Da “Stati di quarantena”
di Luigi Severi
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Così tanti uccelli, che resto stordito. Mi svegliano all’alba, tengono l’intero quartiere in ostaggio con una febbre elettrica, per uno, due giorni. I rami si flettono fino a sfiorare terra, volano foglie e piume a ogni passaggio. Fibrilla l’aria, le macchine si coprono di sterco. Al terzo giorno si apre la sua porta, e appare lei stupefatta, persino mi si avvicina. Che cosa pazza, dice, e forse per sbaglio mi sfiora la mano. Neanche mi ricordavo più della sua voce. In questi mesi forse ha cambiato taglio di capelli. Ma la mattina dopo mi risveglia un silenzio. Il mondo è tornato spigoloso, grigio. Una macchina che si accende in lontananza, qualcuno bestemmia per tutto quella lava di escrementi. Dall’altra stanza, il silenzio è persino più duro. Deve essere di già chiusa al lavoro.
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Colleziono arti. Di fronte alla resistenza delle cose, mi intestardisco, tento il tutto per tutto. Colleziono parti, interiora in barattoli, unghie. Le filmo dissolversi, illiquidirsi, evaporare negli anni fino a una macchia inodore. Seppellisco i film così ottenuti, magnifici, nel bosco, sotto terricci, pietre; li incastro in buchi d’albero. Riemergeranno, e quando? Metto alla prova, è chiaro. Rilancio la sfida come posso.
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Ammettiamolo, sembrava proprio che il ragazzo la prima volta fosse entrato nel giardino per rubarmi le arance. Ecco perché mi ero avvicinato a passi svelti, già pronto ad usare certi metodi. Maledetti stranieri, era la formula; vi insegnerò il rispetto. Ma quando fui più vicino, e scorsi il profilo del ragazzo, così sognante ma al tempo stesso intento a contemplare, la rabbia si raffreddò in un attimo. Quell’espressione concentrata, quegli occhi che scrutavano, millimetro per millimetro, la corteccia liscia e marrone della pianta. Si trattava, non c’era dubbio, di un demente, ma di quelli innocui. Ne ebbi conferma di fronte al suo silenzio testardo; ai gesti e ai toni mortificati di suo nonno, che si scusava con tutto l’inchinarsi del suo corpo, visto che la loro lingua non era comprensibile a nessuno. Gli feci cenno di portarselo via, con accigliata ma clemente fermezza. Non avevamo bisogno, dopo quello che era successo e stava succedendo, di gente migratoria; osservandoli, così chini e dimessi, capivo infatti che venivano da zone calcinate, cretti cementizi, polveri esplose, solo ora più frequenti anche da noi. L’epoca del Disfacimento aveva gradi diversi; loro erano scappati dal peggiore. Richiusi quindi il cancelletto, fino al clac e alle due ombre che si allontanavano amare, giù dalla parte dei garage. Me ne rimase un’impressione, che quasi mi fece compagnia i giorni seguenti. Non fui allora stupito quando, al principio di una grigia alba, scorsi di nuovo il demente, stavolta di fronte al gelso nero, quasi in dialogo stretto coi suoi rami, in attenta valutazione della sua corteccia troppo desquamata, delle sue foglie tormentose, alterne. Fui invece più attento, incuriosito, quando lo vidi avvicinarsi, emozionato, allo scotano. Sembrava quasi grato, di fronte a quell’arbusto prostrato, alle sue ramificazioni, al tappeto della sua infiorescenza dai peduncoli piumosi. Sembrava studiarne, con una leggera pressione delle dita appena intruse nella terra, la forza propagata delle radici; per poi scuotere la testa, insoddisfatto. Credetti che, aspirando come il più valido giardiniere l’aroma di trementina e tannino delle foglie, apprezzasse il grado di salute della pianta, restando poi in contemplazione della sua propagata, sebbene già fragile, bellezza.
Questo, per i pochi mesi della nostra silenziosa conoscenza, divenne un rito. Poiché non avevo più nulla da fare, aspettavo il demente fin dal momento dell’aurora, che rivelava i bordi rugginosi dei balconi, la noia delle parabole divelte, le piramidi di lamiera in lontananza. Col passare dei giorni, mi accorsi che molto meglio di me comprendeva, a prima vista, la sofferenza smagrita dell’ontano, o la rassegnazione del roveto ardente, cresciuto un tempo in forma libera e ora così lacero, da produrre deboli foglie opache, nate morte. Il demente seguiva, ogni mattina, con una tenerezza serena e composta, lo svigorirsi insensato delle mie piante, cercando di confortarle per vie segrete, tattili; o forse viceversa; non lo so. Quel che so, è che quando anche il prugnolo si ammalò, e le sue foglie minime decaddero, e i rami scheletriti misero a nudo nidi deserti da anni: allora il demente si sollevò in piedi, uscì dal cancello, e così com’era venuto si dissolse.
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Cammina in modo da non dover mai incontrare la sua ombra. È una delle strategie che ha dovuto mettere a punto. Per fortuna la vita in un monolocale, il lavoro a distanza, la posizione seduta gli ha permesso di ridurre al minimo gli incontri con se stesso. Più che con la luce diurna, il problema è quando i lavori si protraggono. È stato sufficiente un gioco di illuminazione (del resto, lavora nel settore), un’accorta distribuzione e inclinazione di faretti e luci dall’alto, schiaccianti, per sterminare al massimo le ombre a cui dava vita, tutte scorie di sé, quella prole fantasmatica e fluttuante che letteralmente iniziava ad aggredirlo. In attesa del buio, che lo salva. (Non fosse per il respiro monotono, per i rumori interni, acquei e meccanici, che lo assordano da dentro nottetempo).
Marco, ci sei? Puoi dirci la tua opinione, su questo contratto?
Potrebbe, in effetti.
Ma: 1. Il nome Marco comincia a detestarlo. 2. La sua voce, sempre uguale, produce nuove categorie di fastidi uditivi, attinenti assieme alla fisica e alla sua privata biologia. 3. È alle prese con un pensiero che da tutta la giornata lo affligge.
Il pensiero in questione riguarda sempre più strettamente alcune intempestive pressioni nel suo corpo. Si è accorto infatti che la sua vita diurna consiste in continue assunzioni di cibo, le quali peraltro comportano sempre il disfacimento di corpi altrui, vegetali o animali che siano. Ma non è di tempra filosofica o morale, il suo problema, quanto grettamente pragmatica. Non soltanto infatti deve avere a che fare col movimento frequente e rumoroso delle mandibole, lo sgretolamento delle carni d’altri, la liquefazione schiumosa in bocca delle fibre, ma anche con la sempre più pericolosa e concreta percezione dei propri liquidi, flussi, acidi, secrezioni, succhi vorticanti, nonché delle molteplici colonie batteriche che popolano i suoi anfratti più bui, e che non ha mai avuto modo di vedere, con cui non ha mai apertamente pattuito, fosse stato possibile, la gestione di spazi o di risorse. Peggio ancora, per una legge erronea, questo magma di cibo digesto, variamente lavorato in zone intestine del proprio corpo che neanche può visualizzare o percorrere (si domanda perché gli occhi siano solo puntati verso l’esterno, quando è il mondo d’interiora che più conta), quel fluido scorrente verso il basso dopo tanto oscuro percorso diventa giocoforza liquame, così sudicio e infetto, così umiliante e rivelatore, che ormai lo lascia giacere sul fondo nauseoso di un catino, perché nessuna corrente idraulica artificiale possa dissolverne, a evacuazione finita, la coscienza.
Marco puoi sentirmi, puoi rispondermi.
Ma la risposta, decide all’improvviso, è negativa, perché la sua lotta contro tanto ripugnante espressione di sé, anzi contro tutte le sue più vili e disturbanti manifestazioni è ormai una guerra – ha deciso da tempo – senza quartiere, e nessun alimento da giorni si muove più, orrendamente, nei suoi tubi oleosi, e quella pressione sfinterica, quella tensione liquida e urinaria che lo provoca e sfinisce non lo vincerà più, pensa di nuovo con un filo quantomeno di soddisfazione, mentre contempla dentro il catino, a sfida, quel movimento caotico di insetti e sozzura sobbollente, cui non contribuirà più, finalmente orgoglioso di sé, avviato a qualcosa di pulito; che sia esempio.
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Il bambino di cinque anni aveva una sua consistenza morbida, acquea. Aspettava sulla soglia di casa la madre che rientrava, mentre il maggiore di là giocava a qualcuno dei suoi giochi pieni di rumori, sagome sul computer. La madre era sempre molto stanca, dopo tutte quelle ore di lavoro, ma lo abbracciava lo stesso fino in fondo, ne palpava la consistenza acquea ed assorta, in fioritura lenta, come se stesse aspettando qualche cosa.
Sta aspettando, abbiate fiducia, aveva detto la dottoressa delle parole. Lui la ricordava bene, la dottoressa delle parole. Era donna, aveva quel profumo e molti capelli intorno al viso, una raggera di capelli neri e mossi, come avessero sempre il vento dentro. Gli parlava, gli faceva muovere cubi con colori, disegni, lettere. Il suo preferito era quello con sopra una rana. Prendi la rana, lei gli diceva. E lui la prendeva. Ora prendi la formica. E lui la prendeva, docile. Poi gli diceva di prendere molti altri cubi, e sempre si meritava il consenso della dottoressa delle parole, che poi di là diceva: non capisco, sa tutto, ma sceglie di non parlare. Sta (secondo me) come aspettando.
Lui, infatti, aspettava. Aspettava per esempio la madre, che quando lo vedeva dopo molte ore poi lo abbracciava, sebbene molto stanca, fino in fondo, a fondere acqua e ossa. Oppure l’uomo, che tornava e gli piaceva di meno, così slegato e assente com’era, coi lineamenti duri, l’odore di fumo e cose acide nei vestiti, negli occhi incisi di rosso. Aspettava anche i due bambini magri e duri, che lo battevano il giorno dopo, col dorso della mano o con le nocche, quando la maestra non vedeva, perché lui era lo scemo della classe, e tutti ne ridevano, mentre il sole tagliava in obliquo l’aria della classe.
Ma aspettava soprattutto il rospo, quell’essere molle e fragile, che ogni sera vedeva spuntare da dietro il cespuglio. Non era il primo, e sapeva sempre come sarebbe finito, perché il bambino di cinque anni conosceva soprattutto attraverso i ricordi. Il cespuglio era là dietro, e nessuno sapeva neanche che esistesse, perché da quella strada uscivano soltanto macchine, o ci rientravano, e in fondo c’erano eco di metalli sbattuti, odori di oli stagnanti, di accumuli.
Invece, senza alcuna ragione al mondo, e senza che nessun altro lo sapesse, da dietro quel cespuglio si ostinavano a nascere rospi dai corpi enfi, esseri muti e morbidi, acquei. Lui conosceva l’ora giusta; usciva, aspettava; poi i due si guatavano, a lungo. Per certe creature il tempo ha una durata diversa, comincia e se ne va in unico involucro rotondo; e solo chi ci sta dentro può incontrarsi.
Poi succedeva sempre: che una di quelle ruote passasse troppo presto, o troppo tardi. Il rospo allora svaniva in acqua, e il bambino rientrava nell’odore, nel corpo duro e acido della casa, pensando a qualcosa come a un numero, qualcosa che non finiva mai, che si aggiungeva sempre, un po’ alla volta; come le gocce dal rubinetto nella notte.
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Giorno 1. Mi sveglio e non riesco ad alzarmi. Tanto il dolore. Provo a infilare la mano, e dentro c’è qualcosa. Resto incredulo, ma i fatti sono i fatti. Quando lo estraggo, lo osservo e scopro che è un tamburo, di quelli per bambini, di squallida plastica. Mi domando che scherzo sia questo, e chi mai di notte abbia deciso di impiegare del tempo per mettermi un oggetto, inutile in partenza, nella pancia. Confuso e dolorante, provo a andare a lavoro, persino a dimenticarmi della cosa.
Giorno 2. Però la mattina dopo ci risiamo. Mi sveglio di nuovo rattrappito. Grande il dolore, al centro del ventre. Invece è solo un oggetto di elettronica, qualcosa come una sveglia, oltretutto di scarse dimensioni. Sdrammatizzo: magari funzionasse, una sveglia poteva anche servirmi. L’ironia, penso tra me mentre mi alzo, potrebbe essere una chiave di distacco.
Giorno 10. La cosa ha preso invece questa piega. Non so spiegarmelo, nessuno sa spiegarmelo, ma sta di fatto che accade. Capita solo a me? Sono vittima di un’azione dimostrativa? Di un esperimento sugli oggetti, cui non ho mai aderito, e il gioco sta proprio in questa inconsapevolezza? Le domande sono molte, le risposte nessuna, tranne quella più ovvia. I dieci oggetti sullo scaffale. A questo punto so che la cosa non può smettere, se non trovo quanto prima un bandolo.
Giorno 13. Così non posso andare avanti, lo capisce? Alla fine, sbottando, gli ho detto di aprire gli occhi. Chissà che in quella grossa pancia anche lui non abbia mille oggetti, e non se ne accorga per via della sua semplicità, o noncuranza. Questo ho detto, al dottore che mi guardava, e non capiva per cosa dovesse farmi un certificato di malattia. Mi ha guardato in silenzio. Mi ha prescritto una settimana di riposo. Ma quel suo sguardo non mi ha tranquillizzato. È ovvio che non mi abbia creduto. O forse anche lui è parte del gioco.
Giorno 16. Dolore. Troppo lo strappo, all’estrazione. Anche se gli oggetti sono piccoli, possono sempre essere puntuti. Niente mi ha dato più dolore delle pinzette per ciglia e sopracciglia, stamattina. Passerò l’intera giornata a riprendermi. (Né so per quanto riuscirò a resistere).
Giorno 22. Altri oggetti di elettronica. Confusi, senza capo né coda. In coppia. Forse prototipi, o rottami inservibili. Sta di fatto che striscio, se voglio arrivare a bermi un sorso d’acqua; tanto il male.
Giorno 24. Che ingenuo sono stato, a fidarmi. Mi vedo questo signore, stamattina. Gli indico la caterva di oggetti, sullo scaffale. Che apra gli occhi. Discorso, il mio, chiarissimo. Eppure fa mostra di non capirlo, di non capire affatto. Prende appunti, sembra tecnico e in ascolto, ma quando poi mi guarda vedo bene che non mi crede, o finge di non credermi. Che sia anche lui parte del gioco? Mi dà gocce da prendere nell’acqua, compresse, per vedere come va il dolore, dice lui. Per vedere se passa questo fenomeno, dice lui. La parola fenomeno va bene? Mi posso fidare?
Giorno 31. Non riesco più nemmeno a cucinarmi. Ieri quel pupazzo in gomma era gentile, ma oggi qualcosa come un flessibile o altro mi ha disfatto. Mi sento squarciato, ormai allo stremo.
Giorno 33. Comincio a intuire una logica. Stanno dimostrando qualcosa attraverso di me. Gli oggetti, di ogni specie, mi sogguardano, da quello scaffale. Allineati, molteplici; là sopra. Sono stati parte di me, arrivo persino a rispettarli. C’è un codice, che ancora non riesco a intendere. Sono stato il libro scritto in un codice nuovo, indecifrabile. Fatto di cose, simboli corporei.
Giorno 34. Ma lascio ad altri, io sono così stanco, che non arriverò in fondo. Finisce qui la mia testimonianza.
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Chiara ha denti sottili, si muove con piedi abili e svelti. Quando qualcuno si accorge che c’è, dentro la stanza, lei si difende sorridendo, e dalla linea delle labbra lascia uscire quei denti piccolissimi, da latte. L’altro si disarma, e di fronte a quella stranezza silenziosa lascia andare, si applica ad altro. Per qualche secondo gliene resta una scia di particelle, poi più niente. Chiara preferisce certi frullati bianchi, d’altra parte; e se è costretta a mangiare, lo fa aspirando frammenti dagli angoli; molliche.
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[immagine: Andrea Inglese]