Deserti (sillabario della terra # 11)
di Giacomo Sartori
I deserti non sono solo quelli sabbiosi o pietrosi che ci vengono per primi alla mente, lontani e immensi. Deserti sono anche le lande spoglie di molti scoscendimenti dell’Appennino, della maggior parte delle montagne del Mediterraneo, di moltissime sue isole. Il taglio delle foreste originarie ha lasciato scoperti i suoli, che sono stati poi piallati via dalle piogge. Spesso passando da una fase di macchie arbustive, pascolate e ripascolate da pecore e capre, fino a non lasciare più nulla. E quasi sempre ci hanno messo lo zampino anche gli incendi, quelli stessi delle estati attuali, che fanno parlare di loro per qualche giorno.
Dove ora vediamo la roccia nuda, con qua e là qualche ciuffo di vegetazione, prima c’era una scura e fresca lecceta, o un’ariosa pineta. La normalità, per dirla così, è quella. L’aspetto lunare è subentrato dopo l’asportazione della terra, della vita. Una volta andata, la terra non può riformarsi dalla roccia: ci vorrebbero millenni, senza disturbi di sorta. Cresce lenta, le nostre vite le sembrano attimi. O ne restano brandelli sottili, buoni a ospitare qualche erba o arbusto senza troppe pretese. Moltissimi paesaggi che ci sembrano normali sono il risultato di una devastazione, sono un campo di battaglia.
Mi colpiscono molte fotografie turistiche, dove le persone sorridono, paghe dei bagni e del sole, e non sanno riconoscere la distruzione che le attornia. Si felicitano dell’acqua chiara, della sabbia, e degli addobbi turistici, senza notare le sterili rocciosità alle loro spalle, l’annientamento dei suoli. Per loro quello è lo sfondo naturale dei loro divertimenti. Se scoppia un ulteriore incendio pensano in primo luogo al fastidio delle strade interrotte, alla puzza di fumo.
In quella noncuranza trovo l’ennesima riprova della nostra sconsideratezza. Ci siamo plasmati un’idea di natura oleografica, maestosa e incontaminata, bucolica o selvaggia, sempre invitante, sempre remota, molto utile nei fatti per poter devastare a cuor leggero tutto quello che non rientra nelle sue varie declinazioni ammantate di fascino e purezza. Che è molto, moltissimo, e spesso è vicino a dove viviamo.
Quasi tutte le superfici delle aree vivibili della Terra, quelle che circondano le città dove si ammassano sempre di più gli umani, sono in effetti occupate dall’agricoltura. E il loro elemento prezioso, in mancanza di foreste secolari o falesie o cascate o altre attrattive sfruttabili dal rullo compressore del turismo, è la terra, con la t minuscola. La nostra cultura disconosce però il suolo e il tipo di vita che alberga, o anche lo considera una cosa bassa, al meglio un qualsiasi mezzo di produzione. La Natura per noi è appunto ben altro, la bellezza non sta lì, e le nostre ninfe le troviamo adesso sugli schermi. Non c’è quindi da stupirsi che non facciamo caso ai deserti che creiamo attorno a noi.
L’educazione che riceviamo non ci insegna a leggere i paesaggi che percorriamo, a capire come funzionano, cosa vi sta succedendo, quali sono le degradazioni in atto, quelle potenziali ancora peggiori. E tanto meno a respirarne i misteri. Conosciamo i modelli di automobili e di telefoni, le loro virtù, i loro possibili guasti, e beninteso il loro costo monetario, non gli alberi e le rocce, e le associazioni di piante, e le loro problematiche. Nel migliore dei casi ascoltiamo con pazienza quello che ci riassumono in qualche istante i relativi specialisti, e se proprio ci sentiamo molto coinvolti prendiamo il tempo per vedere un documentario.
Capiamo al volo i cartelli stradali, e ignoriamo completamente la segnaletica della natura, altrettanto vistosa e esplicita. I sintomi dell’erosione della terra, che se ne va per sempre, della sua perdita di sostanza organica, della sofferenza delle piante, della siccità, del latitare di animali sono messaggi perentori come pubblicità giganti, ma non attirano la nostra attenzione, presa da altro. Il senso della nostra vita lo cerchiamo altrove.
I deserti che l’agricoltura lascia dietro di sé, più diffusi dove i climi sono più contrastati, avanzano in realtà in tutti i continenti a passo di corsa. I suoli sono sgranocchiati in superficie, si assottigliano sempre di più. Con i concimi chimici e l’irrigazione possiamo spesso mascherarlo a lungo, ma a un certo punto l’ecatombe si palesa. I deserti non sono totalmente privi di vita, come spesso si crede, ma hanno una vita molto ridotta.
I deserti dove il suolo non c’è più, o è troppo ridotto, non sono però gli unici. Ci sono anche quelli delle terre troppo salate, pure qui per una pressione agricola e umana eccessiva, in particolare nei territori aridi. E quelli delle terre contaminate da metalli pesanti o da inquinanti organici. E soprattutto quelli inarrestabili della cementificazione, la forma di desertificazione più repentina e radicale. Ogni anno migliaia di chilometri quadrati di terre buone sono seppellite dal cemento armato e dall’asfalto, e le proiezioni per il futuro parlano di milioni di chilometri quadrati.
Ci preoccupiamo molto per la riduzione delle foreste, effettivamente gravissima, e per i cambiamenti climatici, che spesso intensificano le dinamiche in atto, ma più grave ancora è lo sterminio della terra. Con modalità spesso poco appariscenti e delle quali poteri pubblici e persone comuni sottostimano l’insidia, stiamo distruggendo i nostri habitat. Le foreste possono essere in una certa misura ricreate, e suoli in buone condizioni aiutano a affrontare i cambiamenti climatici, ma quando le terre non ci sono più, o sono alterate in maniera definitiva, non si può fare nulla.
So però bene che è ingiusto da parte mia prendermela con chi va in spiaggia senza notare i pietrami sterili alle sue spalle: tutti noi facciamo suppergiù lo stesso. Tutti noi siamo disattenti e sappiamo poco, è la nostra cultura. Tutti noi partecipiamo con zelo alla devastazione, direttamente o indirettamente, alla misura del nostro reddito e dei nostri consumi. Ce lo nascondiamo, o alla meglio rileviamo solo alcuni focolai che ci sono più vicini o ci stanno più cuore.
Non ci resta quindi che lo scoraggiamento, di fronte all’avanzare dei deserti attorno a noi? No, le pratiche di conservazione e di rigenerazione dei suoli non troppo danneggiati esistono e funzionano. Se ne parla sempre di più, le esperienze si moltiplicano: battiamoci perché prendano il sopravvento. Consideriamo per cominciare che i suoli sono sottilini e poco visibili, ma costituiscono l’elemento cardine dei paesaggi: su di essi si imperniano tutti gli insiemi dei viventi, quelli che gli ecologi chiamano ecosistemi. Fanno insomma vivere le piante, gli animali e noi, che siamo caduti in un delirio di onnipotenza. Esistono: cerchiamo di coglierli con i nostri sguardi, scegliamo e appoggiamo chi li protegge, compriamo i prodotti di chi li difende.
(la fotografia: sud della Tunisia)
Oggi purtroppo il deserto è nella quotidianità, nella difficoltà dei rapporti interpersonali, nei volti stanchi dei compagni di viaggio che ti guardano senza davvero vederti.
sì, certo, ci sono anche quei deserti lì; però ci sono anche quelli fisici, che ci stanno togliendo le superfici che vi danno da mangiare, io parlavo di quelli (senza togliere importanza a quelli che dici tu);