Su “L’osso, l’anima” di Bartolo Cattafi
[Questo articolo, dedicato al libro di Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima (a cura di Diego Bertelli, Le Lettere, Firenze, 2022), è apparso sul numero n° 7/8 (luglio-agosto, 2023) de “L’Indice”.]
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di Andrea Inglese
Con la riedizione del suo libro più intenso, L’osso, l’anima, uscito per la prima volta nel 1964, e ristampato per Le Lettere nel 2022 a cura di Diego Bertelli, possiamo dire che Bartolo Cattafi ha cessato di essere un poeta dimenticato o sottostimato criticamente. A partire da Spalle al muro del 2003, una monografia critica di Paolo Maccari – anch’egli poeta – si è assistito a un crescente interesse per l’opera di Cattafi (1922-1979) soprattutto da parte delle più giovani generazioni di critici e autori, che ha avuto come importante coronamento la pubblicazione di Tutte le poesie nel 2019, sempre per Le Lettere e a cura di Bertelli, con introduzione di Raoul Bruni. Secondo quest’ultimo, il poeta siciliano va annoverato tra gli “irregolari” del Novecento, con Delfini, Landolfi, Morselli – ma la lista, lo sappiamo, sarebbe più lunga –, che non sono stati, per varie ragioni, considerati degni di adeguata attenzione critica. Innanzitutto, Cattafi ha mostrato una certa noncuranza nei confronti della corporazione poetica del suo tempo, e non si è prestato a una facile catalogazione nelle categorie critiche disponibili – a lui spettò, con una certa approssimazione, l’inclusione nella “linea lombarda”. A rileggere oggi L’osso, l’anima altre parentele sorgono, anche se inaspettate: con il Kafka dei racconti in forma di parabola, con l’anti-lirico Henri Michaux (L’espace du dedans, titolo di un’antologia ripubblicata nel 1966), con i romanzi surreali (ma non surrealisti) di Witold Gombrowicz. Il curatore, nel suo saggio introduttivo, esplora con attenzione le ragioni di questa mancata assimilazione della poesia cattafiana nel canone del secondo novecento, citando però anche coloro che, come Raboni o Luigi Baldacci, seppero cogliere la forza e l’originalità della sua opera, riconducibile “alla tradizione europea anziché al contesto nostrano”.
La diade lessicale del titolo c’introduce non tanto alla contraddittoria coesistenza tra mente e corpo, tra anima e carne, che tanto ha marcato la civiltà occidentale da un punto di vista filosofico e religioso, ma all’enigma della loro vicinanza, che potrebbe rivelare una forma di reversibilità: non l’osso e l’anima, ma l’osso è l’anima – “(…) è casomai in sequenza analogica e appositiva, scrive Bertelli, che dobbiamo interpretare i due termini”. Possiamo intenderlo in questo modo, allora, il titolo di Cattafi: lo spazio del di dentro è altrettanto opaco che lo spazio del di fuori; non solo la coscienza non fornisce all’essere umano nessun privilegio morale nei confronti della turpitudine cosmica, ma neppure le sue facoltà conoscitive le permettono un vero controllo sul destino. Accenti leopardiani attraversano la poesia di Cattafi, ma con una disinvoltura e un’ironia tutta novecentesca. D’altra parte, L’osso, l’anima, sembra eleggere come proprio osservatorio privilegiato la soglia tra soggetto e mondo, lo schermo della coscienza nel bilico che separa l’io dall’azione, il principio dalla sua messa in opera, l’enunciato dalla cosa a cui si riferisce.
Un’altra caratteristica della voce di Cattafi è la perentorietà degli attacchi e la versificazione martellante che li sviluppa. Evochiamone qualcuno: “Quanto secchi e squadrati / i nostri metri di mondo. / (…)”; “Lascia stare le fredde geometrie, / i faticosi conti della serva. / (…)”; “Giunse quindi il momento di buttarci / a capofitto, / ariete sprizzaschegge / che squassa scardina divelle. / (…)”; “Ti spiattello in faccia / come vanno le cose: / vanno male. / (…)”; “La tua grande bravura / infilare nel quadro colori / tesi, drammatici, scattanti. / (…)”. La brevità e la causticità dell’epigramma sono messe qui al servizio di un’intenzione allegorica, che inscena brevi parabole, micro-narrazioni, dialoghi interiori, che quasi mai fungono da espressione lirica diretta di un’esperienza. Un riferimento italiano pertinente, per questo e altri libri di Cattafi, è allora il Caproni allegorico del Franco cacciatore, ma già punti di contatto possono stabilirsi con il quasi coevo Il muro della terra, che è uscito nel 1975, ma include componimenti degli anni Sessanta. La differenza con Caproni è riscontrabile soprattutto nella più ampia mobilità figurativa di Cattafi, che pur funzionando anch’egli per “variazioni su tema”, rifiuta di confinare i suoi componimento entro una cornice allegorica unitaria e ben definita (la caccia, in Caproni).
Come già ricordato, la scena ricorrente in Cattafi è quella di un programma razionale, di conoscenza o azione, che s’infrange puntualmente contro il mondo (o il proprio sé inconsapevole e animale); in questo la sua tragicità e l’”antiumanesimo integrale” di cui ha scritto Baldacci. La parola poetica è una constatazione d’impotenza nei confronti degli eventi che circondano l’uomo, nonostante la sua presunzione di conoscere e controllare la realtà. E non vi sono zone di conciliazione (religiosa) o di riparazione (etico-politica) possibili. Nemmeno margini di montaliana saggezza. Ma vi è l’esistenziale energia, l’eros insopprimibile, che Albert Camus aveva visto nello sforzo vano di Sisifo, e che Cattafi celebra in questi fronteggiamenti con il mondo nella sua ambigua carnalità: ora calda e afferrabile, ora sfuggente e illusoria.