Cronache del mondo sommerso
di Giovanni Di Benedetto[1]
Lo sentimmo arrivare da lontano, il mare, annunciato dalla presenza insolita di uno stormo di gabbiani che volava basso nel cielo, all’altezza dell’incrocio della rue de Crimée con la rue d’Aubervilliers, alle porte della città. Nel giro di pochi minuti l’intera parte nord-occidentale fu ricoperta dalle acque. Fu così che ebbe inizio la nostra vita nel mondo sommerso.
Dalla Rue d’Athènes la torre dell’orologio della Gare Saint-Lazare si ergeva tra i campanili come uno dei bastioni eretti lungo la frontiera che separa le città al di là dello Stige. Le sirene segnalavano l’inizio del coprifuoco come se stessero annunciando la resurrezione dei morti.
Eppure, nei primi mesi, nonostante le maree, la nostra vita continuava come sempre. Quando nel cielo i pesci si sostituirono agli uccelli quasi non ce ne accorgemmo. La meraviglia era parte integrante del nostro amore e cosa del tutto naturale per noi due.
Le cose iniziarono a cambiare al ritorno di Orlando da Napoli. Come testimoniavano le foto che aveva realizzato nel corso della sua spedizione, la città era ormai ricoperta dal sale e dalla fitta vegetazione marina:
Durante il soggiorno a Napoli, Orlando era riuscito ad acquistare al mercato nero i diari di L.B. Amalfitano, un Enciclopedista noto per aver compilato le cosiddette Cronache del mondo sommerso. In questo libello, seguendo la regola millenaria dell’ordine degli Enciclopedisti, Amalfitano aveva riportato, con minuzia di particolari, gli eventi che fecero di Napoli la prima delle città del mondo sommerso. I diari non contenevano solo il materiale preparatorio a quest’opera ma anche gli appunti delle ricerche condotte da Amalfitano per conto della Società della Grande Enciclopedia Universale. Un diario in particolare aveva catturato l’attenzione di Orlando, quello che copriva il periodo di oltre vent’anni durante il quale Amalfitano aveva viaggiato nei territori costieri del Mediterraneo occidentale. Le indagini di Amalfitano lo avevano portato a ipotizzare che i Fenici, oltre alla coltivazione dell’uva rossa, avessero introdotto la coltivazione delle statue in un vasto territorio che andava da Tiro fino a Hyères. Nel corso delle sue spedizioni nei differenti porti del Mediterraneo, Amalfitano aveva raccolto il materiale necessario alla compilazione di una scheda enciclopedica che descrivesse i riti e le pratiche connesse a questa usanza di cui la storia aveva cancellato quasi ogni traccia[2]. Tuttavia, la ragione per la quale Orlando volle mostrarci il diario era un’altra. In quelle pagine era raccontata anche la storia tra L.B. Amalfitano e Luz Florival, il personaggio a cui sono dedicate le Cronache del mondo sommerso[3]. Il racconto del loro primo incontro è descritto fin nei più piccoli dettagli. Orlando ci raccontò l’episodio per metterci in guardia dalle conseguenze dell’amore al tempo della grande marea.
Quel giorno Luz era seduta alla terrazza di un bar nei pressi del porto di Hyères[4]. Amalfitano leggeva un commento settecentesco del celebre umanista francese R.F.P. Brunck ad alcuni epigrammi di Meleagro di Gadara contenuti nell’Antologia palatina. Luz beveva una Coca-Cola a un tavolino di fronte al suo. Quando il campanile sulla piazza indicò le tre del pomeriggio, il sole scomparve e il bar fu inondato dall’ombra. Luz si tolse gli occhiali e Amalfitano vide per la prima volta i suoi occhi verdi corrosi dal sole. Amalfitano mise il libro in una tasca e si avvicinò a Luz chiedendole il permesso di sedersi con lei. Continuarono a parlare fino al sopraggiungere della sera, quando decisero di fare due passi e andare a guardare il mare. Camminarono insieme lungo il Boulevard de la Marine e fumarono una sigaretta sulla spiaggia antistante. Parlarono fino a tardi e all’alba si incamminarono verso la fermata dell’autobus che li avrebbe riportati nella città vecchia. Si salutarono davanti al portone di casa di Luz e promisero di rivedersi il giorno dopo. L’indomani s’inoltrarono nel dedalo di stradine del centro. Le voci e i passi si intrecciavano l’uno con l’altro mentre si raccontavano le rispettive vite. Durante quella deriva urbana i due sembravano attraversare e sezionare, senza soluzione di continuità, il cuore e la città vecchia di Hyères. Luz gli parlò del suo villaggio natale, del mare dei Caraibi e della barriera corallina, del cielo stellato che vedeva dal giardino di casa sull’isola della Désirade, dei suoi antenati, del nonno e di come questi le avesse insegnato ad accendere il sole. Amalfitano le raccontò la storia della sua città, le gesta remote della sua fondazione da parte dei coloni greci, e poi quella delle sue innumerevoli distruzioni, delle sue dominazioni e delle epidemie di peste che ne decimarono a più riprese la popolazione. Le raccontò poi delle strade e dei palazzi sventrati dal sole e della pietra vulcanica con la quale l’intera città era costruita, il tufo, e di come questa configurasse sulla sua superficie spugnosa interi ed inesplorati microcosmi lunari.
Quando arrivarono nei pressi di una piccola spiaggia di ciottoli nei dintorni del porto, Luz decise di raccontare ad Amalfitano una storia ben anteriore a quella che gli aveva appena raccontato, la storia delle diverse trasmigrazioni della sua anima e di come la sua prima sembianza umana avesse preso forma soltanto nel 1510, l’epoca in cui conobbe per la prima volta l’amore. Al termine di quell’esistenza umana, l’anima di Luz Florival iniziò a trasmigrare e prese le forme più diverse. Durante i secoli che seguirono, fu prima un ramo di baobab del Madagascar, nei pressi di Majhanga, non lontano dal mare, poi un’ape regina, poi Jusepe de Ribeira, il pittore spagnolo di cui si persero le spoglie in seguito ai continui rimaneggiamenti architettonici che aveva subito la Chiesa di Santa Maria del Parto nella quale era stato sepolto nel 1652. Luz raccontò poi la sua successiva trasmigrazione in un arancio del giardino dell’Alhambra di Granada e quella in un sarago del Mar Nero, quella brevissima in una zanzara dell’Amazzonia e continuò poi ad enumerare il resto delle numerose forme e sembianze della flora e la fauna delle due parti del mondo che precedettero la sua sembianza umana attuale. Dopo una breve esitazione Luz disse che tale sembianza precedeva la sembianza della pietra, lo stato finale verso cui tendono le anime prima di spegnersi per sempre, una pietra come quelle che facevano della spiaggia un immenso cimitero eroso dal sale. Alla pietra sarebbero poi seguite la polvere e la sabbia e dopo ancora, l’eternità silenziosa delle stelle morte. Amalfitano sarebbe stato per lei l’ultimo tentativo che avrebbe avuto l’amore di inscriversi nella storia prima di confondersi con l’antimateria dell’oblio per il quale ciò che è stato non sarà più.
Fu in seguito a questa conversazione sulla spiaggia di Hyères che Amalfitano propose a Luz di partire con lui alla volta di Napoli. Nel corso delle sue ricerche Amalfitano era arrivato alla conclusione che Napoli fosse la terra nella quale si rifugiarono i Babilonesi in esilio[5]. Amalfitano sosteneva che fossero stati i Babilonesi a scoprire le qualità taumaturgiche del tufo. La forma spugnosa che aveva la pietra era una prova tangibile del fatto che essa fosse la sola sedimentazione minerale capace di custodire la memoria assorbendo i ricordi e resistere così all’antimateria dell’oblio. Amalfitano mostrò a Luz la trascrizione che aveva fatto della superficie di una pietra di tufo che aveva prelevato a Napoli:
Amalfitano e Luz partirono per Napoli nell’Anno Domini 2023. Si amarono, vissero felici, ebbero modo di vedere la loro sembianza umana invecchiare e deperire. E poi arrivò la catastrofe e Napoli divenne una delle città del mondo sommerso. A nulla servì l’iniziazione all’alchimia a cui era stato introdotto Amalfitano durante i suoi ultimi anni di vita. Il mare arrivò e sommerse la città e il sale erose le sue pietre millenarie ed erose poi la storia e tutto fu come se nulla fosse mai esistito. Tutto divenne un fondale marino e l’amore una nuova faglia del globo terrestre.
Quanto a noi due, dopo quei primi mesi in cui tutto sembrava continuare a scorrere come d’abitudine, tutto ebbe fine come al risveglio da un sogno o come l’addentrarsi nel sonno, in apnea, sentendo l’abisso fendere lo sguardo e poi la caduta, il nulla, le stelle morte, il vertiginare del cuore, il tuo viso che scompare.
Il giorno dopo la grande mareggiata preparai la mia valigia e mi inoltrai anch’io lungo la strada che conduceva sulla Luna, l’unico luogo in cui, secondo la leggenda, forse avrei potuto ritrovarti.
FINE
[1] La presente edizione è stata curata dal professor Isidoro Da Capua a partire dal codice anepigrafo Nap. 213. Il manoscritto, custodito oggi presso la Biblioteca dei Girolamini di Napoli, appartiene a un fondo sopravvissuto al terribile incendio che distrusse parte della Bibliothèque Nationale de France nel corso della quarta decade del secolo Ventunesimo [N.d.E.].
[2] Amalfitano suggerisce che la coltivazione delle statue sia stata una pratica di origine indoeuropea precedente e in concorrenza con la sepoltura dei morti. La Zikhrone (trascrizione fonetica di זכרון, “zkhrwn”, parola che indica anche il lessema “memoria”) è una statua composta da elementi vegetali di varia natura dedicata a un antenato. Sul corpo principale della statua sono innestate delle specie precise di arbusti o di piante, la Dracaena reflexa e la Commiphora pervilleana in particolare. La Commiphora era chiamata dai Fenici Mt-ḥy (מת-חי, letteralmente: “morto-vivente”). Questo arbusto era utilizzato nell’attività agropastorale come supporto dei recinti per le pecore. Il Mt-ḥy è un arbusto che durante la stagione secca perde le sue foglie. In questo periodo la fotosintesi è assicurata dal suo tronco dalla corteccia fine e screpolata: pur sembrando morto, il verde delle parti visibili del tronco mostra una vita ancora attiva. Inoltre, esso si riproduce per talea poiché dà origine a nuovi esemplari a partire dei suoi frammenti.
Considerando i materiali fragili con le quali le statue sono coltivate, appare evidente la necessità che richiede la loro coltura al fine di preservare la memoria dell’antenato per il quale la statua é stata edificata: la minaccia della decomposizione dei materiali vegetali che la compongono richiede un’attenzione periodica da parte della famiglia che implica la volontà dei discendenti di tramandare i ricordi dei loro antenati. [N.d.E.]
[3] L’episodio dell’incontro con Luz Florival e del viaggio a Napoli costituisce uno degli esempi più compiuti del metodo di lavoro di L.B. Amalfitano. Una notizia biografica riportata nella S.O.U.D.A. di Ibn Khwârizmî (Alessandria, 2024 – Taranto, 2052) riferisce come Amalfitano fosse cresciuto, fin dalla sua prima infanzia, con una paura maniacale di perdere la memoria. Per questa ragione nei suoi diari erano annotati, senza un ordine apparente, i dettagli più effimeri della vita quotidiana: liste della spesa, citazioni erudite, i riferimenti bibliografici di opere consultate in biblioteca, il numero d’inventario di un oggetto osservato in un museo. Le note sono spesso accompagnate da commenti circostanziati e da alcune relazioni riguardanti la sua vita privata. Per separarli dal labirinto di dati e informazioni raccolte durante le sue inchieste enciclopediche, Amalfitano incornicia questi testi all’interno di alcuni riquadri disegnati da lui stesso. Gli episodi e gli aneddoti narrativi trascritti si possono classificare in un ordine cronologico in grado di restituirci l’itinerario di una vita: il materiale autobiografico fa da cornice al materiale enciclopedico raccolto da Amalfitano nel corso delle sue innumerevoli spedizioni. Cfr. Ibn Khwârizmî, S.O.U.D.A. – Sunagogé Onomastikès Ulès Diaphorôn Andrôn, Cambridge University Press, Cambridge, 2046, trad.it. a cura di G. Di Benedetto, Raccolta del materiale onomastico di differenti uomini. [N.d.E.]
[4] Secondo una versione apocrifa dell’Odissea rinvenuta nel 2018 su una tavoletta d’argilla databile del III secolo d.C., la città era una colonia fenicia di Sidone. Cfr. Ansa.it, 11/08/2018 [N.d.E.]
[5] Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, II, 47. [N.d.E.]