“Vide sanitaire” di François Durif: un estratto in traduzione
Vide sanitaire è il primo romanzo di François Durif, uscito nel 2021 per le Éditions Verticales e attualmente inedito in italiano. L’autore è stato residente a Villa Medici da settembre 2022 ad agosto 2023. L’estratto che segue viene pubblicato in traduzione su Nazione Indiana con il sostegno dell’Institut Français Italia.
di François Durif
traduzione di Ornella Tajani
È per evitare di prendere il posto del morto che ti sei messo a fare il beccamorto? Per capire di cosa si trattava? Negli anni in cui lavoravi alle pompe funebri un dispositivo di sicurezza ti impediva di identificarti col morto – fino al giorno in cui… nel crematorio della Salle de la Coupole, durante una delle ultime cerimonie che hai preparato, alla fine è successo, ti sei identificato col tizio che stava nella cassa: aveva la tua età, due sorelle maggiori e un fratello, una famiglia molto simile alla tua, stesso ambiente sociale; era gay, esercitava una professione artistica e tutti i dettagli biografici che i suoi cari ti avevano raccontato avevano qualcosa a che fare con te.
Si era suicidato a casa, il corpo era stato trasportato all’istituto medico-legale. Il fratello era venuto all’Altra riva[1] insieme alla compagna; sembrava che lei volesse risparmiargli ogni sofferenza, assumendosi l’incarico di organizzare le esequie e instaurando con me un rapporto privilegiato. Erano attratti dalla mia personalità e io non avevo saputo proteggermi. Nel momento del rito ero come pietrificato, a pochi metri c’erano la sagoma ricurva del padre, lo sguardo fisso della madre, le sorelle e il fratello che si sforzavano di reggere il colpo; vedevo soltanto la loro solitudine, il dolore impossibile da condividere. Non pensavano che il gesto del secondogenito fosse rivolto a loro, non cercavano di interpretarlo. D’ora innanzi avrebbero dovuto conviverci – cosa che apriva una breccia difficile da richiudere. Quando li ho visti passare uno dopo l’altro accanto alla bara le gambe hanno preso a tremarmi. Non ero più al mio posto, ero io, il morto.
A quel punto la decisione di lasciare L’altra riva era già stata presa. Forse per questo avevi abbassato la guardia, permettendo che la sorte di quel fratello minore ti toccasse così tanto? Era giunta l’ora di riporre l’abito da becchino nel guardaroba. Magari il turbamento che sentivi era eccessivo, ma capita di diventare la caricatura di sé stessi. A volte la tentazione di giocare con le proprie paure è grande; ci tendiamo delle trappole da soli, invasi come siamo da immagini congelate e frasi fatte. Avevi scavato e ormai non c’era più niente da imparare, niente da aspettare – il vincolo di parentela si stava già allontanando, il vuoto era altrove.
Tra i vari foglietti che ho conservato degli anni alle pompe funebri ci sono alcuni appunti datati 16 ottobre 2006. Brandelli di frasi scritte velocemente con la penna a sfera. Ricordo bene il volto della donna che mi ha affidato questi pensieri colti al volo. I suoi occhi azzurri, pallidissimi. Le mani nodose. L’intensità del nostro primo incontro. Un sabato, nel primo pomeriggio, ero da solo in agenzia. Appena è entrata sono stato rapito dal suo sguardo. Voleva vedere Raphaël. Le propongo di sedersi, offrirle un caffè. Così mi racconta la sua storia. A distanza di dieci giorni aveva perso la figlia e il compagno – che non era il padre, mi specifica. Lei era annientata dal dolore per il suicidio della figlia e lui l’aveva sostenuta in tutti i modi; durante gli anni di convivenza l’aveva sempre circondata di un affetto ardente. Qualche giorno dopo le esequie era morto all’improvviso – di infarto – per strada.
Da quel momento in poi aveva dovuto attraversare i lutti, scavare dentro di sé, inventarsi ritualità che la sostenessero nella riconquista di pezzi di vita: camminare intere giornate per Parigi, immergersi nel flusso della città, trovarvi riserve d’energia; e poi, ogni anno, nei primi giorni dell’estate, tornare nel posto in cui erano state disperse le ceneri del compagno, in mare aperto, e fare il bagno lì.
Ho scritto ciò che mi ha confidato subito dopo che se n’è andata. Ogni volta che veniva a trovarmi le prestavo il libro che stavo leggendo. Dopo qualche settimana me lo restituiva in una busta di plastica. Mi diceva che leggevo cose troppo complicate. Eccole qui, le sue parole:
sembra di vivere a metà
mi sento sola
sono i miei morti
poiché ho fede, ho la speranza di rivederli
mi sento più vicina alle donne che sono sole
mi ritrovo debilitata
bisogna sopportare
fare tutto da sola
stavamo fuori notte e giorno
un vuoto enorme, ora
un tale silenzio, ora
lui c’è sempre, certo
non è bello essere vedova, non è bello
non riesco a piangere
il cervello è invaso
non c’era niente da fare
ci vuole tempo
è davvero un vuoto
accendo il camino
all’inizio lo vedevo ogni momento
nel letto restavo al mio posto
di solito gli uomini se ne vanno prima delle donne
avevo amici intorno a me
non posso stare un giorno senza lavorare
nessuno con cui parlare
la mancanza è comunque la presenza
dormo sempre dallo stesso lato
la sua barca si chiamava «mi piace»
siamo costretti a vivere
nella vita ci vuole sentimento
ti esplode in faccia
da quando mio marito è morto lo cerco ovunque
la casa è abitata
c’è qualcosa di lui che resta
il letto è freddo, il letto è freddissimo
ho sempre saputo che mi amava, ma
spesso ho pensato che mi amasse male
l’altro è sempre altro
(ciò che manca)
credo che i morti siano vivi
mi sento amputata, amputata di lui
ci sono parole che cominciano a far male
faccio coppia con un morto
l’uomo che amo è morto
ho sepolto le sue spoglie ma non il mio amore
conservava tutto ma ha scritto
è un’assenza in più
ho dovuto camminare, ho dovuto reggere
non contavo i giorni
oggi mi capita di dormire dal suo lato
_
[1] Come chiarito sin dall’inizio del romanzo, è il nome dell’agenzia di pompe funebri per la quale ha lavorato il narratore.