisce a picco in un rio. Il cielo è argenteo. Spira il grecale di una giornata maggiatica sui generis. La temperatura è novembrina. L’atmosfera ottobrina. La nebbia si distende a chiazze dense sotto un cielo nereggiante. L’aria è odorosa di vegetazione ancora umida d’acquerugiola. I piccioli e le stipole Anteprima (si apre in una nuova scheda)delle foglie di castagni e robinie gocciolano. Un castagno va defogliandosi, sebbene fuori stagione, ma trovandosi in zona siccitosa. Le lenticelle traverse dei fusti sono fradice d’acqua piovana. I fiori crema d’acacia imperlati di condensa. Circondati da boschi di robinie e castagni, Nives e Ascanio sostano in un tratto di nervatura dorsale, ciascuno avendo ricordi affioranti dagli orridi. Ricordi di vita insieme. Quei calanchi simboleggiano molte cose. Gli Orridi del Monte Marcellino a picco sul Rio Fossone.
Vi sono arrivati partendo da Torrazza Coste, traversando la strada per Castellano Boffalora e superando il ponticello sul Rio Brignolo. Arrivati a Codevilla hanno fatta sosta davanti all’Oratorio di Santa Maria del Pontasso. L’Oratorio del Pontasso, dipendente dalla Parrocchia di Torrazza Coste, era aperto. Nives e Ascanio ne hanno visti gli affreschi interni, commissionati dai feudatari Giorgi-Beccaria nel XIV secolo, rammentandosi per similitudine del tempo trascorso nell’Eremo di Sant’Alberto di Butrio. Hanno fatto soste nei paesi di Cadelazzi e Nebbiolo. Infine, intrapresa la salita, piena di tortuosità e asperità, degli Orridi di Sant’Antonino, superando un cartello mezzo storto, marroncino con scritte bianche. Da un costone hanno rimirate le forre; e dai burroni ecco i ricordi.
Anzi, i bilanci.
La vetrina è piena di pane bruciato. In principio Ascanio ritiene sia pane nero preparato usando farina di segale. Lui ha una fissa per il pane nero dell’Alto Adige o quello di Valtellina, malgrado abiti in Piemonte. Aveva mangiato Vinschger Paarl nell’Abbazia di Monte Maria, sopra Burgusio, nel comune di Malles. Un amico, sapendo la sua passione, gli aveva fatto dono del Schüttelbrot di ritorno dalla val d’Isarco. E sempre lo stesso, di ritorno dalla val Pusteria, del Pusterer Breatl. Anche se la sua preferita resta la Brazzadéla. Per il pane di segale all’anice Ascanio persino capace di arrivare in macchina in Valtellina nella Valle di Poschiavo. Adesso, però, appressandosi meglio alla vetrina, non può non accorgersi: quello è pane bruciato. Quasi prova orrore. Su ogni ripiano c’è un esemplare di pane nero come carbone. Un miccone bruciato. Un cestino di biove bruciate. Non abbrustolite o bruciacchiate. Nere. Nere come la legna riarsa in un camino. A conferma, manco ci fosse bisogno, un odore intenso di bruciato. Ascanio rimane per un poco a rimirare lo spettacolo. Ancor più assurdo è trovarlo, il pane, disposto ordinato sulle mensole della vetrina. Si passa una mano sulla faccia e poi sulla nuca. Strizza pure gli occhi. Non riesce a credere alla sua vista. Ha fatto nottata di bagordi e ecceduto con l’alcol. Ha tirato anche di marijuana. Sono le tre di notte. Forse alcol e stanchezza gli danno allucinazioni. Magari, quello sugli scaffali in vetrina non è pane bruciato. Sono pagnotte di un grano particolare. Una ricetta nuova e sperimentale. Si giustifica così, Ascanio, mentre varca l’uscio del negozietto. Ha fame. Forse è fame chimica dovuta all’hascisc, anche se gli sembra improbabile. Vuole solo un pezzo di focaccia da sbocconcellare tornando a casa. In più, adesso, lo punge curiosità di sapere cosa stia succedendo lì dentro. D’accordo la ricetta sperimentale; ma la puzza di bruciato è inequivocabile.
Entrando l’orrore aumenta.
In apparenza sembra un vocabolo un po’ forte: orrore. Ma questo prova, Ascanio, nel vedere le cassette del fornaio straboccanti di pane bruciato. In un lampo, si domanda cosa penserebbe sant’Autberto di Cambrai, il santo patrono dei panificatori. Quel pane bruciato è un sacrilegio. Desta orrore. Il puzzo è nauseabondo. Attraverso le vetrine d’esposizione del bancone ci sono biscotti su biscotti bruciati. Baci di dama neri, pressoché irriconoscibili. Sembra una collezione di pietre. I grissini sono anneriti da un’estremità all’altra. Senza una sola macchiolina chiara. Pure le lingue di suocera, e Ascanio quelle puntava ad acquistare, sono nere come la lingua del Diavolo. Le ciabatte scure come i grissini, all’estremità come in mezzo. Ascanio rivolge particolare attenzione al pane pugliese. La sua caratteristica forma tondeggiante è ora deforme. A bozzi e protuberanze: un crostone di nerume dall’aspetto imperforabile. La rosetta, invece, a differenza del pane pugliese, ha forma intatta: ma è nera e brillante, come ebano. Corvine invece sembrano le baguette. Ovunque pane bruciato. Un orrore. Del resto, il pane evoca l’ultima cena di Nostro Signore. Betlemme significa “casa del pane”. Il pane è alimento sacro. Quanto ha davanti agli occhi, Ascanio lo considera pertanto un sacrilegio. Un orrore.
In mezzo all’orrore, tuttavia, ecco Nives. Questa è la prima volta. Ascanio non l’ha ancora vista. Mai incontrata per le vie della cittadina dove abita. Mai incrociata dalla corsia di un supermercato. Mai notata in un gruppo in un luogo di svago. Nives è bellissima. Ha i capelli biondissimi, quasi albini, spuntano a ciocche dal cappello da fornaio. La fronte è una mezza luna messa in orizzontale abbagliante. La pelle è così lattea da costringere Ascanio a chiedersi se non l’abbia spalmata di crema per il viso. Forse ha usato, Nives, un unguento. Le sopracciglia sono lunghe e rotonde, cespugliose, benché biondissime. Gli occhi sono azzurri come cianite. Sono occhi dove affogare. Rimanerci dentro come preda di un maelström. Ascanio non si capacita di riuscire a staccarsi da quegli occhi proseguendo a scrutare il viso di Nives. Il naso alla francese. Piccolo e all’insù. Morbido. Sembra un dolcetto da cogliere e assaporare. Le narici sono simmetriche e piccole. Vien quasi da chiedersi se vi passi ossigeno a sufficienza. Come riesca, Nives, a respirare. Ammesso quella figura così eterea abbia bisogno di compiere un gesto tanto grossolano come respirare! La bocca sembra una fioritura di rododendro. Una rosa delle Alpi. I peduncoli fiorali sono le labbra. Ne ha due, e non cinque, lo stesso mantiene forma campanulata e stretta. Ad Ascanio vien da descrivere così quella bocca aliena, socchiusa. Il biancore dei denti è abbacinante. Chiude il viso il mento, rotondo, senza sporgenze e senza segni. Un avorio levigato. Come avorio l’ovoide del viso. Non ci sono sporgenze di zigomi, asperità. Ogni lineamento è morbido e dolce: nondimeno, accattivante. La camicia da fornaio candida nasconde le forme, tradite dal collo lungo e affusolato sinonimo di eleganza. Quel collo da cigno promette seni enormi su un corpicino dai fianchi di donnola.
Ascanio ora non sa se sia senza fiato per la bellezza di Nives o per l’orrore tutt’in giro.
«Vorrei…»
Ascanio ha un tentennamento. Vorrebbe dire “focaccia”, ma all’improvviso gli sembra una parola orribile da dirsi in presenza di un angelo. Il cuore gli prende a battere nel petto e sente vampe d’emozione sul viso. Crede, Ascanio, nel colpo di fulmine? Possibile Nives, pur nella sua tenuta da lavoro, sia così abbagliante? In ogni caso, ripiega su un vocabolo più musicale, scegliendo “pizza”. Se la farà bastare, malgrado Ascanio sia un amante della focaccia. Per lui di superiore esiste soltanto la farinata bianca di Savona.
«Vorrei…»
Ascanio sta per dire “trancio”, ma d’improvviso, difronte a Nives, anche “trancio” ha suono poco musicale. Troppo aggressivo. Trancio di pizza o trancia di pizza. Gli sembra di evocarle scene di violenza e non vuole turbarla. Del resto, “pezzo di pizza” è un impiccio di suoni. “Porzione” non è musicale. “Fetta” non gli pare si addica a una pizza, ma piuttosto a una torta. Non vuol dar l’impressione a Nives, se possibile, di essere un asino. Di faciloneria: questo o quello, che importa! All’improvviso le prime parole di Ascanio a Nives, sono fondamentali. Perfino “pizza” adesso gli sembra fuori luogo. Se non fuori luogo, trovandosi in un panificio, inadatto. Come svelare un gusto il quale lo incaselli. Pizza. Ad Ascanio piace… pizza. Così, la lingua gli si frena, quasi gli si arrota in bocca, nel cercare il vocabolo.
«Vorrei…»
Si risolve per un lemma vago e indefinito.
«… cibo»
Nives crolla in un pianto. Così, ex nihilo. Giustificato, tuttavia, dato il contesto. Ascanio non prova stupore. Ha piena comprensione. Le lacrime scendono dagli occhi di Nives luccicando come fili di vetro. L’azzurro delle iridi si fa ancor più inteso. Adesso, umide di pianto, par davvero di annegarci. Ascanio quasi deve dominarsi per non muovere le braccia come chi cerchi di non affogare. Magari, invece, dovrebbe farlo, per strapparle un sorriso. Ascanio non si sente importuno nel chiederle che succede. Gli viene naturale. Forse può essere d’aiuto. Magari, Nives ha bisogno di soccorso.
«Che succede?»
«Mio marito… è matto»
Ascanio impallidisce. Il cuore aumenta i battiti. La lingua gli secca ancor più nel palato. Sentimenti di attrazione e scorno, amore e terrore, si rimescolano in lui. Sono le tre di notte. In che situazione si è infilato? La presenza eterea di Nives adesso più che a uno spirito celeste gli fa pensare a un lemure. Ascanio ammutolisce. Vorrebbe proferir parola, ma non occorre. I petali della rosa delle Alpi si dischiudono, molli, e note di flauto vi fluiscono fuori in una melodia affatturante, ancorché densa di significazioni arcane e orribili…
NdR Questo testo è l’incipit del romanzo di Marco Candida “Come il cielo”, recentemente pubblicato (ottobre 2023) da I libri di Mompracem – Betti Editrice.