Citazioni sulla natura instabile dell’informazione (Darnton, Cristianini, Vonnegut)
Di Andrea Inglese
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Sono sempre parecchio scettico non nei confronti di chi addita l’estrema gravità di situazioni presenti o a venire – il male umano e sociale è un pozzo senza fondo – ma riguardo a chi vanta le grandi virtù di epoche passate. La prevalenza di uno sguardo “discontinuista”, l’accelerazione effettiva degli eventi portati dai mutamenti tecnologici, e un rimodellamento “in rosa” del passato da parte della nostra immaginazione, fa sì che sia difficile accedere a una prospettiva sufficientemente obiettiva rispetto alla nostra condizione storica. Per questo, mai come oggi, mentre il futuro incombe su di noi in modo prepotente, con un volto che, a seconda dei giorni, o dei minuti, muta da minaccioso a salvifico, è sacrosanto ristabilire un minimo di “proporzioni storiche”, ossia fare l’esercizio di guardarci non solo dal futuro, ma anche da quello che sappiamo del nostro passato. Ci esorta a farlo Robert Darnton in un libro del 2009, The Case for Books. Past, Present, and Future. (In Italia è apparso nel 2011 per Adelphi, con il titolo Il futuro del libro). Darnton studioso di storia delle idee e del libro, specializzato nell’inquieto XVIII secolo francese, direttore della biblioteca universitaria di Harvard dal 2007 al 2016, fa parte di quegli studiosi reticenti a forzare la moltitudine disordinata dei fatti in schemi anelastici ma puliti. Anche se poi proprio i fatti sono così difficili, per uno storico, da stabilire. Ma questo è già un tema interno alla ricerca di Darnton. In ogni caso, m’interessa fissare l’attenzione su un preciso passaggio del suo libro del 2009.
“L’informazione non è mai stata stabile. Può sembrare una banalità, ma merita riflessione. Questo potrebbe fungere da correttivo alla credenza che l’accelerazione delle mutazioni tecnologiche ci ha proiettato in un’età nuova dove l’informazione sfugge a ogni controllo. Suggerirei piuttosto che le nuove tecniche di comunicazione dovrebbero costringerci a riconsiderare la nozione stessa d’informazione. Non bisogna comprenderla come se essa avesse la forma di fatti duri o di pepite di realtà pronti e essere estratti dai giornali, dagli archivi, e dalle biblioteche, ma piuttosto come messaggi rimaneggiati di continuo nel corso del processo di trasmissione. Noi abbiamo a che fare con testi molteplici e mutevoli, piuttosto che con documenti solidamente stabiliti. Studiandoli con sguardo scettico sugli schermi dei nostri computer, noi possiamo apprendere a leggere i giornali quotidiani nella maniera più efficace – e anche imparare ad amare i vecchi libri”.
Al di là dell’amore dei vecchi libri, possiamo trarre una lezione da Darnton. Sì, è indubitabile, la nostra società della comunicazione globalizzata (istantanea e diffusa) ha reso immensamente più accessibile l’informazione alle persone, ma non le ha strappato, né potrà mai farlo, il suo carattere di “costrutto sociale”, esposto alle più varie diffrazioni ideologiche, culturali, politiche. Solo un’assoluta ingenuità nei confronti di un accesso diretto e trasparente ai “fatti puri” e “oggettivi” – mito ampiamente decostruito dal pensiero novecentesco –, può a un tratto trasformarci in disgustati e offesi sostenitori della falsificazione totale, a cui l’era di internet ci avrebbe sottoposto. Siamo costretti ad essere ancora una volta “post-moderni”, anche perché – come ci ha ricordato Bruno Latour – non siamo mai stati moderni. Ma il nostro post-moderno non è quello di una “società trasparente” – per riprendere il titolo di un celebre libro del 1989 di Gianni Vattimo. Si è in qualche modo creduto che la velocità dell’informazione costituisse un fattore di traslucidità: più un’informazione scorre velocemente nel suo canale, meno “tempo” sarà concesso ai fattori di diffrazione, mediazione e intorbidamento, per intervenire su di essa. Ma così non è. Questa è anche la lezione che ci viene oggi dal funzionamento degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale: il dato, che entra in un processo di “pulita” automazione, è già stato ampiamente “costruito socialmente,” e quindi inevitabilmente intorbidato dalle ideologie. Questo processo d’intorbidamento del “fatto” o del “dato”, è ciò che rende l’informazione instabile – sia nella sua circolazione sia nel suo calcolo. Nell’ambito dell’intelligenza artificiale si parla di bias, di un vizio a monte del funzionamento di un algoritmo, che riproduce un pregiudizio – ossia non un fatto statistico, ma una proiezione ideologica sui fatti.
Per costituire un parallelo tra l’instabilità dell’informazione, intesa come notizia, e di quella intesa come dato, faccio riferimento a un passaggio di La scorciatoia (il Mulino, 2023) di Nello Cristianini, professore d’Intelligenza Artificiale all’Università di Bath (Regno Unito).
“Il 23 maggio 2016 il giornale investigativo ‘ProPublica’ descrisse un sotware usato in alcuni tribunali americani per stimare la probabilità che un imputato diventi un recidivo. Il sotfware si chiama COMPAS (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions) ed è usato in diversi Stati, inclusi New York, Winsconsin, California e Florida, per assistere alcune decisioni giudiziarie. Ricevere un punteggio alto può avere conseguenze pratiche per la libertà di un imputato, per esempio influenzando la sua possibilità di essere rilasciato ‘sulla parola’ in attesa di processo. L’articolo affermava che quei punteggi avevano un bias contro imputati afroamericani, dopo aver comparato i tassi di ‘falsi positivi’ e ‘falsi negativi’ in diversi gruppi etnici. La sua conclusione era: ‘gli imputati neri hanno probabilità quasi due volte superiore a quelli bianchi di essere etichettati ad alto rischio senza poi rioffendere in realtà’ e ‘quelli bianchi […] hanno una probabilità più alta di quelli neri di essere classificati a basso rischio e poi di commettere altri crimini’.”
Un acuto esperto (e dileggiatore) di intelligenza umana, ossia Kurt Vonnegut, tra i massimi scrittori satirici statunitensi dello scorso secolo, aveva già nel 1990 capito l’inghippo. Nel suo romanzo Hocus pocus, immagina un gioco elettronico – GRIOT – costantemente aggiornato “con notizie d’attualità riguardanti idraulici, podologhi, falegnami, riguardanti i profughi vietnamiti e gli immigrati clandestini messicani, gli spacciatori di droga, i paraplegici, insomma riguardanti ogni sorta di gente pensabile e immaginabile entro i confini di Stati Uniti e Canada”. Il giocatore deve fornire a GRIOT tutta una serie di dati sulla sua età, mestiere, città di provenienza, razza, famiglia d’origine, ecc., e l’oracolo elettronico gli restituisce una biografia completa, ossia la storia della sua vita così come potrebbe andare a finire. Se un giocatore riprova più volte, ottiene delle biografie diverse, ma globalmente sottoposte a uno stesso impietoso determinismo. Quando i detenuti – in maggioranza neri – del carcere dove lavora il protagonista, scoprono l’esistenza di GRIOT, si precipitano a presentargli tutti i dati che li riguardano, e ripetono la stessa azione svariate volte alla ricerca di un biografia minimamente decente. “A uno a uno gli fornirono i dati relativi alla loro razza e età, ai loro genitori, se li conoscevano, alle scuole frequentate e alle droghe prese e così via, e GRIOT li mandò tutti in galera, a scontare lunghe condanne”.
Anche il funzionamento di GRIOT era probabilmente viziato da qualche bias.
All’epoca del suo apprendistato di giornalista, il giovane Darnton lavorava al quartiere generale della polizia di Newark (1959). Non c’erano testate in rete, non c’era la rete, non c’era l’IA a orientare gli utilizzatori di piattaforme digitali. Darnton doveva reperire, tra i resoconti in continuo arrivo alla centrale, quelle notizie suscettibili d’interessare i redattori di cronaca esperti, i quali avrebbero poi trasformato il rapporto giunto alla centrale di polizia in trafiletto “gustoso” per il quotidiano del giorno seguente. E, ovviamente, anche Darnton apprese presto che interessa più l’uomo che morde un cane, piuttosto che il solito cane che morde un uomo. Un giorno gli capita sotto gli occhi un fatto ben raro: uno stupro seguito da omicidio. Si prepara quindi a trasmetterla ai redattori di nera, quando il luogotenente di polizia gli indica disgustato una B posta tra parentesi dopo il nome della vittima e del sospettato. Così conclude l’episodio Darnton: “Solo allora mi sono reso conto che tutti i nomi erano seguiti da una B per Black, o da una W per White. Ignoravo che i crimini riguardanti i Neri non avessero valore d’informazione”.
Ricordare che oggi, come per le gazzette del XVIII secolo, l’informazione ha una natura instabile, di “costrutto sociale”, non significa sostenere che l’informazione è finzione, ma che è parte di un processo continuo di negoziazione-interpretazione-elaborazione, in cui è coinvolta la società nel suo insieme, con tutte le tensioni e i conflitti che l’attraversano. E nonostante l’informazione circoli a grandissima velocità e attraverso passaggi automatizzati – che non implicano l’intervento umano –, essa non per questo si rende più trasparente e univoca. L’Achille della tecnologia è sempre più veloce per acchiappare il “fatto puro”, ma la tartaruga della mediazione sociale l’ha già da sempre inevitabilmente alterato. E questo non è un fatto nuovo.
Hai centrato uno dei problemi chiave: giusto qualche giorno fa mi è capitato di leggere una pagina de La società in rete di Castells, scritto alla metà degli anni novanta, in cui il sociologo riteneva che l’avvento della rete avrebbe prodotto quel villaggio globale effettivamente democratico, che McLuhan aveva sognato. Secondo Castells, il limite di McLuhan era quello di avere attribuito alla televisione, ossia un media unidirezionale con una comunicazione centro periferia, quello che avrebbe realizzato la rete in quanto interattiva. Ora credo che il mondo in cui viviamo certifichi da solo l’illusorietà di una simile impostazione, che nasceva dal considerare appunto l’informazione come elemento oggettivo estraneo a qualsiasi forma di costrutto sociale.
Bravissimo Andrea, sempre così chiaro e lungimirante sui cambiamenti epocali .
Grazie