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Cosa stiamo facendo

Testo e foto di Paola Ivaldi

“La quotidiana frequentazione del vuoto è lasciarsi istruire dal vuoto”
Chandra Livia Candiani

Un caro amico, in gioventù campione e poi istruttore di paracadutismo, mi raccontò, molti anni fa, che a incutere paura è il secondo lancio, ben più del primo, perché, disse sorridendo: la seconda volta sai che cosa ti aspetta.

Il mio secondo ritiro di meditazione di Mettā e Satipatthana Vipassanā ha fatto riaffiorare il lontano ricordo di quella battuta, cogliendone il vero senso soltanto ora, a distanza di parecchi lustri, dal momento che per tornare al Pian dei Ciliegi ho impiegato, in effetti, una porzione considerevole di tempo: due anni.

E quando, nei mesi precedenti alla partenza, venivo talvolta assalita da dubbi e incertezze, dicevo a me stessa che sì, dai, in fondo, dal 2021 a oggi sono stata una principiante diligente: ho cercato di dimorare il più possibile nel respiro, ho imparato a meditare seduta sulle panchine e nella camminata lenta, solcando piazze e percorrendo viali, avanti e indietro; ho meditato a casa, anche se appena venti minuti, lo so, pochini, però quasi tutti i giorni, puntuale, alle 18:30, rispondendo all’invito lanciato da Chandra Livia Candiani dalle pagine di Questo immenso non sapere, quando richiama la comunità diffusa dei meditanti a prendere posizione a quell’ora precisa, per condividere idealmente la pratica ciascuno per proprio conto, in un angolo appartato di mondo: “un appuntamento d’amore”, dice lei, per me una preziosa tana, quella manciata di minuti sullo Zafu.

A luglio inoltrato di quest’anno, dunque, rieccomi al Sangha dove ritrovo in un lungo abbraccio Luisa, l’insegnante; riscopro, inoltre, fin dai primi passi sulla ghiaia, lasciata l’automobile al parcheggio, il parcheggio alle spalle, quel tempo scandito solo dai suoni sublimi di natura, l’incessante frinire di cicale e grilli, richiami di uccelli in un gaio fraseggio noto ad essi soltanto. Ritrovo me stessa, mi sento a casa, felice di essere risalita al Pian dei Ciliegi per il mio secondo lancio nel vuoto. 

Tutto rallenta, questo lo ricordavo, sfiorando l’immobilità e da subito impone un reset molto forte, che può disorientare: le ore si dilatano a dismisura e, se rimani, devi accettare di rinunciare a contare i minuti, a spezzettare e misurare il tempo. Tu puoi solo stare nel presente, nel suo continuo fluire, come un surfista provetto mantieni l’equilibro cavalcando l’onda, l’incantevole istante che continuamente stai vivendo. Questo anche risulta impegnativo perché la tentazione è sempre la stessa: rammentare il passato, immaginare il futuro, nostalgie e rimpianti, ansie e aspettative. Arabeschi mentali simili a ragnatele, da spazzare via: tossine, trappole. Stai in quello che fai: stai meditando? Medita. Stai mangiando? Mangia. Stai camminando? Cammina. Stai guardando un albero, il cielo, una farfalla? Bene: guarda albero, cielo, farfalla.

A una delle pareti della sala mensa è appeso un quadro che incornicia una domanda: Cosa sto facendo? Non me la ricordavo, la grande calligrafia stampata, e ogni volta che lo sguardo si posa sull’interrogativo mi pare di trarne una lezione, tentando di darmi una sola risposta. Il pensiero per un attimo fugge via, lontano da lì, alle tante persone che incrocio per le strade di città: gente che sfreccia in bicicletta mentre, AirPods alle orecchie, intrattiene conversazioni telefoniche concitate, una mano al manubrio l’altra che fruga in borsa… ma-cosa-state-facendo?

Oppure considero me stessa, inguaiata nella mia forzata casalinghitudine del fine settimana, quando alle prese con detergenti, aspirapolvere e mocio, non faccio altro che sbuffare, accorgendomi che mi pesa sempre di più questo surplus di lavoro non retribuito, allora mi arrabbio perché non ho aiuti – prima li avevo, accidenti! – quindi scattano le ruminazioni di livore, poi le ansie sul “come farò”, poi rispondo al telefono e mentre avvio uno scambio sbrigativo, cellulare serrato tra spalla e orecchio, porto a termine la pulizia del lavandino infilando l’angolo della spugnetta nel troppopieno… macosa-sto-facendo?

Chiedersi semplicemente cosa stiamo facendo, in questo nostro tempo declinante fatto di fretta e furia, ci porta davanti allo specchio, impietosamente rivelandoci a noi stessi, con le date di scadenza ormai superate da un pezzo di quelli che fino a non molto tempo addietro parevano, a molti di noi, ancora obiettivi perseguibili e auspicabili, l’efficienza del multitasking, illusioni anacronistiche di vanitose performance. Ho letto un articolo, di recente, sulle pagine online di una testata nazionale, che celebrava la sperimentazione di arti supplementari da potere indossare, come una giacca, che “in un futuro non troppo lontano ci consentiranno di compiere sempre più azioni contemporaneamente”: fare-sempre-più-cose. Wow. Wow?

Eppure, mediamente, siamo inquieti, ansiosi e lamentosi, insoddisfatti, frustrati e stanchi, nonostante ci si incaponisca a convincersi del contrario: wow-nonostante. Uno sgradevole senso di oppressione s’alza come marea che non sai se vedrai riabbassarsi; sempre più spesso, poi, la voglia di staccare tutto. Altro che pin, puk, token. L’impulso di un gesto simbolico che grida una sola parola: basta. Questo, a grandi linee, lo scenario attuale per quella che inizia ad assumere la consistenza di una massa crescente di esseri umani.

Allora, il solo modo di uscire dalle nostre gabbie mentali, stando in mezzo ai boschi dei Colli Piacentini, è sempre solo quello: m e d i t a r e, concentrando la propria attenzione sul ventre, quel movimento della pancia che respirando, immancabilmente, va su e poi torna giù. 

Su e giù e su e giù… Non c’è altro, qui, ma non è affatto poco. Poi, talvolta squarci, lampi di consapevolezze: sospendere giudizi e sentenze, accogliere il dubbio e gli stupefacenti germogli che in esso dimorano; imprese quasi titaniche, in un’epoca come questa di spinte polarizzazioni e profonde spaccature. Tuttavia, sempre più spesso, ho come l’impressione che occorra liberarsi dalle innumerevoli tagliole dualistiche: bello/brutto, mi piace/non mi piace, buono/cattivo, giusto/sbagliato, amico/nemico, sinistra/destra, pro/anti, eccetera/eccetera. Di questo passo, altrimenti, saremo perdenti e perduti: una volta frantumato, il popolo è vencido.

Torniamo al Sangha. Le giornate iniziano sempre con la campana delle cinque e la meditazione camminata, poi quella seduta, poi c’è colazione e avanti fino a sera – con le sole pause del pranzo delle 12 e dello spuntino delle 17 – si alternano continuamente le pratiche di meditazione sedute e camminate, sempre della durata di un’ora. Una “full immersion”, non c’è che dire, ma è proprio lì l’arcano: solo attraverso un percorso intensivo si riesce a trarre l’adeguato insegnamento, un carico di semi e fiammelle da portarsi a casa, per provare, a nostra volta, a continuare a praticare nel tentativo seppur goffo di farne qualcosa, di tutto quell’intenso lavorìo. A volte penso: non sarebbe stupendo se ognuno di noi, risucchiato nella propria quotidianità, riuscisse a “fare Sangha”? In famiglia, sul lavoro, nel vicinato, nelle cerchie amicali, disseminare tutto l’ardore pazientemente distillato al Pian dei Ciliegi?

I precetti da osservare sono naturalmente gli stessi di due anni fa: il rispetto del Nobile Silenzio, la disattivazione di tutti i device, lo svolgimento di piccoli incarichi da parte di ognuno di noi a favore della collettività; a me assegnano il riempimento delle caraffe ai tavoli della sala mensa: ogni giorno controllo tre o quattro volte, in brevi pause che mi ritaglio durante le meditazioni camminate, e ogni volta effettuo rabbocchi di cinque o sei litri. Mi piace molto il mio compito, parendomi un gesto simbolico, consentire ai miei compagni di placare la sete trovando sempre la brocca piena.Cosa sto facendo? Verso l’acqua.

A differenza del 2021, decido di spegnere il cellulare e di non riaccenderlo fino alla partenza, mai mai mai, nemmeno per controllare i messaggi, niente. Black out. E nonostante io sia già un soggetto in deciso allontanamento dal proprio smartphone, che nel tempo extra lavorativo spesso lascio a casa o in modalità aereo, devo ammettere che mi sorprendo nello scoprirmi un po’ perduta, preda di un sottile stato di disagio da quasi astinenza.

Metto a fuoco che la connessione alla Rete sta diventando un cordone ombelicale di ritorno, che il potere che questi aggeggi si sono presi su di noi, sui nostri modi di gestire i rapporti interpersonali, è molto più radicato e insidioso di quanto non si riesca a immaginare stando a bagnomaria nella quotidiana ordinarietà. 

Ma la scoperta davvero illuminante avviene al terzo giorno, nell’istante in cui capisco che al Pian dei Ciliegi io non sono in una bolla, come mi pareva d’essere desolatamente piombata al mio arrivo. No davvero: è l’esatto contrario! Al Sangha io mi trovo al di fuori della bolla dove tutti noi trasciniamo le nostre esistenze iperconnesse, l’abnorme bolla da cui provengo e da cui verrò nuovamente fagocitata nel giro di qualche giorno.

Anzi, di più: il Pian dei Ciliegi potrebbe giungere ad assomigliare a una sorta di enclave. In ogni caso, questo è certo, rappresenta una meta importante, che può consentire il recupero di sé stessi e l’acquisizione di nuove sorprendenti chiavi di lettura del reale. Immersa nel bosco, avverti che la tua essenza viene benevolmente accolta, non è minacciata, mai oltraggiata né mortificata. Assumi costantemente una postura eretta, non ti ingobbisci sullo smartphone, aggrappandotici col grugno o sorrisi sornioni. Schiena dritta, sguardo in avanti a perdersi nelle cento sfumature di verde del fitto fogliame, fino a spingersi in lontananza ad accarezzare i sinuosi profili collinari. 

Nella bacheca all’ingresso del centro è affisso il codice di comportamento; tra le altre cose, si legge: “Ci piace sottolineare il valore del ritiro in quanto dimensione difficilmente accessibile nella società moderna”. In effetti, mi domando se sia ancora possibile trascorrere intere giornate in compagnia di altri esseri umani (in questo caso ventiquattro adulti dai venti ai settant’anni), in possesso delle proprie facoltà mentali e liberi, ossia non in stato di detenzione carceraria, che risultino tutti contemporaneamente e costantemente sprovvisti di cellulare alla mano. Non mi viene in mente altro contesto se non quello, appunto, di un ritiro presso un Sangha.

Alla sera, unica eccezione, il Nobile Silenzio viene interrotto per formulare gli auspici di Mettā, l’amorevole gentilezza. Essi vengono indirizzati, sotto forma di canto in lingua pāli, prima a noi stessi e poi, a mano a mano, agli altri meditanti, al vicinato, ai nostri cari e via così fino a rivolgere questi pensieri di benevolenza a tutti gli esseri viventi, spargendoli in ogni direzione, non solo verso Est e verso Ovest, verso Nord e verso Sud, ma anche: Sud-Est, Nord-Ovest, Nord-Est, Sud-Ovest. Gli auspici: essere al sicuro e lontano dai pericoli, essere in pace e in buona salute, avere cura di sé stessi ed essere felici. Tuttavia essi sono, appunto, auspici: non ci si azzarda a considerarli alla stregua di diritti. A nessuno spetta niente, sia ben chiaro, se non la facoltà di coltivare aspirazioni che siano compatibili con gli altri viventi e con la Terra.

La Mettā è potente – ripenso alla scritta all’ingresso del SERMIG, l’Arsenale della Pace di Torino: La bontà è disarmante– e mi induce a considerare il bisogno estremo che abbiamo di ritrovare proprio quella cosa lì: il senso del bene comune, e poi sì, anche le vie di mezzo, i punti cardinali intermedi, la molteplicità, a sanare le diatribe, ricucire gli strappi, ricomporci, nei modi e nei toni, poi nel linguaggio: tanto fintamente inclusivo negli intenti proclamati, quanto sempre più pronto a degenerare per un nonnulla in risse verbali, sciatte e aggressive.

Dio mio, come sarà difficile bonificare la nostra martoriata società… quanto lavoro ci aspetta. Ma cos’altro potremmo fare per evitare il peggio se non provare a immaginarla e poi però, una buona volta, a riprometterci anche di imboccarla, quella nuova straordinaria rotta che in tanti, da tanto, vagheggiamo? Quand’anche non giungessi nemmeno a scorgere l’approdo (temo che sarà così) avverto sempre più impellente il dovere di adoperarmi affinché vi possano arrivare altri, altri riescano almeno a salpare, umani che non conosco, ma che sono fratelli e sorelle d’anima a cui augurare vite migliori delle nostre: vite più sobrie, emancipate e solidali ma-non-tanto-per-dire.

Rivendicare la felicità individuale alimenta una visione narcisistica e sterilmente onanistica dell’esistenza, non porta in nessun luogo, condannando al buio asfittico dei vicoli ciechi. Il vero balzo in avanti avverrà se e quando riusciremo a edificare una nuova idea di felicità, collettiva, diffusa, condivisa, ma soprattutto affrancata dai consumi: una felicità fatta di noi e da noi soltanto, a mani nude e libere.

Nel tempo che mi resta prima di partire per fare ritorno alla bolla abnorme, riesco sempre più nitidamente a contemplare, con somma gratitudine e indulgenza, il mio quieto respirare, accorgendomi del ventre, lo stupefacente moto ondoso pelagico di una pancia di cinquantasette anni: finché dura, pura meraviglia che mi fa sentire minuscolo impermanente mare calmo. 

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8 Commenti

  1. un altro sentito grazie da sparz. Ho fatto anni fa qualche vaga esperienza del genere. E non ho lo smartphone, ma solo il telefonino paleo, che non va nell’etere. Tuttavia raggiungere questo ideale che dici nella nostra società richiede scelte troppo coraggiose. Vedremo.

    • Ben trovato sparz. Capisco la tua considerazione, ma devo dire che l’immersione nel Nobile Silenzio, oltre a radicarci nel presente, favorisce la coltivazione intensiva di sane utopie (soprattutto una volta rientrati nella bolla abnorme germogliano i buoni propositi, le preghiere, più o meno laiche, la grande speranza di un progressivo risveglio di massa dal torpore digitale).
      P.S. Abbi cura del tuo telefonino paleo.

    • Grazie a voi indiani che accogliete le mie parole e date loro dimora, seppur virtuale. Il solo pensiero che qualcuno, leggendomi, sia incuriosito ad approfondire e magari, una volta, a provare a “lanciarsi” nel Nobile Silenzio, mi dà gioia. Per me è stata una rivelazione, nel 2021, e continua a esserlo ogni volta che mi siedo sullo Zafu, anche se solo per una manciata di minuti, anche se da principiante. Tutto è già in noi, basta solo rendersene consapevoli e coglierne la meraviglia.

    • Sono lieta di aver condiviso le mie parole con quanti vi si sono soffermati, cogliendone spunti di riflessione. Il silenzio, come scrive Chandra, è cosa viva.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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