Modalità lettura decontestualizzata
di Mauro Baldrati
L’inizio dell’ultimo, atteso romanzo di Niccolò Ammaniti, è faticoso. Non per la scrittura, di cui l’autore è un grande professionista e un esperto timoniere, ma per la domanda che sorge già dalle prime pagine: Perché? Un’altra, ennesima storia ambientata nel mondo dell’alta borghesia, coi suoi abissi infestati da topi e scorpioni, dove veli polverosi nascondono alla meno peggio miseria e solitudine, noia e incomunicabilità? Scriveva Silvia Plath nel romanzo La campana di vetro (1963): “Queste ragazze avevano tutte l’aria annoiata. Le vedevo nei solarium, che sbadigliavano e si laccavano le unghie mentre prendevano il sole per mantenere la tintarella delle Bermuda, e mi sembravano annoiate a morte. Scambiai due chiacchiere con una di loro: era stufa di yacht, stufa di girare il mondo in aeroplano, stufa di andare a sciare in Svizzera per Natale, stufa degli uomini del Brasile.” Sono passati sessant’anni e stiamo ancora celebrando il vuoto emozionale e la tristezza dei ricchi privilegiati? Siam sempre qui, con l’aria annoiata e anche un po’ arrabbiata?
Per cui, se non vogliamo abbandonare l’opera, dobbiamo attivare la cosiddetta “lettura decontestualizzata”. E’ una tecnica che richiede un discreto senso dell’umorismo e una sufficiente capacità di distacco dalle cose. Ci permette di goderci certe opere, soprattutto di genere thriller, dove i buoni sono gli agenti della CIA o del Mossad che combattono, come antichi cavalieri alla ricerca del Graal, contro i feroci terroristi islamici, votati solo al massacro. Sappiamo che qualcosa non va, ma gli autori hanno realizzato un prodotto perfetto dal punto di vista della vicenda – sbagliata in sé, ma sviluppata con stile inappuntabile – degli ambienti, dei personaggi, della fotografia.
Dunque partiamo, anche perché conosciamo il talento dell’autore, tornato sulla scena dopo otto anni di silenzio – forse di ricarica? – e lo seguiamo mentre, con pazienza e cura dei dettagli, ricama il grande tappeto su cui si muoveranno i personaggi. Potremmo forse dire il personaggio, perché la regina è lei, Maria Cristina Palma, la moglie del presidente del Consiglio, e tutti gli altri sono al suo servizio. La sua corte è fatta di segretarie, l’assistente tuttofare, il preparatore atletico, l’esperto di look, e la scorta, il mitico servizio segreto che tanti registi ci hanno raccontato quando ricreano l’ambiente della casa Bianca. E’ “la moglie di”, per cui ogni suo gesto, ogni pettinatura, ogni posa, ogni sorriso deve essere accuratamente tenuto sotto controllo, perché potrebbe riverberarsi sul personaggio pubblico del marito, e quindi sulla tenuta del governo. Così come ogni spostamento deve essere pianificato, per cui l’entrata in un nuovo locale deve sempre essere preceduto da un sopralluogo e così via. Una routine che forse farà sognare i più, ma non esente da una certa inquietudine.
La vita della “moglie di” è piatta, nel lusso e nella mancanza di tensione, che la protagonista accetta di buon grado, fedele, in fondo al suo ruolo. Per certi versi ricorda il bel film Spencer, interpretato dall’attrice Kristen Stewart, ed è a lei che pensiamo mentre la seguiamo nei suoi riti, nel suo scorrere lungo il desolation row, proprio come Ophelia, della quale “il suo peccato è la mancanza di vita”. Ammanniti la fa muovere nello spazio, con garbo, e con affetto, animandola come un costoso, fragile e un po’ triste avatar. Maria Cristina è anche “la donna più bella del mondo”, secondo uno studio filologico internazionale che ne ha analizzato le misure, i rapporti tra le diverse linee, dei piedi, delle braccia, delle gambe. L’autore regge con la mano ferma di un esperto regista il variegato popolo dei personaggi, restituendo ad ognuno la sua “cifra” esistenziale, il suo ruolo e i suoi tic. Domenico, il marito, il Premier, c’è e non c’è, spesso in viaggio o in riunione, è affettuoso ma sfuggente, debole, probabilmente adultero, calato completamente nel suo ruolo. Per esempio, quando Maria Cristina, ubriaca, si rifugia in un wc per vomitare, entra l’assistente personale, Caterina, in compagnia della fidanzata. Le due donne parlano, o meglio, spettegolano, e Caterina definisce Maria Cristina una donna frivola, vuota e anche un po’ stupida. Furiosa, chiede al marito di licenziarla immediatamente. E Domenico fa: “Licenziarla? Scherzi? Bisogna promuoverla!” Maria Cristina, sbalordita, chiede chiarimenti. Non si può assolutamente licenziarla, conosce molti segreti imbarazzanti che potrebbe rivelare alla stampa per vendetta. E mettere in pericolo il suo ruolo di Premier e quindi la stabilità del paese e così via. Oppure certi caratteristi che compaiono per singole parti nella fantasiosa, ma mai fuori controllo folla che costituisce il mondo di Maria Cristina: un ministro belga, che, entusiasta di conoscere la donna più bella del mondo, vuole assaggiare la famosa “pizza beneventana” preparata da lei, che peraltro non esiste. E qui il lettore esigente si chiede come farà Ammaniti a non deluderlo, creando un personaggio non stereotipato. Risposta automatica: il talento del nostro autore ricorda il grande Tom Wolfe (1930 – 2018), impareggiabile navigatore negli oceani letterari popolati da delfini, squali, polipi, cavallucci marini, coralli, murene, pesci palla, per i quali ha sempre una scheda pronta per l’uso. Con poche, geniali pennellate ci restituisce un barbaro del nord, discendente da quei cacciatori vestiti di pelli, pidocchiosi, crapuloni e scorreggioni, mentre da noi, dopo avere avuto i filosofi greci, erano saliti alla ribalta i romani, con le terme, il diritto, le strade e gli acquedotti (e anche il feroce imperialismo, ma siamo in modalità decontestualizzata, non dimentichiamolo).
A questo punto Ammaniti ci conduce verso la svolta, quando la temperatura narrativa si alza e noi, ormai invischiati nella tela, non possiamo più divincolarci. Ecco allora che fanno il loro ingresso due eventi, che d’ora in poi domineranno la cosiddetta “narrazione” con le loro radiazioni minacciose: una pressante proposta di intervista da parte della più famosa anchor woman italiana, un combinato chimico tra Lilly Gruber e Serena Bortone, e un terribile video porno spedito da un vecchio amico e amante. Forse per ricatto? Soprattutto questo evento deflagrante manda in paranoia Maria Cristina, ma è anche il grimaldello che scardina l’impalcatura della noia, dell’inutilità e della sconfitta.
Mentre, come il metrò letterario di Céline che corre lungo il tunnel, avanziamo senza più ostacoli, guidati da quel guru dello stile che è l’autore, ci chiediamo come diavolo potrà terminare questo viaggio al termine del vuoto. Tutte le mattonelle sembrano andare al loro posto, ma come riuscirà la nostra guida a dirimere l’intrico velenoso del video? Passiamo in rassegna tutte le possibili opzioni, ma nessuna ci soddisfa. Ognuna sembra un ripiego, una caduta di tensione.
Tranqui. E’ di un Antonio Pigafetta della scrittura che stiamo parlando. Il finale è solo un tantino inverosimile, ma gli serve per confezionare la giusta svolta, forse il colpo di scena che nessuno potrà trovare deludente. E dopo aver letto le ultime parole, che sono “giù, verso il mare”, chiudiamo il libro.
Mentre assaporiamo il piacevole stato d’animo che segue la lettura di un testo pieno, avvincente, con personaggi vivi e rilassate descrizioni di albe e tramonti e paesaggi, ricominciamo a pensare: “Ma santo cielo, sempre con ‘ste storie interne all’alta borghesia? Ma non sarebbe ora di emanciparsi, e praticare la letteratura come rappresentazione del conflitto sociale, della vita vera?”
Ma ormai è tardi, e abbiamo chiuso la modalità “lettura decontestualizzata”. Siamo out.
Ho comperato ieri il libro……..