Dallo Zoo all’Aldilà

di Romano A. Fiocchi

Ezio Sinigaglia, Sillabario all’incontrario, TerraRossa Edizioni.

Se ci sediamo a un pianoforte, quasi tutti sappiamo riconoscere le note, premere tasti, fare scale. Qualcuno sa mettere le note in sequenza, o in accordo, o eseguire brani. Pochissimi sanno comporre musica. Ecco, in questo senso pochissimi sanno scrivere. Intendo pochissimi tra gli autori italiani viventi. Uno di questi è Ezio Sinigaglia. Poi, i suoi libri possono piacere o non piacere. Si può amare una macchina letteraria come Il pantarèi, che ha nella complessità la sua bellezza, o un piccolo gioiello formalmente compiuto come Eclissi, oppure ancora un divertissement di stampo boccaccesco come L’imitazion del vero, meno i due Fifty-fifty (mio parere personale, per carità!). Ma la musica che crea Sinigaglia si sente in tutti i suoi lavori, anche in Sillabario all’incontrario. Che è in un certo senso un compendio delle sue tematiche dalla A alla Zeta, anzi: dalla Z di Zoo alla A di Aldilà, come a simboleggiare un’evoluzione darwiniana dall’animale allo spirito. Un compendio, in realtà, che non è neppure un sillabario ma qualcosa di nuovo di cui cercherò di delineare le caratteristiche.

Il libro si apre con la Prefazione che illustra la classica motivazione diaristica a scopi terapeutici, ineludibile citazione sveviana. L’arguzia di Sinigaglia ne ricava subito una regola generale: «Non sarebbe fuori luogo affermare che il romanzo, ben più di ogni altro genere letterario, trae spesso origine dal germe di una patologia dell’autore e ne costituisce il (temporaneo, effimero) piano terapeutico». Il Sillabario è dunque un romanzo? L’autore milanese, sempre nella Prefazione, dà questa risposta: «Autobiografia sì, ma senz’ordine e senza pretese di completezza, diario sì, ma senza minutaglie, saggio sì, ma senza disciplina, questo libro così ricco di piccoli e grandi fatti, di memorie, di analisi, di divagazioni, di personaggi (perfino!) e soprattutto di umorismo può ben essere considerato, nell’eclettico panorama della narrativa di oggi più ancora che in quello dell’epoca in cui fu scritto (1996-97), un vero e proprio romanzo. Ma è bene non dimenticare che non è stato progettato come romanzo, ma come una medicina».

Romanzo che è un insieme di tante cose, quindi, messo in una scatola divisa in ventuno scomparti, uno per ogni lettera dell’alfabeto italiano. Una scatola che è soprattutto un contenitore di umorismo. Perché una della chiavi non solo del Sillabario ma di tutta l’opera di Sinigaglia è l’umorismo, inteso sia come battuta gratuita (le vezzose poltroncine «Luigi Ennesimo» in D come Dilazione) sia come autoironia, ovvero il non prendersi sul serio, tanto meno il prendere sul serio gli altri, persino la morte: «l’unica esperienza che nessuno si sia mai lagnato d’aver fatto». È un umorismo alla Svevo, o meglio ancora alla Pirandello: umorismo con quella venatura malinconica dovuta alla verità messa in mostra, al passaggio pirandelliano dall’avvertimento del contrario al sentimento del contrario. Ricordiamoci che Sinigaglia è sempre vissuto all’ombra della letteratura senza mai potersi dire scrittore, come se la letteratura stessa l’avesse preso in giro. Quel capolavoro che è Il pantarèi, da molti ancora ignorato nonostante la bella edizione di TerraRossa del 2019, era uscito negli anni Novanta senza la minima visibilità. Tutto il resto della sua produzione è rimasto per due decenni in un cassetto. Ezio Sinigaglia è insomma – sono parole sue – «lo scrittore più inedito di cui si abbia notizia».

Ezio Sinigaglia in uno scatto di Roberto Gandola

Ma proviamo a smontare la scatola in cui l’autore ha inserito il suo Sillabario. Una volta sollevato quello che costituisce il coperchio, ossia la Prefazione, ci sono, come si è detto, ventuno scomparti. Ad essere più precisi, si tratta di tre macroscomparti che racchiudono ciascuno un numero diverso di scomparti più piccoli, tipograficamente presentati come capitoli. Il primo macroscomparto va da Z di Zoo a Q di Quattrini ed è costruito come una cornice esteriore, in pratica una descrizione del presente che si ferma al paesaggio di superficie. Il secondo va da P di Padre a F di Freud e prende in esame memoria e autoanalisi, compresa la morte del padre, di evocazione sveviana. Il terzo macroscomparto va da E di Eros a A di Aldilà, questa un’indagine più intima e disincantata, tra erotismo e morte etica. Si noti la ricorrenza matematica del sette, numero primo: il macroscomparto iniziale è composto da sette scomparti più piccoli, il secondo da nove (sette più due), il terzo da cinque (sette meno due). Non per nulla il sette è un numero dal forte potere simbolico, basti pensare ai sette giorni della settimana, ai sette bracci della Menorah, alle sette note musicali (ecco che torna la musica), ai sette colori dell’arcobaleno, e così via. Sette, insomma, come gli elementi che servono per comporre il tutto.

Questo schema compositivo, che Giorgia Tribuiani collega a certi princìpi dell’Oulipo, in particolare a Perec, si rifà a un concetto che Sinigaglia esprime apertamente nelle ultime battute del libro e giustifica qualsiasi scrittura purché sia autentica scrittura: «Scrivere è la sola cosa che renda vivibile la vita». Il fascino dei suoi testi (che è poi lo stesso di molti classici) credo consista proprio in questo: trasmettono al lettore la sensazione di trovarsi di fronte, oltre che a un congegno letterario, a una partitura fatta di parole ben calibrate in significato e significante, a una connessione tra pensiero e lingua sempre in perfetto equilibrio. È per questo, nel caso specifico del Sillabario, che mi è venuto in mente la lucidità espositiva del Dizionario filosofico di Voltaire che lessi da giovane. C’è, in Sinigaglia, quella stessa capacità di tenere la giusta distanza dalle cose per poter descrivere senza giudicare, atteggiamento che gli consente – grazie all’intelligenza dell’umorismo – di prendersi gioco del genere umano e quindi di se stesso.

Si potrebbe parlare, paradossalmente, anche di romanzo giallo. Perché in fondo il Sillabario è una ricerca della verità (la stessa cui aspira l’Akron di Eclissi), l’identificazione di qualcuno o di qualcosa che non si conosce, compiendo un percorso a ritroso: dalle deduzioni alla soluzione finale ossia alla ricostruzione dei fatti. Che in questo frangente non è se non la ricostruzione dell’origine del disagio psichico denunciato sin dalle prime pagine. In fondo: il senso della letteratura.

Sillabario all’incontrario non è dunque un sillabario. Esattamente come ne Il pantarèi non è vero che tutto scorre, o ne I delitti della via Morgue (si confronti F come Freud) i delitti non sono delitti. Il non essere ciò che dovrebbe essere, il riportare titoli di capitoli che poi inglobano altri temi, ricordi, invenzioni, consente a questo testo di abbracciare una moltitudine di argomenti. Dall’inno alla bellezza della vegetazione, descritta con la passione di un Blossfeldt, alla condanna dell’abuso edilizio, risultato dell’alleanza tra il denaro e l’imbecillità, all’elogio del silenzio («È nella mia aureola di silenzio che siedo quando scrivo»), alle divagazioni sulla struttura dei romanzi, con le tre categorie di finali (Requiescat, Testa-Coda e Scioglinodi) e la bellissima definizione di opera: «Un’opera è sempre un ponte, a ben guardare: un ponte fra l’idea e la cosa, fra il disegno e l’atto, fra la riva del divenire e quella dell’essere, o dell’esser stato». Disseminati tra i capitoli si inseriscono veri e propri racconti, come l’incontro con la zingara dal dente d’argento in C come Calorie, o la delicata storia d’amore con Miele, nomignolo che deriva dal colore degli occhi della ragazza, o il crudele rapporto con Pietro Rana in B come Bambini. Questo per dare solo un’idea della vastità di tematiche che arricchisce le duecentotrenta pagine del Sillabario.

Infine si arriva alla lettera A di questo alfabeto capovolto. Dove la ricerca, in fondo effettuata procedendo alla cieca, dà un risultato che non è un risultato: piuttosto la consapevolezza di uno stato d’essere, l’abbassamento di un ottava della propria musica vitale, sintetizzata poi in una visita premonitrice della morte: «Non mi meraviglierei se domattina un autorevole personaggio si presentasse alla mia porta e mi comunicasse che sono morto circa un anno fa». Un Aldilà, quindi, che ancora una volta non è quello che è perché è un Aldilà terrestre e provvisorio.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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