Tempo intermedio
di Gianni Biondillo
Uno dei miei tanti progetti mai realizzati (ne immagino uno alla settimana, ne realizzo uno all’anno) è quello di una “storia sentimentale della fotografia del paesaggio italiano”. A partire dalla mostra sull’architettura rurale di Giuseppe Pagano, alla VI Triennale del 1936, gli architetti hanno iniziato a fotografare l’architettura e il paesaggio con occhi più consapevoli. Fotografia non solo come appunto di un progettista in funzione di un eventuale cantiere, ma fotografia come un progetto in sé. I fotografi professionisti, chiaro, già lo sapevano. Ma la sovrabbondante produzione di qualità generata dalla generazione degli architetti razionalisti ha rimesso in gioco lo sguardo degli stessi “fotografi puri”, che fino a quegli anni cercavano il paesaggio incontaminato, o, nel caso dei centri urbani, documentavano il monumento in sé.
Uno dei tanti capitoli – il più nuovo, non di certo l’ultimo – di questa attenzione al paesaggio disegnato dalla modernità ce lo regala Manuel Cicchetti, “fotografo puro” e attento lettore del paesaggio, in un defatigante lavoro durato quattro anni in giro per lo Stivale, Tempo intermedio, pubblicato da Postcart (in un volume dalla resa notevole) e in mostra già da qualche mese in varie gallerie nazionali. Non conoscevo Cicchetti prima di questo libro, ho poi approfondito il suo lavoro, apprezzandone il pensiero e la costanza (mai una fotografia rubata, mai uno scatto occasionale, una progettazione del processo ideativo che può durare anni, anche lustri). Guardare le sue fotografie mi ha aperto a un ricordo sepolto nel tempo. A una lettura fatta davvero molti anni fa, anzi decenni: La nube purpurea di M.P. Shiel.
Qualcuno lo considera il primo romanzo apocalittico della letteratura. Non ho la minima idea se sia vero o meno, so che mi colpì molto quando lo lessi. Tra l’altro, detto per inciso, lo stesso autore del romanzo era un personaggio non da poco. Basti dire che a quindici anni fu incoronato da un pastore metodista sovrano dell’isola di Redonda, nei Caraibi. Uno scoglio di neppure tre chilometri quadrati perfettamente disabitato, ancor’oggi. E credo che questa cosa in fondo sia rimasta nel cervello del giovane Re Felipe I (questo il suo appellativo all’incoronazione). Insomma, essere sovrano di un regno disabitato, il Re di un regno vuoto, che significa? Ma mi sto già perdendo (ricordate? Voglio scrivere una “Storia sentimentale della fotografia” mica una cosa da studiosi!). Dicevo: La nube purpurea è la storia di Adam Jeffson, uno scienziato che completamente isolato durante una missione al Polo Nord, non sa che nel resto del mondo una enorme nuvola venefica ha estinto l’intera umanità. Adam torna fortunosamente in Inghilterra, gira per Londra e la trova completamente disabitata.
Pensavo appunto a M.P. Shiel guardando le immagini di Manuel Cicchetti. Pensavo che quell’esperienza di puro straniamento, da romanzo apocalittico, l’abbiamo vissuta più o meno tutti, durante il primo lockdown. Mia madre, proprio in quei giorni, venne ricoverata per una fortuita caduta casalinga. Viveva ostinatamente da sola nella casa dove ero cresciuto (ora non è più così). Saputo del ricovero sono uscito di casa, non ostante il divieto, per raggiungerla al pronto soccorso. Da via Padova al Fatebenefratelli a piedi. Piazzale Loreto, la rotonda più trafficata d’Italia, era spettrale. Sentivo persino il cinguettio dei passerotti. E così via Andrea Doria, piazza Caiazzo, La Stazione Centrale. Mi girava la testa. Mi venne l’improvviso istinto di Adam Jeffson, che dopo settimane di solitudine, preso da un raptus superomistico, decise di incendiare Londra. E poi di muoversi per il mondo intero per devastarlo, abbatterlo, bruciarlo, annichilirlo. A che servono le case, che senso hanno le città, se nessuno le abita?
C’è una mania dei fotografi di architetture. Si racconta che Gabriele Basilico si alzasse all’alba per riuscire a fotografare senza il traffico, i tram, le persone. Per riuscire a fare il suo lavoro senza distrazioni. Non era sono una questione di luce, era che la gente disturba l’inquadratura, le automobili la volgarizzano, le capigliature, gli abiti, la datano irrimediabilmente. Ma il progetto di Cicchetti è molto più preciso. Ossessivo, come La nube purpurea. Cicchetti ci mostra quanto sia farraginoso, invasivo, astratto il nostro paesaggio quotidiano. Antropizzato in ogni metro quadrato che ci tocca attraversare, eppure irreale, illogico, incomprensibile se non abitato, se non vissuto.
I geografi, gli economisti e gli architetti parlano da decenni di “paesaggi dell’abbandono”. Sono quelli prodotti da un Novecento pervasivo che ha costruito ovunque, senza posa, fabbriche, opifici, ferrovie, industrie, autostrade, centrali idroelettriche, cavalcavia, aree produttive, capannoni. E poi, quando tutte queste cose non servivano più, li ha abbandonati, come cose morte, inutili, dando loro le spalle, quasi non esistessero. Non guardarli significava in qualche modo farli smettere di esistere.
Ma la verità è che continuano ad esserci, a ferire il nostro paesaggio, a chiederci una risposta. La loro demolizione è assolutamente antieconomica e antiecologica. Che ce ne facciamo, allora? Ché la cosa dura da digerire è ammettere che quelli deperibili, mutevoli, fragili, quelli che potrebbero sparire da un giorno all’altro grazie a una nube purpurea pronta ad avvelenarci tutti – magari prodotta proprio da noi stessi – quelli che dal paesaggio è più semplice che scompaiano, siamo proprio noi.
Guardo le foto di Cicchetti e penso allo sguardo di un alieno che giunto sulla terra disabitata cerca di ricostruire la nostra vita quotidiana usando ciò che gli abbiamo lasciato. Un archeologo intergalattico, affascinato dai nostri centri commerciali, i silos, i parcheggi, le gru, i container. Questo gli stiamo lasciando. Questo siamo noi, spiaccia o meno dirlo.
(pubblicato precedentemente su L’Ordine, il 16-04-2023. Tutte le fotografie sono, ovviamente, di Manuel Cicchetti)