Un’estate con Manzoni #2 — La Storia
[Secondo appuntamento con la rubrica Un’estate con Manzoni. Qui il primo.]
di Marco Viscardi
I Promessi Sposi, cap. XII: la Storia
Non so se è mai stato detto, ma mi pare che si potrebbe dare il nome di “classico” ai testi in base alla luce della verità di cui sono portatori. Più un testo è saturo di verità, più investe il lettore con improvvise, subitanee, rivelazioni, più allora è un classico e merita di essere tramandato e studiato. I Promessi sposi lo sono, e fra i tanti passaggi che stordiscono il lettore per la propria forza, questo è uno dei più affascinanti. Leggiamolo:
Questo [il popolo], dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Siamo a Milano, nel cuore della rivolta per il pane. Il popolo assalta i forni perché è convinto che i fornai speculano sul prezzo della farina e tengono nascoste le scorte per far alzare il prezzo. La folla scorre per le strade della città. Si dirige verso l’abitazione del Vicario di Provvigione, il funzionario che si occupa degli approvvigionamenti alimentari della città. Chi conosce Milano, può immaginarsi i luoghi attraversati dal tumulto: le strade tortuose, il mattonato rosso della piazza dei Mercanti e, prima ancora, il Collegio dei Dottori o Palazzo dei Giureconsulti che, al tempo di Manzoni, comprendeva la porta di Peschiera che non esiste più:
Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Ecco Filippo, il re di Spagna e signore di Milano. Sovrano dispotico, incarnazione suprema dell’assolutismo, del fanatismo e del mal governo, Filippo domina lo spazio dall’alto. La marmorea testa minaccia il popolo bambino, lo ammonisce a rigar dritto. Sin dalla fine del secolo precedente, Filippo ha incarnato il modello del padre e del monarca autoritario: così l’ha descritto Schiller nella sua tragedia dedicata a Don Karlos che Verdi avrebbe messo in musica facendone il suo capolavoro storico. Nell’opera verdiana, il personaggio di Filippo si mostra in tutta la complessità: alla faccia pubblica severa si contrapponeva tutta la solitudine del comando, la malinconia del corpo che invecchia, del potere che passa. Ma, se Verdi ne mostra aspetti umanissimi e nascosti, Manzoni l’attacca con gli acidi corrosivi del romanzo: ora vengo io, marmaglia!
Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Ma il monumento di don Filippo, una volta ridotto a torso anonimo e consumato, diventa improvvisamente simbolo della follia e dell’instabilità generale. Negli anni della rivoluzione, i giacobini avevano riconvertito il corpo del sovrano in quello di Bruto liberatore. Quel corpo, dotato di una nuova testa, era diventato il portavoce di significati imprevisti, in linea con un’età inimmaginabile ai tempi di Andrea Biffi. Adesso, il braccio teso è la minaccia al tiranno e non più al popolo! Una nuova era si apriva e, come tutte le nuove ere, si credeva eterna, fino a quando il ritorno dei legittimi padroni non aveva istaurato un nuovo ordine, ovviamente provvisorio. Così il ritorno degli austriaci a Milano segna la fine ridicola di questa statua. Fatta cosa fra le cose. Il marmo che aveva glorificato il re assoluto e l’assoluto tirannicida si è smembrato: polverizzato in tocchi informi. E con lui, anche quelle idee si sono perse in frammenti senza memoria. Ciascun regime che si era posto sotto la protezione di quel gigantesco nume si era creduto immortale, ma il tempo aveva portato tutto via. Smarrito tutto.
Manzoni non crede che la storia abbia una logica di progresso e le vicende turbolente di questo pezzo di marmo sono una metafora del continuo agitarsi tellurico che sta sotto alla vita degli uomini. Niente è stabile in questo vortice che chiamiamo storia. Modificare il senso di una figura, o ancora di più, abbattere un monumento è un’azione storica esattamente come erigerlo. Nessuna statua occupa uno spazio vuoto. Prima c’è stata sempre una civiltà dimenticata e vinta. E nel vuoto creato dalla sua scomparsa, nel silenzio delle sue lingue dimenticate, si sono innalzati nuovi effimeri monumenti. Così, il romanzo storico, più che celebrare la continuità fra presente e passato, ci ricorda la non razionalità delle azioni umane e lo fa senza giudizi morali, semmai mettendone in evidenza i lati ridicoli, diventando quasi – e che nessuno si arrabbi – un beffardo annuncio di cancel culture, quella cancel culture che a volte ci viene presentata nei suoi eccessi e nelle sue ridicolaggini, ma che porta istanze nuove di liberazione. E mi piace pensare che il vecchio Manzoni non avrebbe storto il naso di fronte alle ballerine che danzando sulla statua del generale Lee a Richmond, che non solo si riappropriano di uno spazio loro, ma incarnano splendidamente la superiore irrazionalità delle sorti umane e, incredibilmente, riescono a declinarla come liberazione e riappropriazione di senso e di spazi.
La Historia è una illustre guerra contro il tempo. Così inizia il manoscritto da cui Manzoni finge di trarre i Promessi sposi. La Historia sottrae al tempo gli anni già fatti cadavere e li rivitalizza. Il narratore è un negromante, ma leggendo il romanzo sembra quasi che questa sia una guerra persa, perché il tempo procede instancabile e porta con sé gli uomini e il loro modo di pensare.
Nel Fermo e Lucia la scena della statua si chiudeva con una riflessione sulle sorprendenti somiglianze che Manzoni scorgeva fra l’assolutismo barocco e la violenza rivoluzionaria.
Filippo II e Bruto: «ebbero più punti di rassomiglianza che non appaja a prima vista. Tutti e due gravi e rigidi sermonatori l’uno di filosofia, l’altro di religione, tutti e due commisero senza rimorso, con giattanza, di quelle azioni che la morale comune, e il senso universale della umanità abbomina; tutti e due credettero che nel loro caso una ragione profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò che è comunemente delitto». Entrambi si sentirono investiti di una missione irrinunciabile, entrambi si attennero a principi astratti di religione o di filosofia per compiere le loro azioni. L’uno fu accecato dal diritto divino e l’altro dalle leggi della politica. Entrambi, insomma, furono in qualche modo assoluti: sciolti dai legami umani e presi dalle loro azioni. Dietro il riferimento a Marco Bruto si vede un profilo assai più inquietante, quello di Maximilien de Robespierre.
Nel suo Dialogo sull’Invenzione, Manzoni dà un giudizio sorprendentemente positivo su Robespierre, quale «uomo eternamente celebre, non già per delle qualità straordinarie, ma per la parte tristamente e terribilmente principale» che ebbe nella rivoluzione. In quello che la posterità ha bollato come «mostro di crudeltà e d’ambizione», c’era anche «del mistero». In questa espressione si sente tutta la forza dello scrittore cristiano. Quello che pensa che ogni anima conta e che in ogni anima c’è la presenza del suo creatore. Né gli uomini, né la storia sono perfettamente conoscibili, così almeno sembra suggerirci Manzoni. E Robespierre, seguace e allievo ideale di Rousseau, nemico della corruzione, impiegò la sua intera esistenza nel tentativo di realizzare un «un novo, straordinario, e rapido perfezionamento» della «condizione» e dello «stato morale dell’umanità», ma sulla base di una «astrazione filosofica», di una «speculazione metafisica» che predicava l’utopia semplicista dell’uomo che «nasce bono, senza alcuna inclinazione viziosa; e che la sola cagione del male che fa e del male che soffre, sono le viziose istituzioni sociali».
Così Robespierre si era autoassegnato il compito di rigenerare l’umanità, di riportarla alla sua prima e mitica bontà originaria, mentre «il catechismo gli aveva insegnato il contrario». La religione cristiana, la rivelazione trascendente, insegna che l’uomo è capace di devastanti cadute e di avventurose rinascite. Come è capitato a Napoleone nella storia e all’innominato nel romanzo. Le astrazioni di Rousseau e Robespierre spogliano l’umano della sua complessità, mentre il cristianesimo comprende le oscillazioni dell’anima, mette al centro il dramma eterno di crolli e redenzioni.
Anche il Manzoni teorico della letteratura rifiuta le teorie astratte della letteratura, che tanto piacevano ai classicisti, e mette al centro della sua opera di tragediografo e romanziere l’anima con le sue contraddizioni. Se fossimo perfetti non avrebbe senso la letteratura.
Già in una lettera spedita da Parigi all’amico Gaetano Giudici nel febbraio 1820, Manzoni aveva riflettuto sui due tipi di interesse che attraggono gli spettatori di un dramma. «Il primo è quello che nasce dal vedere rappresentati gli uomini e le cose in un modo conforme a quel tipo di perfezione e di desiderio che tutti abbiamo in noi», mentre «l’altro interesse è creato dalla rappresentazione la più vicina al vero di quel misto di grande e meschino, di ragionevole e di pazzo che si vede degli avvenimenti grandi e piccoli di questo mondo».
Si può rappresentare un mondo migliore, un mondo a-problematico, dove il bene e il male sono campi ben divisi e delineati, ma questa letteratura non tocca le questioni morali. L’uomo è un guazzabuglio e già nel 1816, in un appunto dei cosiddetti Materiali Estetici, Manzoni aveva scritto che «ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero»; ora, parlando a Giudici, aggiunge che l’unica rappresentazione ammissibile è quella che mostra il mistero caotico del cuore nel quale la grandezza e la miseria convivono in una mescolanza in cui non ci sono elementi puri, ma tutto si confonde. Rappresentare il caos è un atto di coraggio e risponde a quella «parte importante ed eterna dell’animo umano» che è «desiderio di conoscere quello che è realmente e di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra».