Un’estate con Manzoni #5 — Tutta la vita
[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima, la seconda, la terza e la quarta puntata.]
di Marco Viscardi
I promessi sposi, capitolo XXXVII: Tutta la vita
Inizio con una confessione: questa pagina mi ha sempre commosso. Siamo nel capitolo trentasette e Renzo, dopo aver ritrovato Lucia, torna al paese per preparare le nozze. La felicità è vicinissima, questione di passi. Intorno, il mondo si pulisce: con un brutto gioco di parole ‘il mondo si monda’. E ricordate il cognome di Lucia? Mondella!
Piove, la pioggia spazza via la peste, irriga i campi, inumidisce tutto quello che rischiava di morire, e Renzo corre, corre e non ci pensa:
Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d’Agnese.
C’è una energia traboccante, emozionante, in tutta la pagina. Renzo è vigore puro, vigore in cammino. Non gli interessa la strada, non conta più. Ora che si avvicinano le nozze, e con loro arriva la felicità, conta solo l’arrivare, solo la meta. Renzo ha attraversato mondi infernali: è stato nella rivolta, ha conosciuto l’inganno di chi serve il potere, le vie dell’esilio, si è scaltrito e, dopo essere guarito dalla peste, ha rivisto il suo paese stravolto dall’epidemia e dal passaggio delle truppe mercenarie imperiali; è stato coi monatti, quei demoni!, si è inoltrato nel lazzaretto, il regno della morte, alla ricerca della luce, di Lucia, che ha visto viva. Ora tutto è compiuto, il voto è sciolto. Si avvicina il giorno delle nozze che aspettiamo da trentasette capitoli. Trentasette! Anche se Renzo si è trovato spesso solo, la sua indole non è solitaria. Ha bisogno di un mondo degli uomini da cui si è sentito troppe volte esiliato. E alla comunità di cui fa parte vuole raccontare la sua storia, riviverla nelle parole e nei gesti, farla diventare parte di una più grande memoria collettiva. Lo farà davvero e, fra i suoi interlocutori, troverà anche l’anonimo autore del manoscritto alla base del romanzo. Ma ora i suoi discorsi sono ancora tutti mentali. Se li ripete sotto la pioggia che cade monotona e copiosa e rende incerti i contorni delle cose, e piene di fango le strade:
Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! “E l’ho trovata viva!” concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’ convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo.
Quando Renzo si scuote come un cagnone, zuppo e felice, siamo tentati di spostarci dal libro (o, nel vostro caso, dallo schermo) per non essere infradiciati. La sua è una storia di orrori, una storia tremenda, ingiusta e ingiustificabile eppure, sotto tutte le macerie, sotto ogni tristezza, c’è il pensiero della felice conclusione. Adesso, finalmente, la storia vissuta si converte in gioia. Renzo si rivede compiere tutte le ultime azioni: bussare alle porte della casa di donna Prassede per scoprire che Lucia si era ammalata, cercarla fra la folla del lazzaretto, poi nella processione dei guariti, sopportare la delusione di non ravvisarla, ed infine inoltrarsi alla ricerca di lei, col terrore di non trovarla fra i vivi.
Il ritmo della pagina è incalzante. Le parole dello scrittore trapassano senza interruzione in quelle del personaggio: magia della narrazione onnisciente, il racconto passa dalla terza alla prima persona, dallo sguardo esterno, che tutto conosce, all’interiorità, che vede le cose mentre si svolgono, ed ora, incredula, le rimette in ordine e si scopre ancora salva, alla fine di un simile naufragio. Renzo è un reduce, un sopravvissuto che ha toccato terra e non gli sembra vero. Sembra di stare in mezzo al mare: la pioggia toglie nettezza ai contorni, il visibile sfuma, il cammino lo fanno le gambe, e i pensieri sono onde che alternano i movimenti della perdita e del ritrovare. Trovare di nuovo, riappropriarsi di una felicità che la logica irrazionale dei potenti aveva vietato.
E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmentechè non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.
Così, ripercorrendo le vicende passate, Renzo torna a casa, torna verso il mondo originario, quello da cui tutto era partito, ma l’armonia del mondo ingenuo non esiste più. Don Rodrigo, il feudatario prepotente, è ora solo un malato reso demente dalla peste, un corpo fra i corpi che Renzo è finalmente riuscito a perdonare; il volto battagliero di Cristoforo si è fatto scarno per la malattia: annuncia la fine imminente. L’orizzonte è ferito, il pericolo e la morte fanno capolino dai lati della scena. Ma c’è nel nostro filatore qualcosa di egoista: il felice realizzarsi delle sue speranze l’assorbe completamente, e la malinconia non domina la mente.
Saltiamo ora qualche riga ed arriviamo qui:
E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.
All’origine di tutta la storia c’era il desiderio di vita. Due giovani che volevano sposarsi e perpetuare la vita. La vita biologica, organica. Il mondo per andare avanti, per aprirsi a nuove fioriture, aveva bisogno di queste nozze, ma l’inverno non vuole cedere il suo posto alla primavera e i rappresentanti del vecchio mondo si sono opposti a tutti i costi, hanno disperso le energie vitali. Ma ora, le catastrofi che hanno scandito la vicenda sono tutte passate, non fanno più paura.
Nella prima puntata abbiamo visto come il male conosciuto da Lucia era entrato a far parte della sua anima, come una patina che opacizza la bellezza del mondo. Renzo è tutto proiettato nel futuro. Il suo romanzo, il romanzo che abbiamo letto e amato, è solo un prologo a quello che veramente conta. A tutta la vita. E quando pensiamo a Renzo che si racconta tutta la vita, lo vediamo slanciarsi in un futuro che non conosce confini. Tutto è a-venire, tutto deve ancora compiersi. Il romanzo dell’Ottocento qui rompe per un attimo le sue strutture, si annienta nello slancio verso ciò che non si conosce. La vita, la furia, la speranza pervadono tutto, invadono gli spazi dell’immaginazione. In quel momento, noi siamo Renzo e con lui vediamo gli anni che verranno in una luce radiosa. C’è qualcosa in questa pagina manzoniana che fa pensare a quello strepitoso apologo di Kafka sul Desiderio di essere un indiano:
Se si potesse essere un indiano, subito pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nell’aria, continuamente fremendo sul suolo fremente, sino a lasciare gli speroni, perché non ci sono speroni, sino a gettare le redini, perché non ci sono redini e appena si vede la terra di fronte a sé, come una landa rasata, già senza collo né testa di cavallo.
Così, in quel momento, per Renzo non esistono distinzioni fra sé e il suo narrare. Passato e futuro, avventura e necessità, interiorità e mondo, per un attimo di vortice coincidono, come l’indiano e il cavallo si fondono nella corsa. E il lettore sente la felicità di questo attimo perfetto e sente che questa felicità gli appartiene, almeno come possibilità. Possibilità che un giorno accada anche a lui.
E dopo il matrimonio? Solo le fiabe finiscono con le nozze e i Promessi sposi sono l’opposto di una favola. Romanzo senza idillio, l’ha definito il suo più grande lettore del Novecento: romanzo senza lieto fine, senza “e vissero felici e contenti”. E quindi sì, alla fine Renzo e Lucia si sposano, ma attorno a loro non cambia nulla. Il mondo resta irredento. Le grandi tragedie non sono del tutto passate, ma la peste è finita e nell’ultimo capitolo del romanzo si respira l’aria del dopoguerra. Il mondo deve rimettersi in piedi, la pietà per i morti deve lasciare il passo al lavoro, alla coltura, alla crescita. E anche la vicenda di fantasia deve finire, ma non può succedere di botto, nel culmine delle nozze, coi petardi e la banda municipale. No, bisogna defaticare, allentare, sciogliere. La prosa si rilassa senza perdere di tensione. Renzo e Lucia tornano nei territori del bergamasco, lasciano il paese natale per una personale inquietudine, più che per vera necessità, e i bergamaschi, che hanno orecchiato le vicende dei giovani, vanno a vedere Lucia. Ma sono delusi: volevano un’eroina, un personaggio, una maschera e trovano una donna. Qualcuno ne mette in discussione la bellezza, Renzo si arrabbia, cambia posto e i nuovi vicini sono più gentili. Il romanzo si allenta, diventa piccola cronaca, microstoria, racconto di modi di vivere e mentalità. Così vediamo Renzo, Lucia e Agnese smarrirsi nella folla del loro mondo seicentesco, ora che gli avvenimenti eccezionali sono passati. E ci sono i figli, e i guadagni, ci sono le esigenze di una nuova vita prosaica. E c’è Renzo che delira e dice di aver imparato a non cercare i guai, mentre Lucia sa che sono i guai a stanarci, a cercarci, a metterci a nudo. La fede, dice il narratore, ci aiuta a sopportarli. Non a risolverli, ma a sopportarli. Possiamo essere o meno credenti, possiamo decidere di mettere una legge morale laica al posto della fede, fare dell’etica, e non della trascendenza, la bussola in questo mondo dissennato, ma il romanzo non perde di forza. Le favole finiscono con le nozze. Qui le nozze sono l’inizio di una nuova vicenda, il narratore mago libera i suoi personaggi, ma quel mondo ci resta dentro, se l’abbiamo attraversato. E in quel mondo si rispecchiano la consolazione e la paura, la speranza e il disinganno di questo mondo qua. Quello che resta quando chiudiamo il romanzo è che il romanzo ci aiuta a vedere, a (non) capire. Il romanzo non finisce, e neppure la vita.
Sound Track -> Jean Sibelius, Andante Festivo, 1922