“Cinque giorni fra trent’anni”: intervista a Francesco Fiorentino
a cura di Ornella Tajani
Da dove nasce l’idea di questo libro?
Forse dal ricordo struggente, nel momento in cui andavo in pensione, dell’Università della mia giovinezza, così diversa da quella che stavo lasciando. Non parlo delle condizioni di noi professori facili alla lagna. Penso a come la vivono oggi gli studenti. Con l’ansia di un domani lavorativo assai incerto, per loro l’università è spesso solo un passaggio che deve essere il più veloce e meno impegnativo possibile. Per noi era diverso: l’abitavamo, vi intessevamo rapporti, là dentro assumevamo impegni disciplinari, ideologici, oltre che politici, senza l’assillo del domani che ci aspettava. I personaggi del mio romanzo creano la loro identità nei seminari e nei collettivi. Là intessono anche una rete di amicizie e amori. La loro formazione e il loro futuro prescindono dalle famiglie. Elvira, l’unica che vi resta invischiata, è forse la più infelice.
Cinque giorni fra trent’anni è un romanzo composito: sei storie che funzionano anche in maniera autonoma si intrecciano in un quadro unitario. Come mai questa struttura?
Come i riquadri di una predella, il romanzo è diviso in sei capitoli. Nel primo e nel secondo compaiono tutti i personaggi come studenti o freschi laureati della Federico II. Negli altri quattro, dopo trent’anni circa, ognuno di loro sta vivendo un momento decisivo della propria vita, sta per ricevere una piccola rivelazione. L’unità del romanzo non è solo garantita dal ritorno dei personaggi nei vari capitoli e neppure soltanto dai giudizi sui medesimi avvenimenti e caratteri che si susseguono, è trasmessa soprattutto dall’impronta generazionale che li marca tutti.
Questa struttura per riquadri mi consente una grande velocità narrativa. Non ci sono descrizioni, digressioni e la loro assenza si è portata via gli imperfetti verbali. I riempitivi sono lasciati alla facile intuizione di chi legge. Il tempo del lettore è prezioso, cerco d’offrirgli solo l’essenziale.
Dopo Futilità, questo è il suo secondo romanzo scritto non a quattro mani: c’è un fil rouge tra questi due lavori, un progetto di scrittura che in qualche modo li unisce?
Il fil rouge credo che sia l’interrogazione sulle sorti della mia generazione che ormai è quasi arrivata alla vecchiaia. In Futilità mostravo un personaggio maschile alle prese con una crisi esistenziale a cinquant’anni, la sua incapacità a diventare adulto, la perdita di una consapevolezza di sé. Qui rappresento invece una molteplicità di personaggi, per lo più femminili, sempre costretti a dover fare i conti con “l’aspra indifferenza dell’età adulta”. Senza nessuna nostalgia per una presunta purezza degli ideali giovanili, vorrei mostrare come noi, nati negli anni Cinquanta, siamo stati capaci di adeguarci a un presente così diverso da quello che avevamo pensato; diventati spesso la nuova borghesia soprattutto professionale, abbiamo rivisto le nostre convinzioni ma non abbiamo smesso di cercare la felicità né di avere un’etica.
La presentazione dell’editore cita la Comédie humaine di Balzac: da studioso di letteratura francese, e di Balzac in particolare, direbbe che i suoi personaggi sono tipi balzachiani? Quanta importanza riveste nella sua scrittura l’analisi psicologica dei personaggi?
I personaggi balzachiani sono sospinti, oltre che dall’energia del loro creatore, dallo scacco della Rivoluzione fallita. Anche i mei personaggi sono il frutto di un molto più modesto fallimento storico (quello del ‘68). Inoltre, il ritorno dei personaggi è una invenzione balzachiana. Mentre però il narratore di Futilità interveniva a commentare, e a generalizzare in massime, comportamenti e psicologia dei personaggi, qui il narratore sta zitto. Se proprio vogliamo scomodare la storia letteraria, è piuttosto un narratore flaubertiano. Tocca al lettore trarre le conseguenze. Arturo sarebbe stato felice se solo avesse rischiato di più; cosa spinge Elvira a scelte così disgraziate; cosa capisce alla fine Emilia; quale delle quattro versioni del caso Gennari scegliere; perché la scelta di Saverio è quella giusta anche se non porta alla felicità; Lea deve o non deve andare all’appuntamento; è legittimo contraddire l’ultimo desiderio di Carla? Le risposte a questi interrogativi, in certi casi dilemmi, posti dalla narrazione sono demandate al lettore.
In questo libro i dialoghi rivestono una parte importante: quanto e come ha lavorato sulla loro verosimiglianza, sulla lingua adottata dai suoi personaggi?
Il modo di narrare che ho scelto si basa su scene e sommari. I dialoghi sono decisivi, sia per il ritmo (rapidità e pertinenza delle risposte), sia per la lingua. Non volendo ricorrere al dialetto, ho scelto spesso un italiano napoletanizzato con espressioni come “non è cosa”, o “che facevo veramente?”, soprattutto per quel poco che parla Roberta giovane, che non è studentessa. Roberta cinquantenne invece parla molto e bene. Questo personaggio, l’unico di origine proletaria, mi pare un po’ speciale. Spero che i lettori se ne innamoreranno come ne sono innamorato io. A suo modo, Roberta è una versione di femme fatale.
Ma oltre la lingua, la sfida per me è stata quella di rendere psicologie e caratteri femminili. Ad esempio, la gelosia di Lea mi pare diversa da quella che avrebbe avuto un uomo: è più inerme, si sente meno legittimata, più autodistruttiva. È commovente. Oppure le scelte di Elvira sarebbero impensabili da parte di un figlio maschio…In una delle presentazioni di Futilità, una signora, che pure aveva apprezzato il romanzo, commentò a proposito del personaggio di Ugo che gli uomini sono incapaci di affrontare a lungo la sofferenza. Non so se è vero, ma ho provato a capire come le donne l’affrontano.
È d’accordo con il professor Onofri, personaggio del suo romanzo, secondo cui «nella vita sono spesso gli altri a fissare il nostro destino»?
Certo… noi siamo molto gli incontri che ci sono capitati. Anche se il caso è comunque mitigato da qualche predisposizione personale che ci porta a privilegiarne alcuni. Bisognerebbe avere una vocazione per prescindere dagli incontri. Guido, il personaggio che ha più successo, distingue tra chi ha una vocazione – in quanto è subito chiamato da qualcosa – e chi invece inizia a fare qualcosa per scappare da una situazione o perché sedotto da un incontro. Questi ultimi possono essere anche bravissimi professionisti, solo i primi però sono dei fuoriclasse. Il professor Onofri è un fuoriclasse, né Arturo né Guido lo sono.