Nascita e morte del neo horror all’italiana

di Matteo Quaglia

Quello che posso aggiungere sul “filone cinema” è che di una tempesta di sabbia si può dire solo quello che ci è concesso quando il vento smette di vorticare e di sollevare i granelli, cioè che non ci si è capito un cazzo.

In ufficio erano tutti molto presi da una catena di incidenti stradali sospetti; nessuno osava parlare apertamente di truffe, ma l’aria che si respirava era quella. Della vita aziendale non si può raccontare chissà quanto, perché parafrasando Tolstoj tutte le aziende felici si somigliano, mentre ogni azienda infelice ha una tragedia tutta sua; nel nostro caso, si può dire che qualcuno ci stava spennando come dei polli in un mercato marocchino.

La circostanza particolare di quella catena di sinistri, che per il resto somigliavano in tutto e per tutto a incidenti genuini, era che le parti coinvolte nelle richieste risarcitorie, talvolta in qualità di danneggiati, altre come responsabili, altre ancora quali testimoni, erano “attori motociclisti”. O così riportavano nella casella “professione” della constatazione amichevole.

Quanto a me, non avevo mai sentito parlare di niente del genere. Attori motociclisti? Non credo si trattasse di una vera e propria professione. Chi mai avrebbe dichiarato di essere un attore motociclista? Soltanto qualcuno che non avesse molto da perdere. Inoltre, non mi era ben chiaro se con tale dicitura si intendesse dire che queste persone erano sia attori, sia motociclisti, o se, invece, che fossero attori abituati a recitare soltanto in film in cui fossero presenti motociclette. La circostanza non era chiara.

I colleghi che stavano seguendo più direttamente la serie di sinistri che dal luglio al dicembre di quell’anno avrebbero, per così dire, incendiato tutto il Nord Italia, senza alcun collegamento particolare, se non la ricorrenza professionale di cui ho detto, avevano soprannominato il fenomeno “filone cinema” (le persone, soprattutto gli impiegati delle aziende assicurative, si fanno sempre l’obbligo di assegnare nomi in codice alle cose, per renderle riconoscibili agli addetti ai lavori e irriconoscibili al resto del mondo).

Nei sinistri di questo “filone cinema” il luogo dell’incidente cambiava sempre, il sinistro poteva accadere a Udine, a Vicenza, a Bollate o Garbagnate o in qualche remota strada provinciale piemontese. Di solito si trattava di incidenti di poco conto, che costavano alla compagnia alcune migliaia di euro, e dunque per qualche tempo nessuno aveva dato troppo peso al fatto che per il Nord Italia circolassero, e soprattutto restassero coinvolti in incidenti, un grande numero di attori di poco conto, attori motociclisti, che da ricerche sugli appositi portali non risultavano neppure affiliati a un qualche moto club.

Se gli incidenti fossero accaduti nei pressi di un motoraduno, o nell’ambito di certe sfilate a cui partecipano a volte i bikers, non ci sarebbe stato nulla di sospetto, invece così non era, i sinistri erano del tutto slegati tra loro, coinvolgevano moto, scooteroni, auto, senza alcun tipo di distinzione; il fenomeno era stato tracciato soltanto a ottobre, l’ennesimo giorno di pioggia contro le vetrate dell’ufficio doveva aver risvegliato qualcosa nel cervello di uno dei colleghi dell’ufficio antifrode, un tale di nome Vincenzo, originario del Cilento, che non aveva niente a che vedere con l’ambiente motociclistico né tanto meno con quello cinematografico, ma che a quanto pare era un grande appassionato di b-movies.

Esaminando la documentazione di una pratica, che in seguito sarebbe passata agli onori della cronaca del nostro ufficio come “Multiplo dei pistoleri” (si trattava di un incidente in cui erano rimasti coinvolti un ex militare, una studentessa di medicina che nel tempo libero si esercitava al tiro al piattello sognando di entrare a far parte della prossima spedizione olimpica, nonché, appunto, un attore da quattro soldi), si era accorto che una delle figure coinvolte gli era famigliare. Il ragazzo con i capelli biondo cenere e lo sguardo vitreo, disse Vincenzo al collega con cui divideva la scrivania, gli ricordava qualcuno, forse una vecchia conoscenza, o magari una persona che aveva visto di recente e che non conosceva affatto.

La curiosità è spesso nemica del quieto vivere, così Vincenzo aveva cercato su Google il nome del soggetto coinvolto nell’incidente. Da lì, la scoperta. Il ragazzo, tale Roberto Pozzi, aveva recitato in alcuni film splatter che si inserivano in quella che allora, nel sottobosco degli appassionati dei film a basso budget e delle libere creazioni prive di patrocinio e di finanziamenti pubblici, prendeva il nome di “neo horror del NordEst”. Si trattava di registrazioni fatte con videocamere o spesso smartphone di ultima generazione e poi caricate su YouTube o su altri siti di cui, personalmente, non avevo mai sentito parlare fino a quel momento. I film in questione avevano per lo più a oggetto storie di provincia, vite spezzate da un avvenimento straordinario o da una tragedia soprannaturale; insomma si potrebbe dire che rappresentavano per certi versi il parallelo cinematografico a quello che in letteratura veniva definito “new weird all’italiana”. I filmati erano registrati in vecchie fabbriche o in discoteche o perfino dentro licei abbandonati.

Tornando a Roberto Pozzi, il ragazzo aveva recitato una parte fondamentale in un film intitolato “Corvi selvaggi”: così mi spiegò Vincenzo quando capitò di parlare con lui del “filone cinema”, cosa affatto difficile, posto che quel Vincenzo era una testa di cazzo che non parlava d’altro, se non del “filone cinema”. Mi spiegò che guardando la carta d’identità di quel Pozzi, aveva come riconosciuto, nei lineamenti aguzzi dell’uomo, una grande verità nascosta, ecco perché gli era suonata un campanello d’allarme, che l’aveva indotto a cercare informazioni in più su quel viso tanto bello quanto scialbo.

Venne fuori che Pozzi, in “Corvi selvaggi”, aveva recitato la parte di un giovane ribelle neo fascista nonché spacciatore di anfetamine, innamorato della figlia di un boss di paese, e per boss si intendeva il capo di una fabbrica di motociclette del trevigiano; la storia era tanto semplice quanto controversa. Pozzi e la figlia del boss, una bionda anche lei abbronzata e con gli occhi spiritati, scappavano dalle ire paterne di lei a bordo di due motociclette prive di targhe, il boss li inseguiva e alla fine riusciva a raggiungerli, perché la figlia, all’ultimo istante, cambiava idea sulla fuga e forse anche sul suo amore per Pozzi, e lo pregava di farla scendere prima che “fosse troppo tardi”. Il tocco horror era dato da alcuni corvi che, per tutta la durata della fuga, incombevano sulla coppia di fuggiaschi come una nuvola di pioggia. Un chiaro riferimento a Hitchcock; e nemmeno l’ultimo.

Guardammo spezzoni del film in ufficio, e per certi versi fu simile al cineforum dell’università, mentre per altri fu del tutto diverso. Però spegnemmo addirittura le luci, e un collega anziano appese delle giacche alle finestre, così da creare l’ambiente giusto. Il film, caricato su YouTube da un utente con troppi pochi iscritti per risultare interessante (si trattava, com’è ovvio, di un prestanome), durava mezz’ora, e seppure pessimo, trasudava un’atmosfera che non saprei come meglio definire se non come “polverosa”. Trasudava sottilissima follia polverosa.

Da cosa nasce cosa. Lo stesso collega anziano che aveva appeso le giacche alle finestre, anche lui passato tempo addietro nell’ufficio antifrode prima di essere, per così dire, parcheggiato nell’area Compliance, disse che la ragazza spiritata, bella da far male, lui l’aveva già vista da qualche parte, ne era pressoché certo. Dai titoli di coda scoprimmo che si chiamava Sofia Vergassola, e che oltre a essere una modella con un buon numero di follower su Instagram, era stata anche testimone di un tamponamento avvenuto mesi prima, in luglio appunto, a Gallarate. La cosa che mi sconvolse di più fu la memoria storica di questi miei colleghi, che dal volto di un film riuscivano a riconoscere il viso di una persona vista di sfuggita mesi prima, ma si dirà: ognuno ha il talento che si merita, e sono d’accordo.

La Vergassola era nata in una famiglia benestante, i suoi genitori possedevano una fabbrica di torrefazione del caffè e vari possedimenti in Cile, o forse era la Bolivia, non è importante; aveva studiato danza classica e soprattutto aveva recitato in alcuni spot pubblicitari dell’azienda famigliare per poi, così dicevano le note biografiche reperite su internet, tagliare i ponti con la famiglia dopo che il fratello, anche lui biondo e con gli occhi spiritati di chi ha appena assunto una dose massiccia di polvere bianca, era finito oltre il guardrail con la sua Jeep, e da lì nel torrente, e da lì, presumevo, negli incubi e nelle notti insonni di tutta la famiglia Vergassola.

Sofia aveva abbandonato gli studi per dedicarsi alla vita notturna, così disse un altro collega, spulciando le foto postate sui social dalla ragazza, la quale, per inciso, nel suo profilo si dichiarava divoratrice di libri e amante segreta di Ken Follett (il che, per conto mio, la posizionava in un preciso girone dell’inferno). Ancor più importante, aveva recitato in una serie YouTube ambientata in un liceo di provincia, intitolata “La ragazza infuocata”, titolo che suscitò, tra i colleghi, più di un commento e qualche battuta truce. La Vergassola, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non recitava la parte della protagonista, bensì un ruolo minore, cioè quello dell’amica del cuore della protagonista, che invece era una giovane dalla pelle bianca come la solitudine più desolante, con occhi spietati, dunque appariva l’opposto della Vergassola, la quale come detto era invece il sogno di ogni uomo di mezza età stufo della vita di provincia. È proprio lei, disse il collega, quando, nei giorni successivi, guardammo un paio di puntate di “La ragazza infuocata” (questa volta senza creare l’atmosfera soffusa da sala di proiezioni di cui ho detto).

Era lei, il suo documento d’identità appariva nel documentale del sinistro di Gallarate, un tamponamento di poco conto, nel quale la Vergassola aveva testimoniato in qualità di passeggera del veicolo danneggiato.

Il collegamento però non portò a nuove scoperte; Pozzi e la Vergassola si conoscevano perché avevano recitato assieme, entrambi erano rimasti coinvolti in un incidente, anzi in due incidenti distinti. Eppure era qualcosa. Come si suol dire, date un pezzo di legno a un carpentiere e ci vedrà un martello, date una labile connessione tra due attori bellissimi e dei sinistri a un liquidatore dell’area antifrode di una compagnia assicurativa e ci vedrà un complotto.

Da quel momento in avanti, tutto l’ufficio iniziò a prestare attenzione alle richieste risarcitorie in cui, tra i figuranti, compariva un “attore”, o “attore motociclista”. In questo modo, nel “filone cinema” finirono tale James Baldaccino, colpevole di aver recitato nel film “Gli ultimi inseguimenti dell’orso cocainomane”, il cui titolo è sufficientemente esplicativo, nonché di essere stato investito a Spilimbergo (paese che ha la peculiare e in questo caso sinistra caratteristica di richiamare, nel nome, il cognome del noto regista, Steven Spielberg) mentre scendeva dall’auto; Romina Pivani, trentenne testimone di un investimento pedonale, che aveva recitato, forse quale stuntman, forse quale attrice, in una docufiction sulle gare di moto acrobatiche intitolato “The New Frontiera. Un viaggio”; Giovanni Bonaventura, villain in un film ambientato a Roma, “Quel vento di tramontana d’inferno”, anche lì c’erano delle motociclette, ma servivano solo da scenografia; Federica Armani Billi, modella, comparsa in “Cuori stracciati”; e molti altri di cui non mi sovviene nome e ruolo, e che rivestirono la stessa scarsa importanza delle figure che ho citato. Si può dire che ci facemmo una cultura sul mondo dei b-movies, su quel “neo horror del NordEst”, ma non ottenemmo chissà quale risultato concreto, se non quello di essere consapevoli della presa in giro a cui stavamo assistendo.

Incaricammo degli investigatori. Funzionava pressappoco così: i colleghi che seguivano il fenomeno davano mandato a una società investigativa indicando gli scopi dell’incarico e cosa ci si sarebbe aspettati di trovare. L’investigatore contattava le parti coinvolte nel sinistro, le interrogava, cercava eventuali ulteriori testimoni, infine traeva le sue conclusioni. I report investigativi che ebbi modo di vedere sembravano dei puzzle. L’idea generale era che mancasse sempre qualche tessera.

Nello stesso periodo mi capitò di dare una spulciata alla rivista online di cui mi aveva parlato Ludovica, una mia ex ragazza, una delle ultime volte in cui ci eravamo visti, forse perché all’interno speravo di trovare un suo contributo, o forse perché speravo di trovarci me stesso, ma non trovai né l’una né l’altra cosa. In compenso, lessi un interessante articolo sullo stato del cinema di genere italiano, e in particolare del cinema horror nel quale, in buona sostanza, si diceva che la nostra gioventù migliore era diventata ormai la nostra vecchiaia migliore, posto che i vari Ruggero Deodato, Lucio Fulci, per non parlare di Dario Argento avevano, nel migliore dei casi, una certa età, e nel peggiore dei casi erano morti; e nella scena non si vedevano spiragli di luce. Quei vecchi tirannosauri non erano stati sostituiti da esemplari più giovani, il meglio c’era già stato e noi ce l’eravamo perso, così come era successo con i film non di genere, dove i vari Fellini De Sica Germi erano gli unici dei in un pantheon popolato per lo più da imbecilli senza palle, così l’articolo.

Ma mentre per il cinema per così dire impegnato la vita era andata avanti e nuove leve erano riuscite in qualche modo a reinventare il genere, o quanto meno a reinventare sé stessi, insomma ce l’avevano fatta, per l’horror la situazione era ben più tragica. Si diceva anche che alcune delle cause per cui l’horror stava perdendo la guerra erano dovute al fatto che, al giorno d’oggi, fosse sempre più difficile stupire chicchessia, figuriamoci spaventarlo a morte. La paura aveva a che fare con la claustrofobia, così l’articolo, e posto che “il cinema è composto da tanti elementi, e il pubblico è uno di questi”, così Marcello Aguildara, sparito il pubblico stava scomparendo anche il cinema.

A meno che non spuntassero dall’oscurità, o quanto meno da qualche università di prestigio, nuove menti coraggiose, capaci di dare fuoco ai vecchi dogmi della paura per riscriverne di nuovi, di dogmi, che avessero maggiormente a che fare con le nuove paure, posto che, com’era fin troppo chiaro, una casa indemoniata non spaventava più nessuno. “È come se col passare del tempo avessimo smarrito qualcosa, e non riuscissimo più a realizzare prodotti innovativi”, diceva un regista citato nell’articolo, secondo il quale in giro c’erano poche idee e scarsa personalità. Insomma, servivano nuove proposte coraggiose, capaci di ribaltare le prospettive passate e tracciare una nuova via, più consona alla modernità. L’articolo non era firmato.

Una mattina scrissi a Bottiglieri, un mio ex compagno di università con certe velleità letterarie da turarsi il naso, il quale nel frattempo si era laureato con il calcio accademico e adesso aveva aperto una filiale dell’infortunistica paterna a Mestre, compiendo il sogno dei genitori e abbandonando per sempre i suoi. Gli chiesi come se la passasse, poi, com’è naturale, finimmo per discutere della serie di incidenti del “filone cinema”. Dal lato suo, Bottiglieri sapeva poco, non aveva, per così dire, una visione d’insieme, però mi disse che in effetti gli era capitato di sentir parlare del fenomeno e, soprattutto, di ricevere un cliente che asseriva di essere stato tamponato da “questo belloccio che, dopo avergli urtato la macchina, si era messo a fare una sceneggiata teatrale, quasi stesse recitando un pessimo copione; infatti si trattava di un attore”.

Per questioni di privacy non potevo rivelare a Bottiglieri tutte le informazioni che circolavano in ufficio; io stesso in verità ero marginalmente coinvolto nel tracciamento del fenomeno, posto che a occuparsene in modo diretto erano i colleghi dell’ufficio antifrode, mentre a me e agli altri tempi determinati spettava, per così dire, il ruolo di chi si immerge con le gambe nel fiume per setacciare la ghiaia, con la speranza di intercettare dell’oro.

Anche per questa ragione lo scambio epistolare tra me e il mio vecchio amico assunse un tono letterario. Divenne insomma un gioco di continui rimandi e citazioni. A volte gli scrivevo il nominativo di una delle attrici coinvolte e Bottiglieri rispondeva riportando per iscritto le battute che quell’attrice — mi viene in mente una stanga di nome Claudia Borromeo — aveva recitato in uno dei b-movies. Altre volte ipotizzavamo delle trame per nuovi film di genere, oppure ci divertivamo a collegare citazioni da romanzi letti nell’epoca in cui respiravamo narrativa a questi personaggi da cinema; insomma il nostro era puro cazzeggio letterario. Ci dicemmo che sarebbe stato bello andare a farci una birra, e promettemmo che, presto o tardi, ci saremmo visti, lui sarebbe venuto qui o io sarei andato a Mestre; entrambi sapevamo che l’incontro non si sarebbe mai verificato.

Nel corso degli ultimi mesi della mia permanenza nella società di assicurazioni il clamore suscitato dal “filone cinema” si esaurì, nel senso che i casi conclamati diminuirono, fino a cessare del tutto, quasi che qualcuno avesse costruito una diga capace di arginare il fiume di marcio che aveva inondato le strade del settentrione, e forse quel qualcuno altri non era che la mente dietro la serie di sinistri, l’eminenza grigia, sempre che ce ne fosse una e che il tutto non fosse dovuto invece all’entropia. Sia come sia, chi doveva essere risarcito fu risarcito, e il fenomeno ebbe come unico risultato quello di farci scoprire l’esistenza del “neo horror del NordEst”, e di attori che, se non fosse stato per il loro coinvolgimento in sinistri dubbi, non avremmo mai avuto modo di veder recitare. Insomma, per loro, per questi attori, fu un successo su tutta la linea. Per la compagnia assicurativa, invece, fu un bagno di sangue.

Foto di SplitShire da Pixabay

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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