Un’estate con Manzoni #4 — Le relazioni

David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima, la seconda e la terza puntata.]

 

di Marco Viscardi

I Promessi sposi, capitolo XVII : le relazioni

Insomma, la storia è nota: i due fidanzati tentano di sorprendere il parroco per farsi sposare, ma don Abbondio ha un guizzo, capisce tutto e manda all’aria i piani. Nel frattempo, gli uomini di don Rodrigo tentano di rapire Lucia, senza riuscirci. Tira una pessima aria e fra’ Cristoforo organizza l’allontanamento dei Promessi dal paese. Con loro, anche Agnese, la madre di Lucia. Le due donne andranno a ripararsi dalle suore, mentre Renzo deve riparare in un convento di frati a Milano. Quest’ultimo arriva, però, in una città in rivolta, si implica negli avvenimenti, viene preso per un pericoloso capopopolo, ma sfugge con destrezza all’arresto. L’unica possibilità di salvezza è oltre confine, negli stati veneti, sotto la bandiera di San Marco. Bisogna trovare l’Adda, attraversarlo clandestinamente e nottetempo. «Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò», dice il filatore, e quell’espressione – cammina, cammina – resta attaccata alla penna del narratore, che continua ad usarla.

‘Cammina, cammina’, come nelle favole notturne, quando i personaggi bambini si perdono nel bosco e non sanno trovare la via del ritorno. ‘Cammina, cammina’ è un punto di vista in movimento: ad ogni passo, il mondo si fa e disfa sotto gli occhi del protagonista che, come noi, non sa nulla di quello che ha davanti. Sembra, a una lettura superficiale, che Manzoni stia sminuendo Renzo, riportandolo alle sue angosce infantili. Ma Renzo non è un bambino e il narratore sta portando in superficie le paure profonde dell’anima, quelle che nascono da ciò che non conosciamo. La notte, il regno dei morti, il silenzio, le ombre. Tutto ciò che il mondo diurno non comprende e non spiega.

Renzo si sta dunque allontanando dal mondo umano e tutto attorno a lui si fa sinistro.

Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse.

Renzo sprofonda in una dimensione nella quale le cose gli sono familiari e ostili allo stesso tempo. Il paesaggio si rivela ai suoi occhi in inquietanti figure antropomorfe. Stiamo scivolando in quello che Freud, in suo famoso saggio, aveva chiamato Unheimliche, termine che in genere viene tradotto come ‘perturbante’, ma che significa qualcosa di differente. Unheimliche è letteralmente il non-familiare, il non consueto: il noto che mostra, come nel delirio della febbre, il suo lato sinistro, spaesante. Il corpo stanco si appesantisce, il torpore fa nascere visioni assurde nel cervello sconfortato. Renzo è in abito da sposo. Si muove in quella landa inumana, col vestito delle feste, quello scomodo, inospitale. Lui stesso è uno spettro: il fantasma della vita felice che non si è avverata.

Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse.
Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore
.

Durante tutta la sua parabola di ribelle, Renzo si è isolato sempre di più dal consorzio degli uomini, si è dato alla macchia, affidando al bosco e alla foresta il procedere della fuga. Si è fatto proteggere dagli stessi spazi nei quali gli animali trovano cibo e riparo. Ma ora che ha richiamato a sé stesso il vero Renzo, l’uomo si è riconciliato con sé stesso. Manzoni, per un attimo, sembra prendere la penna di Tasso e, dopo avergli fatto attraversare gli spazi della fiaba, porta Renzo nel territorio dell’epica. Ma di un’epica tormentata, drammatica, nella quale i personaggi conoscono l’amarezza della sconfitta, il disorientamento del venire meno e l’obbligo di ritrovarsi dopo la perdita. Così Renzo, per un attimo, si sovrappone a Tancredi, il cavaliere innamorato, l’uomo sottomesso alla passione che pure è chiamato a dominarsi, a compiere una missione. Renzo deve ricompattarsi, impedire alla disperazione di prendere il sopravvento, mantenere l’unità dell’anima e della volontà, senza scomporsi in mille frammenti contraddittori, senza cedere all’angoscia di un mondo insensato, stordito dalla paura.

La voce dell’Adda è la voce di un mondo, di una civiltà. Il mondo degli affetti, delle persone, dei volti concreti. Nella bellezza lirica dell’addio ai monti, Lucia aveva rimpianto lo spazio natio, descrivendolo come luogo della distinzione, del riconoscimento. Ogni cima, ogni torrente, ogni casa è da sempre nota, da sempre ha un suo significato. Mentre nell’ostile universo verso cui erano diretti, tutto era sconosciuto, ma perversamente omologato e indistinto, lì dove «le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade» danno il senso della nausea della ripetizione infernale, e gli enigmatici «edifizi ammirati dallo straniero» affaticano la vista, sforzandola a comprendere fasti e ornamenti innaturali. L’Adda era passato accanto a quel nido lontano: le acque, che Renzo ora sente nel silenzio notturno, hanno già toccato i luoghi delle origini. Per questo gli parlano e per questo lui può ascoltarle solo nel momento della riconciliazione.

Appunto, quel fiume è il suono di un mondo intero, un mondo che ora si stava smembrando, dove ciascuno era vissuto all’interno di una trama fitta di relazioni.

Se c’è qualcosa che il romanzo ottocentesco insegna, quasi un suo messaggio nella bottiglia, è che ogni vita conta. Ogni singola vita conta, e per ciascuna esiste un luogo, ma nessuna può vivere isolata. Il romanzo realista borghese racconta sempre una collettività, una comunità immaginata, spesso in acceso contrasto, dominata da logiche ferine. Italo Calvino ha definito I Promessi Sposi come il romanzo dei rapporti di forza: il romanzo dei grandi corpi sociali (l’Aristocrazia, il Clero, i Mercanti, etc.) e della loro continua tensione, sempre sull’orlo di uno scontro. Un mondo di corporazioni, più che di corpi: corpaccioni sociali che tentano in ogni modo di difendere i loro interessi.

Indimenticabile l’episodio del colloquio fra il Conte Zio e il Padre Provinciale, entrambi apicali, l’uno nella società dei nobili, l’altro nel mondo dei cappuccini. «Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte». Due poteri vecchi, consumati, scaltri. Due abili simulatori. Si dovrebbe leggere questa pagina con una scena del Don Carlo verdiano in sottofondo. Quella del colloquio fra il Re di Spagna Filippo II e il Grande inquisitore. La musica striscia, è sinuosa, viene da profondità sconosciute. È musica buia, senza aspirazione, senza domande. Un labirinto di suoni che ricorda l’andamento del serpente. Ma se Verdi racconta la violenza del potere col coraggio di guardare l’abisso, Manzoni ha abiurato alla tragedia, la sua parola è sempre ironica, straniante, grottesca.

Come grotteschi appaiono questi personaggi nelle vignette di Gonin. Teste deformi, gesti cerimoniosi, scarpe e piedi. Cervelli scaltrissimi, abilità simulatorie e dissimulatorie, ma corpi devastati, infelici, oppressi dall’esercizio del potere.

Se guardiamo solo le mani, staccandole dall’insieme della scena, sembrano mani di innamorati che stanno finalmente per toccarsi la prima volta. In quella presa si sancisce un patto fra potentati, e a farne le spese sarà fra’ Cristoforo, mandato via dalle terre di Rodrigo, a Rimini, e nel Fermo e Lucia addirittura a Palermo.

Nel Discorso sulla storia longobardica in Italia, Manzoni dice che la società è «quello stato così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori». In un mondo irredento, la vita collettiva non è mai pacificata, ma gli uomini vivono dentro un’interminabile lotta per la sopravvivenza, nella quale la loro natura associativa li spinge a coalizzarsi per non soccombere.

L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sè, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità.

Ne esce un maledetto imbroglio. Questa pagina del primo capitolo è quasi una desolata anti-Ginestra. Nel grande canto leopardiano leggiamo l’utopia dell’umanità compatta e pacificata; qui invece gli uomini si aggregano per tutelare il loro egoismo. Per tutto l’Ottocento, il secolo del barocco è stato considerato un’onta nazionale: l’età del servilismo compiaciuto verso lo straniero, del cattivo gusto nelle arti (e nel dire questo, non sapevano cosa si perdevano), della povertà economica e morale (anche se il ducato di Milano era la parte più ricca dei possedimenti spagnoli.). Guardare questa aberrazione, come fa Manzoni, vuol dire guardare alla radice della nazione, alla sua crisi insanabile, la ferita immedicabile.

Un romanzo sulle nostre vergogne, ma anche una storia in cui si mostra come gli uomini reagiscono ad un male diffuso, atmosferico. A come si possa praticare il bene in un cosmo ordinato al male. Allora, se i grandi si coalizzano spesso in base a logiche di interessi, a relazioni di potere, gli altri, la gente di nessuno, si legano con vincoli di amicizia e di aiuto reciproco. Lucia, dopo essere stata liberata dall’innominato convertito, trova una rete di protettori, anche se sgangherati, come donna Prassede e don Ferrante; quando Agnese ha bisogno di comunicare con Renzo trova chi può scrivere per lei; gli appestati a Milano non conoscono solo la violenza dei monatti, ma anche la sincera carità dei religiosi. Renzo è al centro di una rete di amicizie importanti. C’è il cugino Bortolo a Bergamo, ma anche Tonio e Gervasio, con la loro parabola. Tonio, all’inizio della storia, è il savio, mentre Gervasio lo scemo del paese, ma poi la peste fa saltare il banco e troviamo Tonio instupidito come Gervasio, il mondo travolto. E fra le macerie del piccolo mondo antico, reso irriconoscibile dalla peste e dalla guerra, Renzo incontra quel magnifico personaggio che Manzoni chiama semplicemente l’Amico:

L’amico era sull’uscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: – non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di misericordia. Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.

– Renzo….! – disse quello, esclamando insieme e interrogando.

– Proprio, – disse Renzo; e si corsero incontro.

– Sei proprio tu! – disse l’amico, quando furon vicini:

– oh che gusto ho di vederti! Chi l’avrebbe pensato? T’avevo preso per Paolin de’ morti, che vien sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!

Manganelli ha detto che l’unico fra gli scrittori italiani che si possa paragonare ai Russi è Manzoni. Manzoni che in poche parole crea uno spazio. Un mondo. L’Amico sta sulla soglia: è non-morto in un paese devastato, inacidito e reso scontroso da quello che ha visto, dalla routine del dolore a cui ha partecipato. Le sue prime parole sono insofferenti: teme di essere di nuovo chiamato al rito della sepoltura da Paolin de’ Morti. Chi sia questo Paolino non lo sappiamo, è il becchino? Lo era prima della peste? È sopravvissuto? Non sappiamo nulla, ma siamo catapultati in una quotidianità scandita dal rapporto coi cadaveri. Seppellire i morti è il fondamento della civiltà, ma in tempi di epidemia diventa un atto meccanico, irriflessivo, freddo. L’amico si è isolato. Solo, solo, solo – lo scandisce tre volte, come una ossessione. È un eremita fra le macerie, e il destino gli ha riportato il compagno di un’età che si credeva spenta per sempre. L’apparizione di Renzo è per lui l’arrivo di un amico, di un fratello, di un salvatore! L’amico passa il suo confine e torna alla vita reale, al cibo, alle relazioni. Quella che credeva essere la morte definitiva delle cose, era solo una stagione del mondo. Ora le cose si rimettono in cammino.

Soundtrack -> Henry Purcell, Music for a While, 1692

 

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1 commento

  1. La notte di Renzo lungo l’Adda è anche la notte di un tormentoso mutamento. Dopo i moti rivoluzionari di Milano, Renzo corre il rischio, e con lui Manzoni, di trovarsi dalle parti degli umili e oppressi per guidarli alla rivoluzione (Villari parla apertamente di rivoluzione commentando la rivolta del pane), di perdere se stesso, il sè timorato di Dio e al più tendente all’ira. Renzo avverte il pericolo e durante la notte sviluppa deliroidi e immagini allucinatorie. Il segno di un dissidio e di un’angoscia. La voce dell’Adda è la risposta del noto che lo tranquillizza. Renzo non sarà mai un rivoluzionario. Diverrà infatti un piccolo padrone

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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