Les nouveaux réalistes: Mariana Branca
ʃ
di
Mariana Branca
Se pronunci bene Einstürzende Neubauten, vedrai che la lettera che si sente di più è la
ʃ.Strano, ma dillo: ˈaɪnˌʃtʏɐʦəndə ˈnɔʏˌbaʊtən. Quella ʃ, la senti, come spacca tutto, il
suono, la fonetica è tutta là dentro. Me l’ha spiegato Julia la Souverän, la
sovrana, come la chiamano tutti, perché lei domina, si staglia imperante e nelle
sue altezze lei sorvola, volteggia, svolazza. Julia la
Souverän che è di Vienna ma è nata a Kiev e cresciuta alta bella e
sinuosa a Magdeburgo. Che mi legge i titoli delle canzoni con la sua pronuncia buona:
Steh auf Berlin (Stare In Piedi Su Berlino),
Schmerzen Hören / Hören mit
Schmerzen (Il Dolore Ascolta/Ascolta con Dolore),
Sehnsucht (Bramosia),
Schieß Euch Ins Blut (Spàrati Nel Sangue),
Sado-Masodub (Dub Sado-Maso),
Spionagedub (Dub Spionaggio): su Kollaps;
Styropor (Polisterolo Espanso): su Die Zeichnungen Des Patienten O.T.;
Seele Brennt (Anima in Fiamme),
Sand (Sabbia), su Halber Mensch;
Schwindel (Vertigini), su Haus Der Lüge;
Stella Maris (Stella del Mare), su Ende Neu;
Sabrina (Sabrina),
Silence Is Sexy (Il Silenzio è Sexy) e
Sonnenbarke (Barca Solare), su Silence Is Sexy;
Susej (Susej), su Alles Wieder Offen.
S, ʃ dappertutto, in tutto il tempo e la durata.
Se i pesci scemi vanno a sciami da Pescia ad Altopascio e piove a scroscio, l’uscita va a
scatafascio, dicono in Toscana. Julia la Souverän era entusiasta, della Toscana. Im
siebten Himmel, al settimo cielo. Vedrai, ti piacerà, ti sentirai bene,
Sharon, la Toscana ti farà proprio bene. Sciameremo in Toscana,
Sharon, ce ne andremo su colli e colline e
studieremo il tedesco e impareremo tutti i testi delle canzoni piene di
ʃ degli Einstürzende Neubauten a memoria. Vedrai, Sharon, ti piacerà.
Sharon Stone era nata in marzo, il dieci, e in Toscana ci arrivammo che era il
sette, quell’anno che la primavera di marzo sfavillò dello sfavillio più
sfavillante degli ultimi decenni.
Sole e cieli blu e alberi verdi e mandorli in fiore e certi colori che sembrava di
stare in una cartolina ritoccata, e gli odori imprevedibili
spinti qua e là da un vento leggero leggerissimo che ci veniva voglia di
saltare e lasciarci cadere, per farci portare.
Sharon compiva, quel marzo, venticinque anni ed era bellissima, bella e
sfavillosa come il marzo millenovecento ottantatré. Aveva la postura del salto, del
sobbalzo, da cerbiatta pronta allo scatto e alla fuga, gli occhi come un incendio
sott’acqua, sotto il pelo dell’acqua di un fiume che scorre. Un’acqua
solfata, piena di zolfo. Lo zolfo che si indica con la lettera
S, e che per questo era in tutto e per tutto la lettera sua. Ne voleva bere, di quell’acqua
stantia, dall’odore di uovo marcio, salvifica acqua graveolente, imbevibile uovo di
stagno, uovo marcito, putrescente; ne voleva bere, di quell’acqua ingiallita
stannifera, trentasette gradi centigradi con o senza il sole a riscaldarla, là a
Saturnia, voleva berne perché, diceva, finalmente mi svuoterà dagli acidi gastrici,
sgombrandomi la pancia le ossa la statura. Era stato JR, che le aveva dilatato lo
stomaco a dismisura, ammalandola di gastrectasia, riversando dentro di lei i suoi
succhi perversi, la corrosione acida della sua anima ambigua e scura. JR che le aveva
spezzato il cuore così tante volte che quando ballava, Sharon, si
sentiva pezzi di cuore suonare il rumore di scaglie di vetri rotti come in una
scatola nel petto. JR era di Dallas, faceva l’attore ed era uno
stronzo come nessuno nella vita. Uno Stronzo con la S maiuscola. Era un
subdolo calcolatore, una macchina da guerra sotterranea, un’arma di distruzione
singola e di massa. Ed era bello, bello di quella bellezza intrigante e salace che
scemunisce, che non ti fa ragionare; era bello e ambiguo, doppio, triplo, sottile,
scaltro; era bello, bello e vago e fatto come un enigma e Sharon aveva voglia,
spietatamente voglia di decifrarlo, di trovare la chiave, scoprirla e tenerla poi solo per
sé, tutta per sé, tenerla da qualche parte sotto pelle, in mezzo ai vetri
spezzati di cuore nella scatoletta. Era bello come un segreto da svelare e non farlo
sapere a nessuno, ma lei sì, Sharon sì. Lei di, con, quel segreto chiuso a chiave
sotto pelle dentro alla scatola di pezzi di cuore, ci voleva stare, morire.
Si faceva chiamare per facilità soltanto JR, lui bellezza rara di
serpente, lui John Ross Ewing Junior che vestiva i vestiti eleganti, cuciti
su misura, di ricco petroliere senza scrupoli e star della televisione e delle
soap opera. Possedeva cose possedibili e molti cuori di femmine tra cui quello di
Sharon. L’aveva posseduto la prima volta che lei aveva
sedici anni e lui quarantatré, conquistandola con la pronuncia di Sharon in ebraico
שָׁרוֹן
Šārôn, che significa pianura o palude o una specie particolare di fiori, le rose di
Sharon che crescono nello stato d’Israele, precisamente ai limiti dello
stato di Israele. S’era sempre sentita paludosa, me lo diceva continuamente, che lei era
salmastra di palude, una golena, riempita di sedimenti argillosi e
siltosi, ed io una sabbia mobile. Che lei resisteva, che non si prosciugava, che
stagnava continuando a stagnare, forse perché piangeva, lei piangeva tanto, piangeva
sempre, piangeva le quantità di pianto che avrebbero saziato l’intero Sahara,
se avesse voluto; diceva che io, invece, ero una sabbia mobile, che tenevo al
sicuro dentro di me le cose vive e morte e le persone, e da queste succhiavo,
succhiavo e ingoiavo e tenevo e facevo uno
scrigno di quelli che avevo amato, e del rimanente. Arrivammo a
Saturnia, faceva caldo, i vapori sulfurei ci solforeggiarono in gola e
sotto le ascelle e cominciammo a sudare, Sharon non sapeva
smettere di pensare a lui, JR-uomo-serpente che le aveva insegnato il suono del
suo nome e se l’era preso per deturparlo alla radice. A Saturnia incontrammo
Silvia, che aveva l’occhio sinistro dove l’azzurro chiaro faceva a metà con lo
scuro, un marrone che sembrava delle nocciole all’ombra, messe a
seccare. Erano gialle tutt’e due, tutt’e due allungate, allunate, Silvia e
Sharon, alte lunghe e gialle come lo zolfo che s’infilava nelle narici,
sottili esseri in verticale come una linea un poco curva.
Sommavano per gioco gli anni delle loro sventure, sedici se lo
scomponi è uno e sei che, come quarantatré e venticinque, sommati danno
sette. Sette come gli anni sventurati e sventurosi che attendono chi rompe uno
specchio, sette come le vite dei gatti che sono gli animali preferiti delle
streghe e forse di satana, sette come il settimo giorno della settimana nello
stato di Israele e ai limiti dello stesso, il sabato che è il giorno del
sabba e cioè il giorno o meglio la notte scelta dalle streghe e satana stesso per
santificare tutto quello che non è sacro, ma reale, vivo e vegeto, il sangue ed il
sesso. Ce ne andavamo a scampagnare sui colli, e il sole ci squagliava l’epidermide, era
soporifero, ci faceva cadere addormentate sotto le querce grosse.
Scoprimmo dai giornali internazionali che Kristin era caduta da un balcone,
strafatta di droghe, che era stato Cliff a trovarla, morta, che JR era il principale
sospettato, ma, alla fine si diede la colpa solo alle droghe. Si era preparata, Kristin, uno
straripante cocktail finemente shakerato di benzodiazepine con emivita
superiore alle 48 ore, a lunga durata d’azione: Diaze-
sam, Nordaze-
sam, Praze-
sam, Fluraze-
sam, Quaze-
sam, Halaze-
sam, Medaze-
sam. Kristin Shephard s’era data alla morte per esagerazione. Con la stessa
sproporzionata esagerazione, infatti, aveva amato JR, tempo prima,
sproporzionando a tal misura che gli aveva anche sparato. Sharon e Sue
Shephard, moglie di JR, sapevano tutto, sapevano che Karen si era
sentita il polso, un giorno, e trovandoci dentro un battito imbizzarrito,
scalpitante, provò a sparargli, a JR, ma quello resistette, sopravvisse, non morì.
Sapevano, ma si erano entrambe mangiate la lingua, strappate via a morsi i vasi
sanguigni che affluiscono alle gengive, ingoiate i denti, sigillate le bocche a fuoco per
sempre. JR aveva il potere di annullare, disfare, sottomettere ogni volontà, quella di
Sharon di certo, come sciacquandole il cervello in una soluzione di sodio oxibato, il
sale sodico del GHB, sintetizzato per la prima volta nel 1874, liquido fortemente
salato, dall’odore pungente, che dà alla testa in pochi minuti, e per molte ore.
Secoli, ore come secoli, secoli di menzogne, di manomissioni della volontà, di
storpiature dei pensieri nella testa di Sharon, secoli i suoi venticinque anni,
secoli di ipnosi, di sortilegio, di caduta nell’anatema, nella disgrazia della
stregoneria. Indiscutibilmente sabbatico, JR, forse figlio diretto di
satana o di un demonio ermafrodita autofecondo, lui era l’uomo del
se. Il sé come se stesso, che era la sola esclusiva occupazione di JR, e il se come
se, avverbio, se seguissi i miei consigli, se facessi come dico io,
se mi dessi retta, Sharon, non te ne pentiresti, vedrai che non te ne pentirai.
Se ne era pentita eccome, invece, ritrovandosi a brandelli,
stonata di barbiturici nel bicchiere, stupidita di macchinazioni incomprensibili e
subdole, di sotterfugi indecifrabili. Se ne era pentita fino a tentare di farsi fuori, di
suicidarsi. Solo per aver seguito, ammaliata, imbambolata, il soave suono del
suo nome pronunciato in ebraico. Il giorno del suo ventitreesimo compleanno,
sette anni dopo aver incontrato JR, si era ubriacata fino a scoppiare d’alcol,
Sharon, rimpinzata, inondata, zeppa, satura, grondante alcol fin dalla punta dei
suoi capelli mielati e d’oro. Sciolse del tiobarbiturico, un barbiturico con una
sostituzione O-S, il tiopental sodico (venduto col nome commerciale di Pentothal
Sodium, che serviva per l’ipnosi, per l’anestesia generale e, negli
Stati Uniti, assieme al pancuronio e al cloruro di potassio, per
somministrare l’iniezione letale ai condannati a morte. E anche per i
sofferenti agonizzanti, per indurli in coma artificiale e finalmente, poi,
spegnere le macchine, staccare tutti i fili) in ventitré calici di bollicine che
si scontravano vorticando nel fondo dei suoi occhi, bollicine di un rosa
scintillante in risalita, che risalendo diventavano microscopiche, come nuclei
sub-atomici pieni di qualche verità. Allineò tutti i bicchieri trasparenti e sottilissimi
sul lungo tavolo da banchetto per i suoi invitati, e ne bevve a
scaglioni di tre o quattro alla volta, uno ad uno, fino alla fine. Sabler e non
Sabrer, disse: berli tutti tutto d’un fiato. C’era la S di Sharon dipinta in argento
su ognuno di essi, così che nessun altro si sarebbe azzardato a berne, a morirne.
Sharon conosceva il Tiopental sodico molto bene, lo aveva studiato tanto, nei
seminari di chimica al college. Lei che, già a sedici anni, voleva diventare una
scienziata delle molecole. Poi le cose presero un’altra piega e non
studiò più, non ebbe il tempo di scoprire tutte le molecole, il tempo la
scoprì troppo bella e non ci capì più niente perché la bellezza fa,
sa cambiare molte cose: essa infatti le aveva cambiato, distorto la sorte, le aveva
spostato l’asse. Si studiò, Sharon, dall’alba dei suoi
sedici anni, non più come la legge di atomi in divenire, ma come uno
stato di plasma, in cui nulla più si trasforma-nasce-muore-di nuovo si trasforma;
si pensò come cosa inanimata, che resta uguale a se stessa: una palude. Niente
sostava, restava fermo e inanimato, invece, a Saturnia, dove Julia la
Souverän fece esplodere il tempo in una potente successione di feste ed avvenimenti
sontuosi e balli magnifici e lussi sibaritici. Andammo a: vernissage d’arte, mostre di
scultura, mostre di fotografia, prime di cinema e teatro, concerti di musica classica,
sfilate di moda, esibizioni di body, maso, conceptual, sudoku, tribal, vodoo-artists
samoani, sudafricani, serbi, sloveni, slovacchi, spagnoli, svedesi, svizzeri, somali,
sudafricani; suites francesi e anche sit-in no tav, cortei, gay pride; balli popolari,
santi patroni; cocktail party, after-party, pre-summer party;
serate di beneficienza, degustazioni di vin santo artigianali; pali di Siena
straordinari, feste cultural-mondane in generale, feste con spogliarelliste o
spogliarellisti, feste in piscina, feste in costume storico o in maschera, aperitivi serali
su terrazzi di cinquecento metri quadri con vista panoramica sul pre-appennino,
sulle colline già verdi di un verde che si
scioglieva tutt’intorno, nell’aria anche, che faceva il mondo al
settanta per cento fatto non di acqua dolce o salmastra ma di clorofilla,
solo clorofilla. Julia la Souverän era implacabile, scovava ogni genere di
setta, associazione, gruppo, band, circolo, combriccola, società
segreta, cosca, congregazione, clan potenzialmente finanziatore delle
sue attività artistiche, era sfacciata ma docile, gentile, garbata, adorabile,
sensuale. Ballava con un sinusoidale movimento delle spalle e della testa, dei
suoi capelli sciolti come i lacci delle sue scarpe, quando le indossava, delle
sue anche strette, delle braccia e delle mani. Beveva come una vera donna
sovietica, o di origine in qualche modo sovietica, dell’est Europa scongelato
solo un mese all’anno. Rideva, parlava, parlava tanto e sorrideva,
sorrideva in russo, in tedesco, in francese, in inglese, in
spagnolo e anche un poco in italiano, parlava coll’ampio sorriso suo
senza malizia di bambina che propone un gioco a tutti, a ciascuno il
suo gioco. Giocammo per esempio a carte coi vecchi nel bar Roma,
scendendo verso sud dalla Toscana, in un paese che non era un paese sul
serio, ma un incrocio dove passavano persone, macchine, motorini, autobus,
scuolabus in continuazione. Giocammo a calcetto con dei ragazzi che avranno avuto
sedici anni, a Sharon piacque uno scheletrico Andrea cogli occhi selvaggi. Giocammo a
Shcatulillo, in un paese che lo chiamavano “Il Presepe”, perché così
sembrava, piccolo, abbarbicato, sormontato dalla superstrada che era quella che
stavamo percorrendo noi per arrivare al sud senza autostrada. Giocammo a
Shcatulillo correndo su e giù per il Presepe, nelle strade strette
senza illuminazione pubblica; ci dissetavamo con
sorsate di vino rosso direttamente dalla bottiglia, ricominciavamo a
scappare per cercare il nascondiglio giusto e non farci trovare. Sharon
stramazzò a terra dopo quattro ore di Shcatulillo e vino rosso: era alchemico,
stupefacente, il sorriso che le venne sulla faccia.
Si era fatta la fine di maggio. In Italia il due giugno si festeggia la Repubblica e
si fa ponte a scuola o al lavoro. Perciò i sette dello Shcatulillo, quando
seppero che andavamo verso sud ci dissero
se vi piace, ci troviamo in un posto. Julia la Souverän sorrise, non volle
saperne di più. C’era dell’alba specchiata sui circa quattro virgola nove metri della
Station Wagon Volvo 240 Deluxe giallo scuro cha avevamo comprato, per
settecento ottanta mila lire, qualche giorno prima, da un ragazzo carrozziere,
schivo con occhi verde-grigio nascosti sotto una visiera di cappellino.
Sotto circa quattro virgola nove metri di tetto del loro Volkswagen
sette posti, modello T4 multi van, di colore bianco con le tende a
strisce bianche e blu, trovammo i sette dello Shcatulillo, parcheggiati accanto alle
saracinesche mezze abbassate di un minimarket. Il paese era uno
sperduto paese come mille altri paesi sperduti tra le colline
senza alberi di quella regione seccata di sole, dove la gente pure, seccava di sole, di
sale di solitudine. A Brindisi di Montagna ci si ferma quasi solo a comprare salsicce
salami e soppressate fatte in casa, taralli salati col finocchio, fagioli di
Sarconi ecotipo Tabacchino, pasta modello strascinati, peperoni di Senise
secchi; li comprammo tutti, eravamo curiosi, che saranno, che
sapore avranno. Li mangiammo con le mani, sparpagliati tra i
Sassi che era il nome delle case di quella zona. Julia la Souverän
si mise a ballare sotto un balcone smangiucchiato che pareva
stesse per crollare, dal balcone suonavano gli Einstürzende Neubauten,
Salamandrina, quella di cui ci stava insegnando il testo in tedesco; Salamandrina
si cantava da sola, si suonava dal balcone sgretolato che stava per crollare ed è
sensazionale, se le cose inanimate si mettono a cantare. A volte, infatti,
sono più animati gli oggetti, i balconi, che certe persone, che a ogni passo continuano a
seppellirsi, a tumularsi sotto stratigrafie di detriti morti, senza acqua per risorgere. Uno
stagno stagna, una palude impaluda, Sharon stagnante e impaludata stava, il
suo corpo era in moto apparente, portata dagli eventi, dalle persone, dalle
situazioni. La portavo io per mano da anni, palude lei sabbia mobile io,
spugnosi esseri quasi animati che solo chiedevano di spugnare qualsiasi cosa
spugnabile. Julia la Souverän ballò sotto il balcone mangiato di sole di sale di
solitudine nella città dei Sassi; ballammo tutti della stessa
sinusoide di ballo di Julia, come una tenda sottile mossa da uno
stesso filo di vento. Poi ce ne andammo a stenderci sulla spiaggia sabbiosa delle
sei del mattino di Nova Siri dove tutte le piazze e le
strade hanno il nome dei film del regista italiano Federico Fellini. Addormentati,
stecchiti crollammo alla prima luce scialba in mezzo alla
Salsola-Erba-Cali che cresceva là intorno, una pianta che in autunno,
staccandosi dalle radici, il cespuglio forma una palla che se ne rotola via, disperdendo
semi e l’odore di sale. Palle d’erbe buone da mangiare che al paese di Sharon
si chiamavano tumbleweed, come quelle che si vedono nei film western, nelle
scene girate nei deserti o vicino ai saloon nei deserti o nelle sparatorie tra banditi e
sceriffi, fuori ai saloon nei deserti.
Sotto un sole che era un gigantesco ventilatore d’aria calda e secca e
seghettata di aghi di pini marini, che ci prosciugava, arrivammo al sud dove i
sette ci volevano portare. Arrivammo nella terra di Nicodemo
Spatari detto Nik, nato là alla Mammola, che, nel millenovecento
sessantanove, aveva aperto il parco di Santa Barbara. S’inventò uno spazio
straordinario, fuori dagli schemi del sud povero e senz’arte, uno
spazio-museo-laboratorio a cielo aperto, una bottega-officina, una
sartoria della materia e delle cromatiche, uno studio-fucina d’arte, arte, arte in
sostanza, arte senza sostanza, la sostanza dell’arte, la forma e la sembianza, lo
scheletro la struttura la superficie, le mani e le maniere.
Sette ettari di macchia mediterranea e dentro
scrosci di colore e materia a caduta libera, diluvi di immaginazione sublime e
sublimata, resa reale. Nicodemo sognò come aveva fatto Giacobbe, il
soppiantatore, quello della bibbia, che vide in sogno una scala che dalla terra
si protendeva sino in cielo, con angeli che salivano e
scendevano; dio gli parlava, promettendogli la terra sulla quale
stava dormendo ed un’immensa discendenza. Nell’abside di
Santa Barbara, Nicodemo dipinse un soffitto in tre dimensioni,
stereoscopico, lungo quattordici metri, largo sei, alto nove,
silhouettes di fogli di legno leggero, dipinte e sospese nell’aria. Snelli,
svelti, aerei bassorilievi volanti, che a guardarli perdevi il
senso dell’orientamento. Io provavo una cosa che mi
sapeva d’infanzia, di otto anni io e mio fratello quasi sei, di quando
scavalcavamo i davanzali e ce ne stavamo sdraiati sopra le tegole del tetto da cui
spiare i giardini intorno e osservare le macchine passare velocissime sulla
superstrada che, in quel punto di fronte al nostro tetto,
si faceva un ponte altissimo, centinaia di metri alto e curvo come una
serpe, grossa e piatta, che andava da un posto dove non c’era niente, là nel centro
sigillato della valle, verso qualche altro posto dove non c’era niente, ma noi non lo
sapevamo ancora. Strade-ponti come serpenti che strisciano e vanno, e pensi che i
serpenti sono una cosa buona, perché vanno, si muovono, esplorano, e non
sai, non puoi lontanamente sapere quanto, invece, certi serpenti possano ferire.
Sharon da una serpe del cuore del Texas scappava, scappava con me, Julia la
Souverän e la Volvo 240 Deluxe Station Wagon giallo scuro del millenovecento
settantanove, che noi la chiamavamo Mrs Yellowa, La Signora Gialla.
Sharon, lei scappava e noi lo sapevamo e le dicevamo che quella era una vacanza
sensazionale, invece. Un viaggio nel tempo per tornare al tempo che
sei bambino e hai otto anni e stai sdraiato sulle tegole dure di uno
spiovente di tetto che guarda la superstrada sospesa e curva come un
serpente grosso e piatto che striscia e non fa male e che strisciando solcando
sfregando, va da un nulla ad un altro nulla e ancora uno, e tu
sei piccolo e non ne vedi né la testa né la coda e allora pensi che crescendo,
sicuramente, vedrai tutto, invece. Dalla testa alla coda e da sopra a sotto, e da nord a
sud, anche, e viceversa. Sharon, le dicevamo, uno
stronzo col cappello da cowboy non può prosciugare una palude. Quante
S c’erano nel nome di JR, nella sua fonetica? Gei Aar: non una
sola. JR era un gargarismo sciabordante, una vescia petulante. Sharon però non
sentiva, non ascoltava più niente, si lasciava invece soffocare la giovinezza nel petto,
strozzare la libidine nel torace tenero, soffice. Per i suoi ventun anni, per festeggiare
Sharon ormai adulta e pronta ai giochini per soli adulti, JR le regalò la biancheria
sexy che s’annoda, s’ingarbuglia intorno alla gola, stringe, serra, toglie:
spezza il respiro nello sterno. Sharon aveva detto che era stato bello, che,
sì, le piaceva. Ma piangeva, col collo cerchiato dai solchi dei peccati della gola e del
sangue. Nemmeno nel nome della stilista di biancheria intima sexy per
soli adulti Brooke Chamber Jone Marone Forrester Logan, c’era una sola S,
se non quella tra il suo nome e la stanza, la Brooke’s Bedroom, dove
Sir Serpent JR aveva studiato, e scelto e sperimentato e a fondo, la biancheria
sexy e da giochini per soli adulti di Brooke Logan, con Brooke Logan. Degli
Stati uniti d’America, poi, non uno, nemmeno uno iniziava con la
S, notammo. Un’assenza totale di S nei posti e le persone doveva pur
significare qualcosa, di qualcosa l’assenza, dello stupore, dello
scheletro fibroso delle cose e del cuore forse la mancanza. Nei posti dove andavamo,
stavamo, invece, c’erano S a milioni, la S di sole di sale di salsedine di
siamo qui scritto sulla sabbia gigantesco per ridere.
Sharon voleva fare sempre dei bagni notturni, nell’acqua calda salatissima di
Saponara, un posto vicino Messina che che si chiamava così per la
Saponaria Officinalis che un tempo cresceva sulle pendici del territorio
saponarese, una pianta antica, spontanea, che faceva una schiuma a base detergente. Il
sapore dell’aria a Saponara ci faceva di bosco,
silvestri. Arrivammo via mare sull’isola col vulcano più attivo sulla
superficie terrestre, chiamato Struògnoli, o Iddu (Lui) o anche
Strummulu che in siciliano significa: trottola. Ci andammo perché era
semplice, arrivarci da Saponara, Volvo 240 Deluxe Station Wagon giallo
scuro a bordo, si avvicinavano le calende di luglio e la luna nuova, e
smaniavamo, volevamo, a tutti i costi e fin da bambine, vedere,
scoprire dove finiva il viaggio di Jules Verne: “nel cratere Yökull dello
Snæffels che l’ombra dello
Scartaris tocca alle calende di luglio,
scendi, viaggiatore, e raggiungerai il centro della terra. Ciò che feci. Arne
Saknussem”. Lo zolfo là sulle pendici era dappertutto, ed era grasso e
sciolto, liquido e ancora bollente, e giallo scuro ed era come respirare
stratosfere di pianeti sconosciuti.
Sharon sapeva, grazie a JR, che in Louisiana e nel Texas, sotto terra, sotto lo
strato di terreno superficiale formato quasi esclusivamente da
sabbie mobili, di zolfo ce n’era un sacco. E che lo si poteva cavare, scovare,
succhiare con il processo Frasch, che tramite acqua surriscaldata e iniettata nel
sottosuolo, riusciva a tirarne fuori grosse quantità. JR lo
smerciava alle aziende nel mondo per farne, col carbonio, il biossido di zolfo
SO₂, il quale, reagendo con l’acqua, diventa la pura pioggia di acido
solforico che cadendo, fa scempio di tutto quel che tocca.
Sharon lo zolfo lo usava spessissimo, dopo le ubriacature o le sostanze
stupefacenti legali e illegali, perché depura, e per lavare i suoi capelli gialli di un giallo
simile a quello dello zolfo, liquido.
Salendo, scalando Iddu, si riempì le tasche delle pietre gialle che trovava, e perciò più
saliva più era pesante come pure l’aria, la densità dell’aria e dello
spazio che era denso di una condensazione di gas diversi, anidridi
solforose in concentrazioni crescenti, vapori acquei rarefatti compressi spessi; il calore
soffocava come in una smisurata sauna senza soffitto. Polveri, polveri sottili sottili sotto gli
strati di vestiti che indossavamo, e nel naso e negli occhi, che saturavano,
scurivano, facevano tutto più buio. Un totale spaesamento,
straniamento, una decomposizione delle immagini in uno spazio stellare o di certi
sogni strani che non hanno inizio e né fine, quello accadde.
Sharon camminava, nebulizzata e quasi trasparente, a essa
stessa assente, camminava, cantilenante cantilenava
ʃɑ̃sɔ̃/ chanson : Quel jour
sommes-nous Nous sommes tous les jours Mon amie Nous
sommes toute la vie Mon amour Nous nous aimons et nous vivons Et nous ne
savons pas ce que c’est que la vie Et nous ne
savons pas ce que c’est que le jour Et nous ne
savons pas ce que c’est que l’amour, che vuol dire : che giorno
siamo siamo tutti i giorni amica mia
siamo tutta la vita amore mio amiamo e viviamo amiamo, viviamo e
siamo amati e non sappiamo cosa sia la vita e non sappiamo cosa sia il giorno e non
sappiamo cosa sia l’amore. Cantava che sembrava una sequela alla Madonna, una specie di rosario, querimonia a
Santa Madre dell’Eruzione, della Lava, la Cenere, i Lapilli, i Gas, le
Scorie. Julia, invece, lei era già diventata lunare, svolazzava, quasi si staccava dalla
superficie della crosta terrestre vulcanica, lasciandoci a guardarla sorvolare il cratere
solforoso e opaco, tracimato; sorvolare i muli della Ginostra, i fichi di San Vincenzo, la
Sciara del Fuoco e il mare, sbordato tutto il mare intorno. Espiravo,
soffiavo più profondamente, la salita mi affaticava meno di respirare,
sputavo aria che era polvere umida, pensavo alle superstrade e a Arne
Saknussem. Cantavo, in un tedesco sicuramente tutto
sbagliato, la canzone degli Einstürzende Neubauten che avevo imparato:
sogno
d’incontrarti nella profondità,
giù nel punto più profondo della Terra,
la Fossa delle Marianne, il fondo del mare,
fra il Nanga Parbat, il K2 e l’Everest,
il tetto del mondo, lì darò una festa per te,
lì dove più nulla mi sbarrerà la vista
quando verrai, ti vedrò arrivare già dal ciglio del mondo
non c’è nulla d’interessante qui, soltanto i resti di Atlantide
ma non c’è traccia di te, credo che non verrai più,
forse ci siamo persi di vista nel
sogno.
Sharon la guardavo smarrita perdersi tra quattro o cinque sassi,
seguire un filo immaginario che le attorcigliava le caviglie, Julia a bocca aperta
sbattere le braccia come ali bagnaticce. A Shcatulillo! disse.
Sharon con certi occhi di luna piena quand’è gialla
Solidago, un giallo che sembra terra senza erba, argillosa, secca secca,
senz’acqua da un tempo lunghissimo, così secca che sotto, appena sotto la
superficie, combustioni di ramoscelli, secchi anche loro, stanno
spopolando ogni più piccola forma di vita sotterranea; Sharon dagli occhi giallo
scuro, denso, cupo di luna appena sorta dietro un’ansa di montagna, prese un
sasso, giallo anch’esso, lo scagliò lontanissimo, rotolò. Stemmo a guardarlo,
sembrava che rotolando si stesse sciogliendo. Non si sarebbe fermato mai, il sasso,
scendendo le pendici, Iddu l’avrebbe bevuto, liquido, cocente, sciolto.
Saper immaginare la sete di un vulcano trottola, o la sete di Arne
Saknussem dentro di esso, non è cosa facile. Bisogna avere sete, saper immaginare la
sete, tutta la sete della terra, del suo centro che sobbolle, ribolle, dardeggia e
s’arroventa e non beve mai. Bisogna saper immaginare di morire per la sete che non
si placa non si spegne, saper sentire un vulcano trottola piagnucolare
sotto i piedi nel vapore scottante che ti squaglia, scioglie, il vapore della bocca, le
suole delle scarpe. Ci voltammo, la Souverän e io, per guardarla, per vedere
Sharon roteare, là dove stava un minuto prima, lanciando un sasso giallo, muovere una
sola articolazione col peso del suo corpo, con lo spropositato
sforzo che per lei era come lanciare un aliante. Ci voltammo, c’era
solo polvere, e fumo, fumo lungo largo alto, muri, muri di fumo e lo
scoppio come di bombe oltre di essi. Non vedevamo, non vedevamo
Sharon, non vedevamo niente. Sharon, dicemmo.
Sharon. Ma non rispose, la cerbiatta pronta allo scatto e alla fuga, al salto, al
sobbalzo; lei cogli occhi come un incendio sott’acqua,
sotto il pelo dell’acqua di un fiume che scorre. Un’acqua
solfata, piena di zolfo, calda ma fresca, appena nata, che Iddu
se ne sarebbe innamorato, bevendone. E Iddu ne avrebbe bevuto, oh
sì, l’avrebbe, bevuta, e tutta e lunga e come una curva, l’avrebbe
succhiata, sì, la palude che risorge, l’avrebbe, oh, eccome,
sì, e a sorsi grossi.
Salamandrina Salamandrina Salamandrina
nicht nixen, nymphen, sylphen, elfen, musen oder feen
non ondine, ninfe, silfi, elfi, muse oppure fate
für dich will ich die motten versteh’n die können nicht widersteh’n
per te voglio capire le falene alle quali non si può resistere
für dich bin ich ein phoenix nur, geschichte ist bekannt
per te io sono soltanto una fenice, la mia storia è ben nota
nur immer wieder, nimmer, nimmer nichts dazu gelernt
solo sempre, continuamente, mai, mai, più nulla da imparare
Salamandrina Salamandrina Salamandrina
zunächst leg’ich die hand ins feuer und zieh mich daran rein
per prima cosa immergo le zampe nel fuoco e mi ci trascino dentro
dann verzehren flammen sich und ich werd’eine davon sein
poi le fiamme si consumano ed io divengo parte di esse
Salamandrina Salamandrina Salamandrina
In Girum Imus Nocte Et Consumimur Igni
Andiamo In Giro Di Notte Ed Ecco Siamo Consumati Dal Fuoco
wir irren des nachts im kreis umher und werden vom feuer verzehrt
ce ne andiamo in giro di notte e il fuoco ci consuma
Salamandrina Salamandrina Salamandrina
du wirst niemals vom feuer verzehrt
tu non verrai mai consumata dal fuoco
Salamandrina Salamandrina Salamandrina
du wirst niemals vom feuer verzehrt
tu non verrai mai consumata dal fuoco.
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Veramente splendido. Grazie davvero.
Straordinario componimento !!! da meritare anche recita teatrale, con videoproiezione eventualmente!