Buche (sillabario della terra # 17)
di Giacomo Sartori
Fin dall’inizio del Novecento gli studiosi hanno constatato che nella terra possono riconoscersi livelli orizzontali diversi, che sono stati chiamati orizzonti. Questi si sono differenziati nel processo di gestazione del suolo, al contatto con l’atmosfera, e con il contributo di radici e organismi di vario tipo, partendo dal materiale minerale, roccioso o sciolto. I tempi delle complesse alterazioni e metamorfosi che conducono alla formazione della terra sono lenti, rapportati alla scala umana, ma pur sempre molto più brevi di quelli della geologia. Ogni orizzonte ha in genere uno spessore di trenta-settanta centimetri, per intenderci, anche se ne esistono di molto sottili e di molto spessi.
L’orizzonte superiore è più ricco di sostanza organica, e quindi più scuro, e di vita, mentre in quello soggiacente dominano in genere le colorazioni del ferro, da rosse a giallastre, a seconda dei climi e degli ambienti. Spesso è presente più in basso un orizzonte di transizione alla roccia, o insomma ai materiali minerali di partenza. A seconda della natura di questi, del clima, della vegetazione, i tipi e i loro caratteri sono però diversissimi. In ogni caso sono sempre presenti una frazione organica, anche se minima, radici e organismi viventi: qui sta differenza con il regno minerale.
In mancanza delle inappellabili particolarità anatomiche di ogni specie vegetale o animale, in mancanza insomma di meglio, tutte le classificazioni pedologiche utilizzano come criterio principale la tipologia e la successione di orizzonti. Ogni classe di suoli ha una data sequenza di orizzonti con date caratteristiche. Alcune di queste sono legate a impoverimenti, o al contrario in arricchimenti, a seguito anche di traslocazioni di sostanze e di elementi operati dall’acqua che drena nel suolo.
La prima cosa che facciamo noi pedologi, una volta aperta una buca che ci permette di avere davanti tutta la sezione verticale della terra, è vedere quanti orizzonti ci sono, e di che sorta. A parte i colori, le differenze riguardano caratteri visibili a occhio nudo, quali la porosità, l’organizzazione spaziale e la quantità di pietre, o anche rilevabili al tatto, quali la consistenza. Anche l’abbondanza e l’andamento delle radici fornisce utili informazioni. Poi naturalmente le analisi di laboratorio effettuate sui campioni prelevati permettono di andare molto più in profondità.
Certe volte gli orizzonti si riconoscono molto facilmente, in particolare quando hanno colori molto contrastati. In quel caso un’occhiata è sufficiente per definire il tipo di suolo, e non possono esserci dubbi. Altre volte invece le colorazioni nella sezione sono molto simili, e anche gli altri caratteri non mostrano a prima vista differenze. Bisogna osservare allora da vicino come stanno le cose, aguzzando la vista e punzecchiando la terra servendosi del coltello che ogni pedologo ha sempre con sé. Un po’ alla volta si constata insomma che quella che sembrava una superficie indistinta ha una stratificazione, con livelli diversi. La sezione che si ha davanti va comunque ripulita per bene, con una scopettina o un coltello: anche il miglior specialista non vede nulla, se rimane sporca.
Per definire i colori usiamo le tavole Munsell. Ogni pedologo ha con sé questo libretto plastificato con le pagine irte di tassellini di tinte diverse, ciascuno corrispondente a una data sigla. E lo custodisce gelosamente: i raggi del sole o peggio ancora qualche goccia possono rovinarlo per sempre. Prendiamo un pezzettino di terra, lo inumidiamo, cerchiamo il colore che più si avvicina, e annotiamo il relativo codice. Ma naturalmente la percezione dei colori varia da persona a persona, anche senza considerare i daltonici, quindi questa definizione non è al cento per cento oggettiva. In alcuni Paesi avanzati si usano dei colorimetri elettronici, ma pure quelli danno parecchi problemi.
Diversi altri caratteri vengono ponderati con metodi altrettanto empirici. Per quantificare la porosità e la percentuale di pietre, due elementi fondamentali, si usa una stima visuale, che vale quello che vale. Si potrebbero impiegare mezzi infinitamente più precisi, che esistono, ma sarebbero molto costosi, per il tempo e/o per le strumentazioni che richiedono. Nella pratica è impensabile un loro utilizzo corrente, ci si accontenta di un dato approssimativo.
La stessa identificazione degli orizzonti non è poi così certa, quando le differenze di colore e di aspetto sono minime, o anche i limiti che li separano invece di essere netti sono sfumati. Io ho posto il confine tra due orizzonti a tanti centimetri dalla superficie, ma un collega potrebbero metterlo più su o più giù, o addirittura considerare un solo orizzonte quelli che per me erano due orizzonti. In tanti casi si tratta di una graduale variazione, più che di una netta stratificazione, a dispetto della nostra griglia interpretativa, che ci obbliga a mettere da qualche parte dei limiti.
Certo, le analisi di laboratorio danno invece risultati molto precisi, e lì non è in gioco la soggettività umana. E anche l’attività biologica, e in particolare dei vari microrganismi, può adesso essere misurata con grande esattezza, avendo i fondi necessari. Il problema qui è la grandissima variabilità di ogni parametro, anche a distanza molto ravvicinata: a far bene bisognerebbe avere pletoriche misurazioni, in modo da ottenere affidabili valori medi. Nella pratica, visti i costi del campionamento e ancor più delle analisi, i dati disponibili sono sempre ridicolmente pochi.
La nostra conoscenza dei suoli, che sono una delle componenti principali dell’ambiente e dei sistemi ecologici, se non quella in assoluto più centrale, dipende quindi da procedure che hanno grossolane incertezze. O anche sono molto impegnative in termini di tempo e costi, e quindi sono utilizzate di rado. Siamo convinti che la nostra arma invincibile, la Scienza, possa sviscerare qualsiasi segreto, ma i suoli sono conosciuti molto male. Rimangono sostanzialmente un buco nero.
Come lo rimane però gran parte della natura, a ben vedere. Avremmo tutto quello che occorre per studiarla nei dettagli meno accessibili, correndo dietro alle sue infinitissime e spesso stravaganti volubilità, ma dobbiamo limitarci a ciò che ci è più vicino o che per le ragioni più svariate riteniamo più importante. Schiere di biologi e naturalisti si danno da fare, ma ci vorrebbe ben altro. Occorrerebbero infiniti tecnici, infiniti mezzi, ottenuti anch’essi con enormi impatti ambientali, infiniti quattrini. E il vantaggio, anche senza limitarsi a un bilancio strettamente economico, sarebbe forse relativo. Con il nobile intento di limitare i nostri danni, distruggeremmo ancora di più.
Le goffe buche mediante le quali i pedologi cercano pateticamente di parare alla nostra ignoranza dei suoli, così vicini a noi, così esiziali, diventano quindi una metafora. Dell’impossibilità di sapere tutto del mondo vivente al quale apparteniamo, della inerente parzialità di ogni approfondimento, della sua beffarda casualità, della distruzione che accompagna ogni forma di conoscenza. Ci fatica ammetterlo, ma siamo limitati, come sono limitati gli strumenti, spesso a doppio taglio, spesso distruttivi, che ci costruiamo.
Molto bello e interessante, Giacomo (come i precedenti)
grazie Mariasole, come sai si dubita sempre, ci si chiede – non parliamo poi nella assordante cacofonia presente, con la violenta dittatura della celebrità, a qualsiasi livello, anche minimo, che umilia quello che cerchiamo e ci sta più a cuore – se è qualcosa che ha un qualche senso, se a qualcuno può dire qualcosa…
Magnifica Giacomo, bella come una canzone di Gainsbourg, J’fais des trous, des petits trous, encore des petits trous…