Lancillotto fu uno dei suoi cavalieri

di Gianluca Valenti

Nel momento in cui aprì la porta notò un aereo venirgli incontro alla massima velocità. Con un gesto istintivo lo afferrò e disse, simulando la voce metallica di un ipotetico robot parlante: «Oggetto volante individuato, nemico abbattuto».
«Noooo!» udì dall’altro lato del salotto. «Lascialo papà, così me lo rompi».
Non fece in tempo a rispondere che sentì una voce domandargli: «Posso dormire domani da Sara? Mamma ha detto che per lei va bene, se va bene anche per te».
«Chi è Sara? Ahi! Luca, mi fai male».
«Me l’hai rovinato!» piagnucolò Luca strappandogli l’aereo di carta dalle mani.
«Tipregotipregotiprego… Se mamma è d’accordo vuol dire che non c’è niente di male, no?»«Non è questione se ci sia o meno qualcosa di male, però—»
«Ti sei ricordato il latte?» gli chiese la donna venendogli incontro trafelata mentre dalla cucina si udiva il pianto di un neonato. «Dimmi che ti sei ricordato, mi sta facendo impazzire».
«Sì, certo, dovrei averlo qui» rispose lui chinando la testa sulle buste della spesa e pregando il dio in cui non credeva di fargli trovare lì dentro una scatola di latte in polvere.
«Mamma, convincilo tu! Papà non mi vuole fare uscire».
«Non ho mai detto che—»
«Non ora, Marta. Oh, finalmente!» esclamò la donna vedendo un contenitore metallico bianco e azzurro apparire dal fondo dell’ultima busta. Lo agguantò e scappò via, in direzione della stanza da cui era venuta.
La ragazzina continuava a guardare il padre nella speranza di un suo cenno di assenso. Lui si voltò verso la moglie e, mentre quest’ultima spariva dietro la porta della cucina, le gridò: «Lo sai, vero, qual è il problema? Ne abbiamo discusso ottocento volte».
«Non ora!» urlò lei di rimando.
«Posso? Per favooore» insistette Marta, decisa a non dargli tregua.
«Basta, cazzo. Non so se ti sei accorta che non mi sono ancora tolto la giacca. Adesso ci penso e stasera a tavola ti do una risposta».
Per quanto delusa, Marta biascicò una specie di «Va bene» prima di allontanarsi docile, ritenendo che una strategia attendista avrebbe aumentato le sue possibilità di ottenere un responso favorevole.
Pietro posò la giacca sulla poltrona all’ingresso e si avviò verso la cucina per sistemare negli appositi ripiani il resto della spesa.
«Corre più veloce un ghepardo o una gazzella?» chiese Luca.
«Beh dipende» rispose l’uomo, che fin dalla nascita di Marta si era ripromesso di non dare mai, ai suoi figli, risposte dogmatiche o semplicistiche. «Il ghepardo raggiunge velocità più elevate, però non riesce a mantenerle per molto tempo. La gazzella invece—»
«Quindi il ghepardo?»
«No! Ti sto spiegando che non è così semplice: un conto è la velocità massima che un animale può raggiungere, e un conto è quanto tempo è in grado di—»
«Ok ok, ma chi corre più veloce?»
Dopo qualche secondo di silenzio «Il ghepardo» rispose sconsolato Pietro, sperando di soddisfare la curiosità del figlio e riuscire a levarselo di torno.
«Ma allora come fanno le gazzelle a non farsi prendere? A scuola ci hanno mostrato un documentario dove—»
«Te lo stavo spiegando, ma non mi hai dato il tempo». Poi, voltandosi verso la sua destra e vedendo la moglie avvicinarsi, ne approfittò per chiedere: «Giovanna, hai visto per caso—»
«Non ora» lo interruppe lei, sparendo dietro la porta del bagno con, in braccio, il bambino che continuava a strillare e a divincolarsi.
Erano passati quattro giorni da quando aveva comprato la sua prima copia de “La settimana enigmistica”, eppure non aveva avuto ancora il tempo di completare un singolo cruciverba. Non avrebbe potuto dire perché avesse deciso proprio ora, a quarant’anni suonati, di consacrarsi a un passatempo che, in fondo, non gli era mai piaciuto. Non è, del resto, che avesse dedicato così tanto tempo a riflettere alle motivazioni psicologiche dietro il suo recente acquisto, ma se lo avesse fatto sarebbe forse giunto alla conclusione che quello era stato un suo tentativo di ribellarsi al mondo, una personale sfida all’esistenza cronofagica che lo avviluppava ogni giorno con i suoi tentacoli fatti di bollette, responsabilità, tasse, scadenze e ostentazioni di irreprensibili modelli comportamentali che un qualche tipo di legge morale autoindotta lo obbligava a trasmettere ai propri figli.
Dopo avere suddiviso e organizzato in base al luogo di conservazione i differenti prodotti della spesa, Pietro si voltò verso la rivista che giaceva malinconica su una mensola e, già rassegnatosi a quanto temeva che sarebbe successo di lì a poco, la prese in mano.
Uno verticale, quattro lettere, “è famoso per il ceviche”. L’inizio non prometteva bene, non aveva idea di quale fosse la risposta.
Dodici orizzontale, otto lettere, “Il fiume varcato da Cesare”. Questa definizione era invece alla sua portata, si ricordava a grandi linee la frase sul dado ed era quasi sicuro che fosse stata pronunciata proprio da Giulio Cesare dopo aver passato il fiume, quel fiume, mentre marciava su Roma. Ma di quale fiume si trattava? Indovinarlo gli avrebbe fornito un aiuto anche per l’altra definizione, poiché la prima lettera di questa parola incrociava la terza dell’altra. Ma non gli veniva in mente.
«Ho un’altra domanda» disse Luca irrompendo in cucina. «Tra Lancillotto e Galvano chi è il più forte?»
«Tra chi e chi?»
«Lancillotto!» urlò la donna dal bagno, in risposta al figlio.
«Anche a mezzogiorno?» si intestardì il ragazzo.
«Che si mangia stasera?» chiese Marta aprendo il frigorifero. Pietro fece in tempo a osservare una macchia nera che spuntava dalla scollatura della sua maglietta. «Cos’è quello?»
Marta si affrettò a nascondere la macchia. «Cosa? Niente, niente».
«Mammaaaa! Anche a mezzogiorno?» ripeté Luca con voce più squillante.
«Non pensare di cavartela così: vieni qui signorina, fammi vedere».
«Uff, a pa’, quanto sei bigotto!»
Giovanna rientrò in cucina e si liberò le mani lasciando il biberon vuoto dentro il lavandino e il bambino tra le braccia di Pietro. «A mezzogiorno forse è più forte Galvano, ma solo a mezzogiorno, quando è all’apice delle sue energie». Le dava gioia il fatto che Luca – a differenza di Marta e Pietro – si interessasse alla letteratura, e che già all’età di sei anni conoscesse Omero, Dante, Moby Dick e i poemi arturiani.
«Nostro figlio diventerà un nerd emarginato» l’aveva rimproverata una volta Pietro. «Andrà in giro a fingere di salvare damigelle mentre i suoi compagni di scuola si scambiano figurine di calcio. Citerà versi in latino mentre verrà pestato dai bulli della scuola». Lei era rimasta in silenzio, ma quell’immagine di un bambino che si disinteressava allo sport per giocare a sconfiggere i cavalieri della Dolorosa Guardia l’aveva riempita segretamente di orgoglio.
«Marta ha un tatuaggio? Tu ne sapevi qualcosa?» chiese lui, già conoscendo la risposta.
«Ha chiesto il permesso a me» disse Giovanna con noncuranza aprendo e chiudendo gli sportelli del ripiano alto.
«E tra Galvano e Keu?»
«Come ti è venuto in mente» sbottò Pietro, «di non dirmi niente? Questa fa il paio con la questione della notte fuori, tu li lasci liberi di fare quello che vogliono e poi sono sempre io che devo recitare la parte del poliziotto cattivo».
«Non è che devi farlo; il fatto è che… beh, un po’ lo sei» rispose la donna, infastidita da quella critica a suo dire ingiusta. «Vuoi sempre fare l’amicone dei tuoi figli ma la verità è che vuoi tenere tutti in gabbia, non li lasci mai liberi di esprimersi».
Lei si fermò, nell’attesa di una replica che non arrivava: Pietro era stato distratto da un suono, una rima, un’assonanza e aveva perso il filo del discorso. Così Giovanna ebbe il tempo di voltarsi verso Luca e dire: «Keu è scarsissimo, non ha senso metterlo a paragone con Galvano».
Un’intuizione passò per la testa di Pietro, veloce come una meteora: “Rubicone!” pensò soddisfatto. Poi, con la mente di nuovo sgombra, riprese la conversazione, poggiando con delicatezza il bambino dentro una sdraietta a dondolo lì vicina che – notò l’uomo di sfuggita – si trovava come al solito fuori posto: «Non ho niente contro i tatuaggi, ma vorrei essere avvertito, prima che si prendessero certe decisioni».
«Non hai niente contro questo e quello, però poi oggi per esempio Marta ti ha chiesto di andare a dormire da un’amica e tu subito ti sei agitato: guarda che tua figlia è grande, ha nove anni! Quanto ancora la vuoi tenere chiusa in casa?»
«Ma io non voglio tenere proprio nessuno chiuso in casa!» urlò lui, spossato, prendendo al contempo in mano le parole crociate.
«Quindi posso andare da Sara?» chiese Marta, approfittando di quel momento di caos.
Pietro non le rispose ma aprì la rivista e si mise a scrivere con bella grafia, una dopo l’altra, le lettere – r, u, b, i, c, o, n, e – che andarono formando la prima definizione azzeccata della sua vita. Pur riconoscendo che quello dell’enigmistica era un piacere infantile, non poté fare a meno di sentirsi fiero del piccolo risultato appena conseguito.
«Papà!» urlò lei, distraendolo dai suoi pensieri.
«Ma vai un po’ dove cazzo ti pare» rispose lui infastidito da quelle continue interruzioni.
«Pietro! Niente parolacce».
«E’ mai possibile che un povero Cristo non riesca a trovare nemmeno un secondo per scrivere otto lettere, otto cazzo» ripeté guardando la moglie in tono di sfida «di lettere?»
«Sei serio? Stai facendo tutto questo casino perché non ti lasciamo fare le parole crociate? Ma ti sei accorto invece che tuo figlio piange da cinque minuti? Il principino però deve fare le parole crociate, non può mica perdere tempo a tenerti in braccio cinque cazzo di minuti» sbraitò Giovanna solo apparentemente rivolta al neonato.
«Cosa si mangia stasera?» domandò Luca.
«L’ho chiesto anch’io ma i nostri genitori sono troppo impegnati a litigare per perdere tempo a nutrirci» disse polemica Marta.
«Pesce e verdura» rispose Pietro proprio mentre «Pasta» rispondeva Giovanna.

 

La telefonata arrivò il giorno dopo, appena arrivato in ufficio; lo colpì in volto come una frustata e lo lasciò stordito per il resto della sua vita.
«Pietro Massone?»
«Sono io, chi parla?»
«Mi chiamo Ernesto Levi, primario del reparto di terapia intensiva del policlinico Gemelli».
Con un riflesso automatico Pietro si alzò di scatto in piedi. Cercò di mantenere un tono neutro mentre diceva: «La ascolto».
Si percepiva, dall’altro lato del telefono, un evidente senso di disagio. Le pause, i tentennamenti, le esitazioni del primario Ernesto Levi non lasciavano presagire niente di buono, ma ancora il senso di quella chiamata rimaneva opaco. «La pioggia… il camion non ha frenato in tempo… un terribile incidente…»
«Non sto capendo niente di quello che dice: mi spieghi chiaramente cos’è successo» si ritrovò infine a pronunciare Pietro senza quasi rendersi conto dell’inflessione aggressiva che aveva appena assunto la sua voce.
Il primario inspirò e disse tutto d’un fiato: «Sono costernato nel doverle comunicare che stamattina, verso le ore 8:20, la macchina in cui viaggiavano sua moglie e i suoi tre figli è rimasta coinvolta in un grave incidente in via della Camilluccia».
«Come stanno?» quasi urlò Pietro, tanto che i suoi colleghi si fermarono a osservarlo.
«Sono stati portati subito qui, al Gemelli, ma non c’è stato niente da fare, mi dispiace davvero moltissimo».
«Mi faccia parlare con mia moglie» chiese Pietro con voce rotta. L’uomo, il primario, attese qualche secondo prima di rispondere. «Sua moglie è disgraziatamente deceduta alle 08:45 di stamattina, mentre si trovava sull’ambulanza».
Eleonora, una collega di Pietro con cui un paio di anni prima lui aveva avuto una breve storia extraconiugale, gli si avvicinò e gli cinse le spalle con un braccio. Pietro non si avvide della sua presenza ma, con l’ultimo filo di voce che gli restava, riuscì a malapena a domandare: «E i miei figli?»
«Non hanno avuto sorte migliore, mi dispiace moltissimo. Il piccolo e la grande sono mancati sul colpo, senza soffrire, se questo può esserle di un minimo di conforto. Quando l’ambulanza è giunta sul posto i medici hanno subito notato che l’altro ragazzo respirava ancora e lo hanno immediatamente portato al policlinico, ma anche lui è deceduto nel tragitto, poco prima di giungere in ospedale».
«Luca…» sussurrò Pietro.
«So che è un momento tragico, ma abbiamo bisogno della sua presenza per firmare dei documenti e per… altre procedure burocratiche» concluse dopo una breve pausa il dottor Levi, nel medesimo istante in cui Pietro si lasciò cadere a terra, in ginocchio, con la mente offuscata dall’arrivo di milioni di orribili fantasmi che vennero a mangiargli le ossa, le viscere, il cuore.

Non appena Pietro terminò di parlare con il primario, Eleonora si avventò su di lui per preservarlo – non tanto dalla caduta, che non si sarebbe potuta evitare – perlomeno dalla completa disfatta corporale, dal totale annichilimento dei sensi. Prima ancora che Pietro capisse cos’era successo si vide attorniato da colleghi, amici e, dopo un tempo che non seppe quantificare, pure dal direttore dell’azienda farmaceutica per la quale lavorava.
«è una notizia terribile, si prenda di riposo tutti i giorni di cui ha bisogno, ci mancherebbe».
«Devo finire il report…» balbettò Pietro in uno stato di semi incoscienza.
«Non si preoccupi, non si preoccupi, lo farò terminare a Federica. Ecco, si sieda qui piuttosto».
«Direttore, posso prendermi il pomeriggio libero per accompagnarlo a casa?» chiese Eleonora interponendosi in una pausa nel dialogo tra i due uomini.
«Certo, certo, mi sembra anche questa un’ottima idea» rispose il direttore, trovando così conferma ai suoi antichi sospetti che le relazioni tra i due si ramificassero ben al di là degli apparenti confini professionali.
I giorni seguenti furono caratterizzati da un enorme intrico di emozioni, richieste, persone, domande, abbracci, decisioni, telefonate, soldi e sguardi compassionevoli. Quelle ore Pietro le visse come in un sogno, contornato da figure eteree che andavano e venivano e apparivano e sparivano dicendogli cose che non udiva, senza che nulla di tutto ciò che accadeva nel mondo tangibile delle cose arrivasse davvero a scalfire l’impenetrabile corteccia di ghiaccio che era improvvisamente apparsa a ricoprire la sua anima.
Arrivò sua sorella Irene che, avvisata dalla stessa Eleonora, prese il primo treno disponibile. In seguito si materializzarono i suoi genitori e – in una sequenza cronologica che non gli fu possibile stabilire con certezza – passarono a trovarlo amici, familiari, amici di amici, conoscenti e semi sconosciuti che in modo del tutto casuale facevano o avevano in passato fatto parte, da vicino o da lontano, della sua vita.
Mentre Pietro sedeva attonito sul divano, attorniato da un indecifrabile andirivieni di persone che gli parlavano e forse si aspettavano sue reazioni in risposta, vide le parole crociate di cui la sera precedente era riuscito a trovare un’unica definizione. Con un gesto lento ma risoluto afferrò la rivista e ne sfogliò delicatamente le pagine fino a ritrovarsi di fronte al noto cruciverba.
Nove orizzontale, quattro lettere, “La prima si paga al momento dell’acquisto”. Pietro non ebbe nemmeno il tempo di formulare nella propria testa il concetto di “rata” che fu stretto in una morsa composta da due abbracci simultanei da parte delle sue cugine Flavia e Caterina le quali, piangendo a dirotto, continuavano a ripetere che era terribile, una disgrazia senza pari, e che non vi era alcuna vergogna nel dare sfogo a tutta la rabbia e al dolore che, erano certe, lui stava in quel preciso momento sperimentando.
Irene si avvicinò titubante al terzetto ancora avviluppato. «Sticcio» cominciò, chiamandolo con il soprannome che gli aveva affettuosamente attribuito quando erano bambini, «so che non è semplice ma… c’è qui il rappresentante dell’agenzia funebre, vorrebbe parlare con te». E, vedendo che suo fratello non diceva nulla, si affettò ad aggiungere: «Posso sempre dirgli di ritornare più tardi, se preferisci».
Prima che Pietro avesse il tempo di rispondere, l’uomo si sentì autorizzato a procedere, elegante ma sobrio, verso di lui. Quando gli si trovò di fronte disse con un garbo accuratamente calcolato: «So che è orribile dover pensare a certe cose in tali frangenti, ma avrei bisogno della sua approvazione per una serie di disposizioni pratiche. Signor Massone, se la sentirebbe di dedicarmi dieci minuti del suo tempo?»
Benché impercettibile, il gesto di assenso dell’interlocutore diede l’avvio alla procedura. Così Pietro passò i successivi quaranta minuti a discutere di bare, tipologie di legno, fiori e urne cinerarie, e furono quaranta minuti in cui – come se non bastasse – ogni singola decisione era accompagnata da un’accurata traduzione in euro. Né lui né sua moglie erano mai stati ricchi, ma solo in quel momento si rese conto che quattro funerali erano una spesa che non si poteva permettere di affrontare. Tuttavia continuava a non capire niente di quanto gli veniva detto, per cui acconsentì a tutte le soluzioni che l’uomo in giacca e camicia gli propose.
La sera lo colse impreparato. La maggior parte delle persone che erano passate a fargli visita uscirono insieme, di colpo, quasi come se si fossero messe d’accordo con un semplice gesto d’intesa che non prevedeva interazioni verbali. Irene invece restò a casa, proprio come gli aveva promesso, e gli preparò con amorevole dedizione una cena a base di pasta alle vongole e straccetti di carne di cui Pietro a malapena riuscì a mandare giù un paio di bocconi.
Mentre la donna sparecchiava, lui si alzò con discrezione per avviarsi verso il divano. Il telefono squillò proprio mentre si accingeva a vergare in lettere stampatelle la seconda parola che andava a comporre il suo cruciverba, rata, parola che gli era balenata in mente durante un racconto di mutui a tasso variabile che sua sorella gli aveva narrato durante la cena.
«Ciao mamma, che c’è ancora? Ci siamo salutati due ore fa» disse Pietro rispondendo al telefono.
«Volevo essere sicura che stavi bene. Stai bene, vero?»
«Sì, non ti preoccupare. E poi c’è Irene qui con me».
«Questo mi rassicura. Ti ha preparato la cena? Cosa avete mangiato?»
«Pasta al sugo e hamburger» rispose lui di getto, affinché la madre non sospettasse che il figlio, di quanto avevano mangiato a cena, non ricordava assolutamente nulla.
«Ti ho lasciato nel frigo una torta. Non l’ho fatta io, non ho avuto tempo, ma l’ho comprata alla pasticceria sotto casa vostra, quella vicina al fioraio, che piace tanto a… cioè, volevo dire…»
«Ho capito di quale pasticceria parli» tagliò corto lui per toglierla dall’imbarazzo. «Va bene, grazie, domani a colazione la mangeremo. Ora vorrei andare a riposarmi».
«Certo, fai benissimo. Dormi bene, lo so che non è facile ma devi provarci, mi prometti che ci proverai?»
«Lo prometto. Ciao, ma’» disse, e attaccò.
«Chi era?» urlò Irene dalla cucina mentre finiva di lavare i piatti.
«Niente, niente. Era mamma, voleva sapere come stavo».
«Le hai detto che, poco dopo che è andata via, è passato anche zio Felice?»
«Mi sono dimenticato».
«Dovresti richiamarla. Penso che le farebbe piacere saperlo».
«Diglielo tu, se vuoi» rispose lui stanco. Proprio in quell’istante suonò il citofono e Pietro, ancora prima di aprire la porta, si sentì schiacciato dal peso delle relazioni sociali che lo stritolavano, lo disossavano e non gli davano modo di respirare.
«Lucio, grazie di essere passato» disse meccanicamente.
Altre mani, altre braccia lo cinsero con affetto e compunzione. «è una tragedia, dio, come farai, Pietro, ad affrontare i prossimi giorni?»
«Ciao Lucio» disse fredda Irene entrando in salotto.
«Irene, anche tu sei qui?» chiese Lucio ancora più freddo, ritraendosi di un passo verso la porta. «Cioè, certo che sei qui, scusami. Solo, non mi aspettavo di trovarti a quest’ora».
«In effetti è tardi per le visite» rispose lei con un tono di voce che in pochi secondi era passato dal freddo al gelido.
Lucio ignorò la frase polemica e restò altri minuti, quanto bastò affinché i due si dimenticassero del motivo della loro presenza in quella casa e prendessero a battibeccare come ai vecchi tempi, come negli ultimi anni del loro matrimonio. Pietro non se ne dispiacque, ma sfruttò gli antichi rancori per prendere le parole crociate e sgattaiolare in camera.
Chiuse la porta, si stese sul letto e lesse un’ulteriore definizione – tre verticale, undici lettere, “Un monaco di Montecassino” – prima di farsi prendere dai sensi di colpa. Era giunto il momento che aveva posticipato per tutta la giornata, ma adesso non poteva più rinviare. Si fece forza e accese il telefono, aprì whatsapp e iniziò a rispondere alle decine di messaggi che gli erano arrivati, alcuni convenzionali altri personali, alcuni insulsi altri commoventi, alcuni lunghi altri incredibilmente brevi, nulla più di un “ti penso”, “ti mando un grandissimo abbraccio”, persino un messaggio composto solo da un cuore che batteva, a indicare che in fondo non esistevano parole per descrivere ciò che era successo.
Quando ormai aveva risposto a circa tre quarti dei messaggi, ancora vestito, con la luce accesa e il cruciverba appoggiato sulle ginocchia, si addormentò.

 

Il funerale era stato fissato al sabato, la camera ardente giovedì e venerdì pomeriggio. Il giorno seguente era dunque teoricamente libero da impegni sociali. «Non so davvero cosa dire, non ci sono parole quando accadono disgrazie come questa» commentò Elisa introducendosi in casa sua alle nove di mattina con una teglia di cannelloni.
Si sistemarono in salotto a parlare e per fortuna di lì a poco giunse Irene che, lanciando un’occhiataccia al fratello che, per quanto addolorato, era comunque tenuto a rispettare i protocolli minimi del vivere civile, chiese subito: «Cara, vuoi un caffè?»
“Un caffè” ripeté nella sua testa Pietro poi, mentre Elisa consolava Irene che nel frattempo si era messa a piangere, fu come se la sua anima si staccasse dal corpo e iniziasse a librarsi al centro della stanza: vide sé stesso seduto sulla poltrona con una tazza in mano – vuota? piena? non riuscì a capirlo, le anime vedono tutto un po’ sfocato – che ticchettava con le dita sul tavolino. Vide frammenti della sua vita passata che si sovrapponevano a immagini della sua vita futura perché, quando non sono incastonate nella materia, le anime possono raggiungere velocità molto più elevate di quella della luce e andare avanti e indietro nel tempo. «Avrai bisogno di un aiuto in questi giorni, chiamami, sono a disposizione per qualsiasi cosa». Pietro non rispose, per cui Elisa insistette: «Dico davvero! Non ti fare scrupoli».
«Grazie, sei molto gentile» si limitò a dire lui, il cui soffio vitale era stato bruscamente richiamato all’interno del proprio involucro corporeo.
Suonò il telefono, arrivò un messaggio, citofonarono alla porta. Non aveva avuto ancora il tempo di farsi una doccia ma non era un problema, perché tutti quelli che venivano a trovarlo trovavano perfettamente comprensibile che non si fosse lavato e che li ricevesse in pigiama, povero, dopo quella terribile disgrazia. A mezzogiorno arrivò di nuovo il rappresentante dell’agenzia funebre, avevano fissato un appuntamento, Pietro non se ne ricordava?
No, Pietro non se ne ricordava.
«Ci mancherebbe, nella sua situazione ha tutto il diritto di dimenticarsi di segnare gli appuntamenti in agenda» rispose l’uomo tirando fuori un documento, poi un altro, poi un altro ancora, poi così tanti fogli che la stanza cominciò a riempirsi di carta fino al punto in cui Pietro quasi soffocò sotto il peso di un’infinita burocrazia asettica e inadeguata a rispettare il dolore vero, profondo che si cela negli abissi più remoti dell’essere umano. «Una firma qui e – sempre se è d’accordo con la proposta – una firma anche qui, prego».
Irene, Elisa, Lucio.
Eleonora e il Direttore.
Il dottor Levi, il dottor Levi, Ernesto Levi, primario del reparto di terapia intensiva del policlinico Gemelli.
Pietro accese la televisione, tramortito dalla mole di persone che si sentivano in dovere di esigere una porzione della sua più intima sofferenza. Al telegiornale si parlava di politica ma lui non riuscì a seguire il filo del discorso, colse solo le parole Luca, incidente, camion, Camilluccia, nulla da fare. Nulla da fare. Marta, Giovanna. Tra Lancillotto e Galvano chi è il più forte?
E tra Lancillotto e Keu?
«Mamma, che ci fai qui?» chiese Irene. «Non avevamo detto che—»
“Ieri Marta sarebbe dovuta andare a dormire dalla sua amica!” balenò all’improvviso nella mente di Pietro. “Qualcuno l’avrà avvisata? Qualcuno le avrà detto quello che è successo? Spero che non avrà passato tutta la sera ad aspettarla invano”.
«Oh, figlia mia, non credere che per me sia facile! Perdere così una nuora e soprattutto tre nipoti, tre! Di colpo, senza alcun preavviso» singhiozzò la mamma scoppiando in lacrime. Irene la avvolse in un tenero abbraccio mentre Pietro le osservava da lontano, distaccato, e intanto stringeva la mano a tutta la gente che entrava all’interno della camera ardente – è già giovedì? com’è successo che siamo già a giovedì? dov’è finita mamma? – vestita con abiti di differenti tonalità di blu, marrone, grigio e anche, a volte, bianco. Ma mai colori sgargianti. Sfumature di giallo, rosso, verde e arancione erano bandite, in occasioni come quella.
Le quattro bare – una grande, due intermedie e una piccolissima, come il mignolo di un bambino – troneggiavano al centro della camera.
Pietro era ossessionato dalla definizione che aveva letto poco prima di uscire di casa, sette orizzontale, sette lettere, “Il regista de Il labirinto del fauno”, si ricordava benissimo il film, lo aveva visto forse anche due volte, «Grazie, davvero, grazie, mi fa piacere che siate venuti» e soprattutto ormai era una questione di principio, com’era possibile che nemmeno adesso che tutto il suo passato, tutti i suoi affetti erano svaniti in una bolla di sapone, nemmeno ora lui avesse il tempo di completare un cazzo di cruciverba?
«A Prima Porta, sì. No, credo che al Verano non ci sia più posto da vent’anni, infatti».
Aveva come una vaga sensazione di avere fatto progressi negli ultimi due giorni ma non ne era sicuro, non era più sicuro di niente, gli sembrava di aver trovato alcune soluzioni facili, “Un uomo che non si è sposato”, celibe, lo sapevano tutti; “Una parte della capitale ungherese”, o Buda o Pest, non vi erano alternative, ma la seconda lettera era una e. «Arrivederci, mi ha fatto molto piacere, certo, ci vediamo sabato»; “Case signorili plurifamiliari”, palazzine, questa l’aveva capita solo incrociandola con un altro paio di definizioni già indovinate.
La madre gli prese la mano. «Guarda chi è venuto, Giovanna non gli parlava da dieci anni, con che coraggio si presenta qui?»
Iñárritu! Eccolo, il regista il cui nome gli sfuggiva, sette lettere, sì, era lui. Appena sarebbe rientrato a casa lo avrebbe subito annotato, «è dura, sì, ma ho molta gente che mi sta accanto, per fortuna sono circondato da persone che mi vogliono bene».
«Una vera fortuna».
«Un regalo del cielo».
«Ci vediamo domani».
«Come ‘domani’? No, ti sbagli, la cerimonia è sabato. Cosa? Domani è già sabato? Come dici? Oggi è venerdì? Ah, certo, è venerdì, che sciocco. Ci vediamo domani allora».
In effetti stavolta gli invitati erano tutti vestiti di nero, e piccoli demoni dell’inferno volavano sulle loro teste come macabri avvoltoi, per cui doveva effettivamente essere arrivato il giorno del funerale. Gli spiritelli malefici saltavano da una spalla all’altra come scimmie invasate a cui non erano state impartite le buone maniere, quando il sacerdote fece il suo ingresso ed essi sparirono veloci come erano arrivati.
Non era Iñárritu perché la terza lettera doveva essere una l. Allora chi era il misterioso regista? Non poteva controllare su internet, non sarebbe stato deontologico, né poteva chiedere in giro, a chi avrebbe potuto porre una domanda del genere, in chiesa, in un tale momento? Sua sorella gli appoggiò la testa sulla spalla, lui le passò una mano tra i lunghi capelli neri simulando una sorta di carezza, si sentivano nasi smocciolare dentro fazzoletti di stoffa e occhi lacrimare dentro fazzoletti di cotone.
Guillermo del Toro, e che cazzo, finalmente.
Senza farsi vedere tirò fuori dalla tasca la rivista che, dopo un istante di indecisione, quella mattina aveva preso con sé e con aria disinvolta gravò, una dopo l’altra, le sette lettere del cognome, senza bisogno di lasciare spazi bianchi perché nei cruciverba, aveva scoperto da poco e per via empirica, gli spazi non contano.
Nessuno lo vide, forse.
O se qualcuno lo vide, non disse nulla, il che fu per lui sufficiente.
O forse solo credette di prendere la rivista e scriverci sopra un nome, ma non lo fece, non fece nulla da quando quel giorno aveva ricevuto una telefonata.
Il prete alzò l’ostia al cielo e il pane divenne il corpo di Cristo mentre diavoli sempre più inferociti si contorcevano e si dimenavano strappandosi la pelle a morsi per il dolore immenso che provavano alla vista del dio che li aveva relegati giù nell’inferno, una donna si accostò a lui e gli confidò di essere Anna Maria, la collega di Giovanna di cui probabilmente Pietro aveva già sentito parlare, lui disse di sì e accettò le condoglianze, indeciso su come proseguire la conversazione, poi si voltò e vide – non se ne era reso conto fino a quel momento – la chiesa gremita di bambini di ogni sesso e età, ma soprattutto di sei e nove anni, un accumulo di seenni e novenni spropositato per un luogo come quello, forse la loro presenza – pensò – era l’unico motivo per cui i demoni erano rimasti in un angolo, spaventati da tanta purezza, e non erano scesi a mangiarselo vivo, partendo dai capelli e rosicchiando via via la testa, il cervello, la lingua, l’esofago, i polmoni, il cuore, l’intestino e il fegato, fino a farne ossa, cenere, polvere, morte.
L’auto nera lo trasportò al cimitero nero dove nere persone gli dissero parole nere che non udì, Irene era costernata, «Sei sicuro?» gli chiese, «Certo» rispose lui senza sapere a cosa lei alludesse, «Sono costernata, Matteo si è sentito male e devo rientrare a Milano», «Starò bene», «Davvero?», «Davvero».
Davvero.
«Se hai bisogno chiamami, va bene?»
«Va bene».
Non va bene per un cazzo, non va bene.
Per un cazzo.
Il sole stava terminando la sua parabola discendente quando l’ultimo degli invitati – un uomo di cui stranamente non aveva mai sentito parlare – lasciò il cimitero e lui si ritrovò insieme a Francesco che gli aveva promesso che lo avrebbe riaccompagnato a casa.
«Vuoi stare qualche minuto da solo?» gli chiese con tatto.
«No, andiamo».
Pietro salutò Francesco con insistenza davanti alla porta di casa. L’amico voleva entrare ma lui era ormai arrivato al limite estremo della sua capacità di sopportazione: la gente le lacrime il rumore il pianto l’empatia, tutto lo irritava fino al parossismo.
Chiuse la porta alle sue spalle, era dentro. E il mondo era fuori.
La casa era, per la prima volta da cinque giorni – per la prima volta da nove anni – silenziosa, quieta, immobile.
Non una voce venne a disturbarlo mentre si toglieva la giacca e la posava con ostentata lentezza sopra l’appendiabiti.
Non un aereo venne a bombardarlo.
Era solo, finalmente e disperatamente solo.
Si avviò verso il divano, si sedette e prese la copia de “La settimana enigmistica” di cui era quasi riuscito a completare un intero cruciverba.
Aprì la rivista e – teso l’orecchio, invano, per sentire se qualcuno lo chiamava, se qualcuno aveva bisogno di lui – posò lo sguardo su una delle ultime definizioni rimaste incomplete. Quattro verticale, sei lettere, finisce con tu.
Restò ancora qualche secondo con gli occhi fissi sulla pagina in completo silenzio, prima di esplodere all’improvviso in un pianto inarrestabile, inesprimibile, inconsolabile.

(L’immagine è opera di Ana Estrada)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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