Festival della nuova città
di Gianni Biondillo
(dal 21 al 23 settembre si terrà la seconda edizione del Festival della Nuova Città, fortemente voluto dalla Fondazione Giovanni Michelucci. Mi piace qui ricordare la figura di quel geniale architetto. Raccontando come, da studentello, lo incontrai. G.B.)
Era l’aprile del 1990, ero uno studentello del Politecnico di Milano che si trovava a Firenze per l’inaugurazione del giardino dell’orto botanico progettato da Marco Dezzi Bardeschi, mio relatore di tesi che ebbe, a suo tempo, Giovanni Michelucci come suo professore alla facoltà di ingegneria a Bologna; fu proprio Dezzi Bardeschi, all’ultimo momento, ad invitare Michelucci a partecipare all’inaugurazione. Accettò di buon grado: era fatta! Bastava solo che qualcuno andasse a Fiesole a prenderlo.
A disposizione c’era uno di quei grossi macchinoni blu con autista (credo fosse del sindaco); Dezzi mi incaricò di salire da Michelucci; con cartina alla mano mi indicò la strada: “Sali per questa strada, appena trovi sulla destra un muro etrusco fermati: quella è casa sua”. Vi lascio immaginare l’ansia da prestazione: e se non avessi riconosciuto il muro etrusco, che figura ci facevo?
Trovai il muro etrusco (menomale!) ed entrai in casa. Nell’ingresso, accanto a una copia della pietà Rondanini, Michelucci, sorridente, asciutto, quasi rinsecchito, si stava aggiustando le scarpe. Io ero emozionato come un idiota. Avevo di fronte un punto di riferimento fondamentale per l’intera mia ricerca culturale – un pezzo di storia, anzi – avevo di fronte come l’intera storia dell’architettura, lui era in quel muro etrusco, in quella copia michelangiolesca; aveva quasi cento anni, mi guardava con la dolcezza di chi poteva guardare lontano oltre il tempo umano; col suo aspetto nodoso sembrava avesse realizzato su sé il progetto di un suo disegno del 1962, Uomo, albero, pilastro: era un grande vecchio, come un grosso antico ramo ancora fruttuoso, era l’architettura.
Sulla strada del ritorno chiacchierammo un po’. Ad un certo punto accennai al debito che Dezzi Bardeschi avesse nei confronti di un maestro come lui: “Nessun debito”, mi riprese, “le doti dei miei allievi non hanno bisogno di me per esprimersi”. Giunti a destinazione Michelucci non fu avaro di sé: salutò, si fece intervistare dalla televisione, strinse mani, abbracciò, sorrise a tutta la gente che gli stava attorno, assistette all’inaugurazione paziente, e finito il tutto venne riaccompagnato a casa.
Ripensai alle cose dette in macchina. Michelucci aveva torto, o di certo io mi ero spiegato male. Non era questo o quell’allievo ad avere un debito con lui, il debito l’avevamo (e l’abbiamo ancora oggi) tutti. Vecchie e nuove generazioni di architetti, uomini, cittadini, che si sono imbattuti con le sue idee, i suoi disegni, le sue incredibili ma vere architetture.
Credo si debba continuamente fare i conti con tutta l’intera sua opera, un’opera spesso dimenticata, banalizzata, riassunta in una stazione (opera maestra, riconosciuta anche da Wright) nella quale lui stesso spesso non si riconosceva, o per i più informati, in una chiesa (una tenda in pietra ai bordi dell’autostrada). Due capolavori basterebbero per entrare nella Storia. Ma Michelucci ci ha dato molto di più. Non solo decine di opere visionarie, ma anche il suo sguardo solidale, fraterno, nei confronti degli ultimi: i malati, i carcerati, gli esclusi. E una Fondazione che porta avanti nel suo nome il progetto di una nuova città. Quella che dobbiamo ancora imparare ad abitare.