Monnezza
di Monica Pace
I mezzi più moderni agganciano in automatico, ma qui in periferia non sono ancora arrivati. Così ogni volta scendo, attacco il cassonetto al sollevatore e aziono il telecomando, quindi lo guardo ribaltarsi in cima al camion senza vedere cosa contiene, poi risalgo tenendomi attaccata fuori, coi guanti che meno male che ce li ho. Nemmeno la differenziata – quella vera – s’è ancora vista nella mia zona. Prima raccoglievo anche i sacchetti che erano caduti fuori o che non c’entravano nel cassonetto finché il Rosso una volta mi ha detto: – La devi piantà di raccattare i sacchetti, basta! Perdiamo troppo tempo e non ci compete. Poi passa il camioncino, pare che non lo sai! – Io sono alta un metro e sessanta e il Rosso farà uno e novanta, e pure gli altri colleghi mi stavano addosso, s’era diffusa ‘sta voce che raccoglievo i sacchetti. E ci mancherebbe altro, ho smesso.
E così i vicini e la gente hanno cominciato a lamentarsi, perché il camioncino non passa quasi mai. Li sento in giro per il quartiere, perché la mia zona di lavoro è la stessa dove vivo. Raccogliamo anche davanti a casa mia, ma al Rosso non l’ho mai detto dove abito. Di solito iniziamo qualche strada più giù, dal vialone con gli alberi nel mezzo. All’alba ci stanno ancora le ultime puttane che battono, o che fanno colazione. Al loro bar non ci vado mai – anche se il Rosso insiste – ci sono troppe luci, e secondo me pure le stanze al piano di sopra. Prima c’è stato un momento che andavano le bionde, quelle dell’est che sembravano tutte bambine, adesso è un po’ che hanno solo i capelli neri, corvini; certe fanno perfino un po’ paura e di sicuro non sembrano bambine, invece alcune secondo me lo sono. La strada è sempre piena di ‘ste povere disgraziate quasi nude, con dei trampoli esagerati. Però loro un po’ ci schifano, io credo sia a causa della puzza del camion, avranno paura di rovinarsi gli affari. Sul marciapiede ci arrivano al tramonto, magari due per macchina. Le fanno scendere e le lasciano lì a fermare gli uomini. Poi le aspettano al bar; ci stanno sempre delle auto bellissime davanti al bar delle puttane.
Io la macchina non ce l’ho e per andare e tornare dal deposito del camion prendo l’autobus, quello che arriva fino alla metro. In inverno il pomeriggio, quando torno dopo il turno, ci salgono i ragazzini delle medie che escono dal doposcuola, e si mettono a scommettere se quella o quell’altra portano le mutande oppure no.
– Aho! e su quella non vale che scommetti! Je se vede er culo! – E giù, ridono, tutti rossi in viso che gli vorrei dare due pizze in faccia. Invece guardo fuori e faccio finta di non sentirli. Penso a quello che devo fare una volta a casa.
La mia casa è uno specchio, anche se sto in affitto; mi sono comprata il robottino che pulisce quando non ci sono, ci stavano gli sconti un mese fa. Anche io cerco di ripulirmi quando rientro: mi spoglio in ingresso, poi doccia e vestiti da casa, prima di entrare in cucina. Così la sera non esco quasi mai, un po’ è che sono troppo stanca e un po’ è che mi chiedo che esco a fare? I cinema nel quartiere non ci sono più e se vado verso il vialone c’è il rischio che mi scambiano per una di quelle. Allora guardo dalla finestra della cucina, verso la strada: sull’unico pino rimasto e che c’ho davanti casa adesso è pieno di pappagalli verdi che di giorno fanno degli strepiti proprio da documentario di quelli sulla natura, ma la sera si nascondono e stanno zitti sperando di non attirare qualche gabbiano, o i ratti che si arrampicano dappertutto.
La mattina dopo l’autobus è ancora mezzo vuoto quando salgo io, un po’ perché è una delle prime corse, un po’ perché si riempie via via dei lavoratori diretti alla metro. Prima di imboccare il vialone fa una discesina appartata, tra gli archi dell’acquedotto romano, e là di solito ci sta Desirèe. La conosco perché abita al portone accanto al mio. C’ha uno stacco di coscia che mi fa invidia, due gambe che sembra una modella e sarà alta un metro e ottanta. Ha la pelle liscia di un nero diluito dagli amori mischiati della sua terra d’origine. Quando esce di giorno e si siede nel baretto accanto ai nostri portoni, i vecchi lo fissano appoggiando il mento sulle mani e queste sui bastoni tra le gambe larghe con i pantaloni tesi sull’inguine e gli occhi accesi e piccoli che l’accusano di esistere, cercando un pretesto. Lei sa come non provocarli, ma se ne va in giro fiera per il quartiere, i braccialetti d’argento tintinnanti, e il pomo d’Adamo liscio. Porta i capelli lunghi ma non troppo, le labbra gonfie e rosse, quel giusto tocco di femminilità che ci vuole per lavorare meglio. Ogni tanto la guardo da lontano mentre rientra dal discount; parla al cellulare con quelle sue frasi rotonde e strascicate, e sembra felice. Quando lavora sta un po’ più vestita delle femmine vere, e ha un trucco fantastico! Dal bus la intravedo, anche se la stradina c’ha un paio di lampioni sempre bui, perché i clienti vogliono la loro privacy. Anche sul vialone in effetti ce ne sono più spenti che accesi, ma sulla discesa è più buio. Desirée si mette all’angolo tra le due strade perché deve pur attirare anche lei, ma secondo me quelle come lui sulla strada principale non ce li vogliono. Ognuno ha la sua zona.
Sto appoggiata alla finestra della cucina, la luce spenta, i pappagalli dormono. Mentre aspetto l’alba per uscire e andare al lavoro respiro il profumo amaro tirandolo su dalla tazza del caffè. Qualche sera fa dopo aver staccato sono passata con l’autobus un po’ più tardi del solito, che c’avevo da andare in ospedale a trovare una collega che si è beccata una brutta epatite. Desirée stava già al suo posto, il culo appoggiato a una macchina parcheggiata, che se ero io il proprietario chissà quante gliene dicevo. Mi è venuto da ridere a pensare alla forma del culo di Desirée sulla macchina di un tizio qualsiasi: sono quasi due mesi che non piove e ci sta una polvere terribile dappertutto! Mentre pensavo a queste cose, e l’autobus era fermo con le porte aperte, è passato un ragazzo in bici, nero più del nero, a portare le pizze. Sì perché adesso sul vialone ci hanno fatto la ciclabile, che a tratti i ciclisti ci riescono a passare, dove non ci sono i sacchetti dell’immondizia o dove i papponi non ci parcheggiano. Anche gli spacciatori ci parcheggiano, ma quelli stanno più avanti lungo il vialone e di loro non so molto. Insomma lei era proprio all’angolo e il ragazzo si è fermato, nel buio ho visto i denti del sorriso, poi ha aperto il contenitore termico, di quelli gialli quadrati, da professionisti, e le ha allungato un supplì. Desirée lo ha addentato senza tanti complimenti e dopo un paio di morsi gli ha fatto boccuccia, così per scherzare. Il ragazzo si è rimesso a pedalare a tutta velocità che ancora si vedevano tutti i denti. Complici di un crimine. Mi è venuto proprio da ridere, mentre il bus è ripartito. Sembravano quasi amici, figurati!
Sto appoggiata alla finestra della cucina, la luce spenta, i pappagalli dormono ancora. Ieri ci è capitata la sfortuna, quella brutta. Lo dice sempre il Rosso – Meglio che me sfregio ‘na mano, ma quello no -. Tra noi colleghi sempre solo accenni, racconti smozzicati per sentito dire. Eravamo di turno insieme io e il Rosso, e succedeva il solito tran-tran – Daje che sei lenta, c’ho appuntamento per il cappuccino e ce mancano ancora quindici pezzi-. Io muta, figurati, anche se gli ultimi due cassonetti me li ero fatti praticamente da sola. Il problema del Rosso è l’altezza. Da quell’altezza i suoi occhi non hanno potuto non vedere dentro al cassonetto a cui mancava la copertura. Si è appoggiato al camion e ha fatto cenno all’autista di spegnere.
Poi mi ha detto – Lévate da qua e chiama la polizia –
Istintivamente mi sono girata verso il cassonetto, e il Rosso rabbioso – T’ho detto d’annattene! – Poi ha vomitato tra le ruote del camion. I poliziotti hanno lasciato sempre le luci delle sirene accese, e io ho sperato che, se ci guardava, alla creatura era piaciuto, almeno un po’. Siamo dovuti restare lì fino a che il magistrato ha disposto la rimozione. Per quell’ora eravamo stati viziati da tutti i negozianti dei dintorni, incluso il cinese che ci ha dato due sedie di quelle pieghevoli, col cartellino del prezzo attaccato. Ci siamo seduti lungo il marciapiede e ci siamo guardati gli scarponi da lavoro a lungo, ciascuno i suoi. La polizia ha fatto un cordone attorno al gruppo di cassonetti per tenere fuori i curiosi. Noi eravamo dentro e le facce degli altri fuori. Il Rosso stava seduto tutto raggomitolato, le braccia chiuse sulla pancia, piegato un po’ in avanti; ogni tanto mi faceva due occhi che chiedevano bontà. Io mi sono guardata attorno per vedere di trovarne un po’ da condividere con lui, ma nelle facce che ci circondavano non ce ne stava. Allora gli ho toccato il braccio, e lui si è ritratto brusco e incattivito.
Finalmente ci hanno lasciato liberi e ce ne siamo tornati in silenzio al deposito senza finire il giro, tanto un giorno in più non conta, la monnezza che si è accumulata non va da nessuna parte.
Poi sono tornata a casa con il solito bus, ma più presto del normale. Le puttane dovevano ancora attaccare, i ragazzini erano ancora al doposcuola. Ho passato il pomeriggio al telefono a cercare amiche mie di tanto tempo fa, cugine lontane, conoscenze della spiaggia. Ho riso molto e fatto molte promesse per un prossimo cinema, la pizza, perfino la festa della donna – che forse qualcuna rimedierà gli spogliarellisti. La sera ho avuto voglia di farmi un bagno, ma c’ho solo il box-doccia, e allora ho pianto, ma il pianto quello a dirotto, mica poco. Mi sono sentita stupida e così ho cercato di dormire senza nemmeno accendere la televisione.
Sto appoggiata alla finestra della cucina, la luce spenta. La strada è ancora silenziosa, nemmeno disturbata dal lampione di fronte al mio portone, spento da mesi. Quello dopo, davanti a casa di Desirèe, però funziona e rischiara i dintorni come un amico ben disposto. Una macchina sfreccia veloce verso il GRA, prima del delirio quotidiano. Inzuppo due biscotti nel caffè, stamattina ho ancora tempo, non ho quasi dormito. Dal palazzo di fronte esce una donna veloce sui tacchi alti, attraversa verso il cassonetto più vicino piazzato davanti alle nostre case, proprio a metà tra i due ingressi di alluminio dorato. Si ferma con il sacco a mezz’aria, incerta se lanciarlo in cima al mucchio o abbandonarlo fuori, tra quelli accumulati per terra. Decide per il lancio, ben riuscito. Poi si gira di scatto per andare svelta verso l’auto scuotendo la testa. Il rumore dei tacchi è già arrabbiato sulla strada e il suo fiato condensa parole di odio che passano i vetri.
Allora esco. Mi guardo attorno sperando di non esser vista. Mentre le mani si scaldano nei guanti, raccolgo i sacchi abbandonati per terra e li spingo a forza nel cassonetto, poi inizio a spazzare sotto il marciapiede, raccatto un po’ di monnezza sparsa e la infilo nello stesso cassonetto. Tre portoni più in là c’è ancora un po’ di spazio e ci vado a mettere altri sacchi, finché il nostro tratto di strada è ripulito. Inizio a spazzare il marciapiede tra i due portoni, raccogliendo frammenti di plastica, pezzi di carta con la pubblicità, aghi di pino secchi. Un’auto si ferma proprio lì e scarica Desirèe che ha finalmente staccato. Io fisso le setole della scopa, poi ci guardiamo. Desirèe è bellissima in penombra, rivestita di lamé argentato, giubbino rosso fuoco di finto coniglio, e ciglia lunghissime. Mi fa boccuccia con le labbra cariche e carnose, poi mi soffia con la mano un bacio a occhi socchiusi e rientra a casa.
Molto bello, potente!