Sotto la campana di vetro dell’America puritana
di Mauro Baldrati
Questo è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath. Almeno così risulta, perché il beneficio del dubbio serpeggia. I suoi testi sono stati curati dal marito, il poeta inglese Ted Hughes, il quale ha distrutto molte pagine dei diari perché “non volevo che i figli li leggessero”. Ma forse si parlava anche di lui in termini non proprio edificanti. Probabilmente, nel romanzo, alcuni suoi tratti rivivono nel personaggio di Buddy Willard, che doveva essere il promesso sposo della narratrice, Buddy l’ipocrita. Verso di lui va e viene, come una sorta di Yin Yang (an)affettivo che corre sulle pagine, un sentimento doppio di attrazione e repulsione, che potremmo definire la “cifra” dell’intero testo. Infatti Esther, la brava ragazza bostoniana, efficiente, la prima della classe, quando si trasferisce a New York vive proprio questo dualismo positivista/negativista, che ci accompagna per tutto il romanzo.
Ma è un romanzo? L’aspetto biografico è palese, infatti Sylvia lo pubblicò nel 1963 con uno pseudonimo, temendo che diversi personaggi potessero riconoscersi nei loro profili letterari niente affatto smart. Già, perché la Plath non concede sconti, li fa muovere in un teatro dello straniamento, del grottesco addirittura. Un po’ come nella Recherche, dove alcuni modelli dei favolosi, aristocratici cicisbei si offesero a morte e tolsero il saluto all’autore.
Potremmo definire La campana di vetro un’autofiction tardo-antichista, perché il filtro letterario depura e/o drammatizza ogni interfaccia dell’autobiografismo, in particolare il già citato dualismo partecipazione-distacco, azione e osservazione, con la crepa del paradossale, del triste, dell’inutile. Esther vive da prigioniera sotto la campana di vetro dell’America puritana reazionaria degli anni ’50 (in particolare del 1953, quando il racconto parte con una considerazione sull’imminente esecuzione dei Rosemberg) dove l’aria è irrespirabile, cercando, forse sognando di omologarsi, di aderire alle alle regole senza pietà del conformismo. Una fra tutte il matrimonio, l’ossessione delle ragazze di quel periodo, imprigionate dalla fitta grata dell’arcigno pensiero patriarcale:
“Stavo pensando che se avessi avuto il buon senso di rimanere nella cittadina dove ero nata, magari avrei potuto conoscere quella guardia carceraria a scuola e sposarla, e a quest’ora avrei avuto una caterva di bambini. Sarebbe stato bello abitare in riva al mare con mucchi di bambini, maiali e polli, vestita con uno di quei grembiuli da lavandaia, come li chiamava la nonna, e passare le mie giornate in una bella cucina dal linoleum allegro a bere, le braccia belle grasse appoggiate sul tavolo, tazze su tazze di caffè.” (Pag. 125)
Ma 55 pagine più indietro ha scritto, molto proustianamente:
“Era sempre la stessa storia: adocchiavo un ragazzo e da lontano sembrava perfetto, ma non appena si faceva più vicino scoprivo che non mi piaceva più.
Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la “sicurezza assoluta” ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni, come le scintille multicolori dei razzi il 4 luglio (…). Provai a immaginare come sarebbe stata la mia vita con Constantin come marito. In piedi alle sette a preparargli uova e pancetta, pane tostato e caffè, poi, quando lui fosse uscito per andare al lavoro, girare per casa in vestaglia e bigodini a lavare piatti sporchi e a rifare il letto; e lui, al ritorno alla sera, dopo una giornata intensa e affascinante, avrebbe preteso una cena come si deve e io avrei trascorso la serata a lavare altri piatti sporchi, finché sarei crollata a letto, sfinita”.
Desiderio di uniformarsi, forse per trovare una via d’uscita dalla campana di vetro, ma una impossibilità, in parte personale per una ragazza che sogna di essere una freccia che vola in tutte le direzioni, in parte per l’ostilità politica e culturale dell’esterno che non ammette deroghe né felicità, lo neutralizza. Esther fa tutto a New York. Cerca di godersi i piaceri della metropoli, va agli appuntamenti mondani come inviata della rivista di moda per la quale lavora come tirocinante grazie alla borsa di studio (Mademoiselle nella realtà), convive con le altre borsiste, conosce uomini, riceve inviti e corteggiamenti. Ma resta straniata, un’osservatrice implacabile che registra tutti segnali del grottesco: quei ragazzi tonti, volgari, li liquida con battute crudeli, come quando un’amica la trascina a un ballo con due tipi raccattati in un locale, ma a lei tocca un “tappo”, che non sopporta perché è di statura alta; e anche più avanti, quando un’altra amica vuole trovarle un accompagnatore teme di imbattersi in un ennesimo “tappetto” del piffero.
Il romanzo autobiografico procede svelto, supportato da una splendida, estrosa scrittura materialista, che qua e là evoca un’altra formidabile stilista: Goliarda Sapienza.
Corre verso la svolta, quando il desiderio – il sogno? – di integrarsi nella società si scontra con l’opposizione granitica di un mondo che non ammette libertà individuali, ma anche col proprio dolore interno, fino alla frattura del disordine mentale. Esther torna a Boston e inizia a stare male, molto male. Si sente “fuori”, si sente matta, fa cose assurde. E proprio come la sua autrice viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, dove regna una gentilezza spettrale, diretto dal mellifluo, inquietante “dottor Gordon”. La sottopongono a elettroshock, più volte, in un turbine di medici imperturbabili, infermiere, altri pazienti, tutte figure aliene, distanti, che lei osserva con un binocolo rovesciato, che ascolta da un altoparlante isterico e afono. Non ci sono sfoghi né vittimismi, ma un’operazione letteraria raffinata che allarga il sentimento di dolore e di solitudine privata in collettivo, scardinando l’intero sistema che cauterizza il disagio e la diversità, suscitando un istinto di rivolta nel lettore. Il tutto con un distacco non privo di ironia che rende lo scenario una sorta di paesaggio lunare, che richiama un enunciato che tutti noi, chi più chi meno, conosciamo: “Ma io che diavolo ci faccio qui?”