Merda (sillabario della terra # 8)
di Giacomo Sartori
Uno dei problemi principali dell’agricoltura, fin dai suoi esordi, è stato quello di riportare alla terra la sostanza organica che le ruba. Raccogliendo semi, tuberi e frutti (per esempio chicchi di frumento, patate e mele), noi portiamo via dai campi sostanza organica. E quest’ultima in qualche modo deve essere restituita, se si vuole mantenere l’agrosistema – il termine dotto è questo, viste le sostanziali analogie con l’ecosistema – in buono e duraturo stato, e non impoverirla vie più ogni anno. Più materiale vegetale si asporta, più abbondanti sono i raccolti, più si deve reintegrarne. Le tecniche moderne hanno grosse produzioni, e quindi i rischi sono più grandi.
Nelle forme più antiche di coltivazione la soluzione adottata era la rapina veloce, seguita dalla fuga. Con il sistema chiamato taglia e brucia si disboscavano aree di foresta e le si seminava per qualche anno, più raramente uno solo. Si sfruttava insomma la sostanza organica delle terre boscate, che in genere è abbondante. Una volta esaurito il bottino trovato in loco, si lasciava che la foresta ricrescesse, reintegrando lentamente le materie organiche e la fertilità dei suoli. Solo dopo varie decine di anni si poteva ripetere una analoga rapina agricola nella stessa gioielleria vegetata. Era quindi un furto .
Finché i boschi erano abbastanza estesi in rapporto alla popolazione, la tattica mordi e fuggi ha funzionato egregiamente. L’incremento demografico ha poi spinto a un infittimento degli assalti, il quale ha portato un po’ dappertutto a una degradazione e a lungo andare a una sparizione delle foreste. Chiaramente se ci sono più ladri che banche da svaligiare le cose si mettono male. Già cinque secoli prima di Cristo gran parte dei boschi del Mediterraneo se ne era andata: gli sconvolgimenti umani sono iniziati ben prima dell’Antropocene, del cui inizio si è tanto discusso negli ultimi anni. E con lei la strategia taglia e brucia. Le civilizzazioni si trovavano quindi nell’impossibilità di ristabilire la fertilità dei campi coltivati.
Nelle forme di agricoltura apparse in seguito, c’è voluto qualche secolo di prove e assestamenti, per rendere alla terra la sostanza organica trafugata con i raccolti si sono messi al lavoro gli animali. Insomma, lavoro fino a un certo punto: li si faceva fare i loro bisogni nei campi. Una trovata geniale, visto che questi sono costituiti da sostanza organica di ottima qualità. La notte si facevano sostare le pecore e le capre che avevano pascolato nei dintorni dove si sarebbe seminato. O più spesso nei campi che venivano lasciati a riposo, in attesa di essere seminati l’anno dopo. Quelli che venivano chiamati campi a maggese. Con questo stratagemma non si potevano certo recuperare la totalità delle feci di tutti gli animali, molte si perdevano per strada, ma pur sempre abbastanza per restituire al suolo gran parte del maltolto.
A partire dall’undicesimo secolo c’è stato un grosso salto in avanti, nel filone tecnologico della merda. Per non perdere nemmeno un grammo di deiezioni si costipavano gli animali in appositi locali e recinti, le stalle, nutrendoli con il fieno. E inoltre le loro deiezioni venivano usate mescolandole con paglia o fogliami, vale a dire sotto forma di letame. Questo impasto, lasciato maturare per diversi mesi, era ottimo non solo per restituire la sostanza organica, ma anche per ristabilire la ricchezza chimica e la sofficità del suolo. Sembra un cambiamento da poco, e invece presupponeva mezzi di trasporto per il fieno e il letame (fino a allora i carri erano riservati ai guerrieri e ai ricconi), prati e arnesi efficienti per tagliare l’erba, fabbricati, un’accurata pianificazione. In atre parole capitali. Il capitalismo emetteva i primi vagiti agrari.
Per quasi mille anni l’utilizzo della merda animale sotto forma di letame ha permesso di coltivare i suoli senza rovinarli. E in molte zone producendo relativamente bene. Questo soprattutto a partire dalla seconda metà del Settecento, quando le letamazioni sono state abbinate alle rotazioni agrarie continue, gli avvicendamenti pluriennali di colture senza annate di riposo, alias senza maggese. Vale e dire a partire da quella che viene chiamata la rivoluzione agraria. La quale dall’Inghilterra è dilagata in tutta Europa, nord Italia compreso, proprio come la sua consorella, la rivoluzione industriale.
Solo nei tempi recenti, e in particolare dopo il secondo conflitto mondiale, abbiamo abbandonato il letame, diventato merce sempre più rara. Gli allevamenti industriali sfornano grandi quantitativi di liquami, acquosi e troppo ricchi di elementi, che pongono problemi di smaltimento, non più letame. Quindi questo è stato sostituito con i concimi chimici, ottenuti con un impiego massiccio di petrolio. E che rimpiazzano gli elementi minerali sottratti alla terra, ma non reintegrano la sostanza organica sottratta. E che contaminano pesantemente falde e acque superficiali, perché solo una parte minoritaria viene assorbita dalle radici delle piante.
In molti ambienti i concimi chimici permettono di avere alte produzioni, ben maggiori che nel passato. Questo nessuno può negarlo. E in genere di tenerle alte, almeno nel medio termine. I suoli si impoveriscono però sempre di più di sostanza organica, diventano sempre più chiari e magri, sempre più sterili. E le falde e i fiumi si arricchiscono di elementi indesiderati. Sono guasti generalizzati nell’agricoltura industriale degli ultimi decenni, in tutti i continenti, che hanno conseguenze gravissime.
Svuotata di sostanza organica la terra non muore subito, ma soffre e lavora a rilento. In molti casi, in particolare quando c’è di mezzo l’erosione, va a passi veloci verso il decesso. Si può fingere di non vederlo, lo si è fatto per diversi decenni, palliando con quantitativi crescenti di concimi e di prodotti chimici. Che non fanno che aggravare i danni, come un gatto che si morde la coda. Ora è però sempre più difficile mettere la testa sotto la sabbia, per usare una metafora in tema. Anche l’agricoltura più acerebrata, che spesso è molto tecnologica, una cosa non esclude l’altra, non può più ignorare che sta segando il fragile ramo sulla quale poggia, e cerca piste per correre ai ripari. O almeno finge di farlo.
Le soluzioni ci sono, e consistono negli apporti di sostanza organica sotto forma di letame o di compost, o anche per mezzo di colture finalizzate a questo scopo, e che vengono interrate una volta ben sviluppate (i sovesci). Gli stessissimi palliativi che preconizzava il grande agronomo romano Lucio Giunio Moderato Columella già duemila anni fa, a essere puntigliosi. Alle quali si aggiunge l’inserimento nelle rotazioni di colture che arricchiscono il terreno, le leguminose. Tutti questi rimedi sono efficaci e non sono costosi, anche se certo rallentano un po’ il ritmo forsennato dell’agricoltura industriale. E sono quelli utilizzati dall’agricoltura biologica fin dai suoi esordi. Nei fatti però non vengono quasi mai applicati, e la maggior parte dei suoli continuano a impoverirsi e a soffrire.
La speranza, che pare banale e retorica, è che questo ritorno al passato, non semplice ma auspicabile poiché davvero efficace, venga sostenuto dai nuovi agronomi ed agricoltori: non avevo mai sentito nominare la parola “sovescio” prima di un mese e mezzo fa, durante gli esami di maturità all’agraria, e in quel caso ero tornato con la memoria a ciò che facevano nel loro piccolo i miei nonni, contadini di piccolo taglio, sui loro campi che, ancora ricordo, non erano certo chiari e magri come giustamente li definisce Sartori. Noi siamo solo un Paese, ed insignificante nelle dinamiche politiche mondiali, e dovrebbero essere anche altre Nazioni a riflettere e cambiare direzione sull’agricoltura, ma auspico che i ragazzi che ho ascoltato a giugno, così convinti che quella di un metodo sostenibile e rispettoso dei cicli naturali sia l’unica strada da percorrere nel loro lavoro di domani, faranno le scelte vincenti e non cedano ai miraggi capitalisti che hanno distrutto il nostro pianeta.
speriamo! (e cerchiamo di fare quello che possiamo anche noi)
(ma non è un ritorno al passato, è piuttosto un tener conto degli insegnamenti del passato)
Quanto scrivi è veramente interessante. Avrei una domanda da profano: oggi la fertilizzazione tramite compost è molto più costosa di quella chimica?
non sono un economista, e i miei ragionamenti ruotano attorno a quello con cui ho invece più dimestichezza, i processi naturali in atto nelle coltivazioni agrarie e le tecniche agricole che meno sono in conflitto con essi, e che quindi sono più idonee a produrre il cibo senza combinare troppi disastri; ma naturalmente ci sono poi tutti i fondamentali aspetti economici, che devono essere analizzati da chi ne sa: è così difficile parlare di agricoltura, e così pochi sanno farlo con una visione ampia, proprio perchè le discipline coinvolte sono moltissime, e molto disparate;
quello che è certo è che gli economisti fanno in genere dei ragionamenti considerando solo i costi di mercato del momento, o insomma di un dato periodo, e senza considerare i costi ambientali nascosti, calcoli con i quali andiamo poco lontano; il problema dei concimi chimici, e in particolare di quelli azotati, è che richiedono quantià stratosferiche di energia fossile per essere prodotti, e portano all’emissione di grandi quantità di gas a effetto serra (per la produzione e anche per le perdite inerenti al loro uso), e contaminano acque superficiali e profonde; tutti questi costi non rientrano in genere nei calcoli economici (questa “dimenticanza” è quella tipica delle valutazioni delle tecniche agrarie – che vanno ancora per la maggiore – esclusivamente sulla base delle rese a ettaro, ignorando appunto i costi indiretti e i costi dei danni);
detto questo le concimazioni organiche, compresi i compost, non sono necessariamente più costose, il problema è piuttosto la disponibilità e l’organizzazione capillare che il loro uso presuppone; le concimazioni chimiche avevano il vantaggio di poter essere applicate dappertutto e con gli stessi metodi, senza stare lì a rompersi la testa per vedere quali materie organiche erano disponibili in quel territorio, quali filiere si potevano favorire per incrementarne la disponibilità, come le persone potevano viverci…; l’agricoltura industriale è come un rullo compressore, che annienta le differenze, e non cerca soluzioni locali adatte ai vari ambienti e alle varie situazioni; molti “esperti” ti risponderebbero insomma, ragionando con i paraocchi, che i compost sono più costosi dei concimi chimici; qualsiasi vero approccio agroecologico parte invece dal locale, perchè ogni territorio (o anche microterritorio) ha potenzialità e problematiche ambientali diversissime, come sono diverse le situazioni economiche e sociali..; è quindi questione di un paradigma completamente diverso, che porta a risposte diverse;
per la conoscenza dell’agricoltura che ho io, il vero problema di trovare forme di coltivazione non impattanti e non energivore dipende più da questo diverso approccio, che da veri problemi tecnici (o dalle soluzioni tecnologiche miracolo che vengono decantate a destra e a sinistra, che hanno sempre dietro una sete di guadagni); in altre parole le tecniche ci sono – e si può benissimo utilizzare i concimi organici al posto di quelli chimici – e i costi non sono necessamente maggiori, è solo più complicato, perchè ci vogliono soluzioni diversificate e anche molto disparate; confesso che è questa la ragione per la quale questi problemi mi interessano così tanto: mi sembra che se c’è una palestra dove possiamo sbizzarirci a trovare soluzioni sostenibili, e che anzi riparino i danni del passato, questa è proprio l’agricoltura;
non so se sono riuscito a risponderti, caro Giorgio…
Innanzi tutto ti ringrazio per la risposta articolata. In secondo luogo è anche il mio sospetto, che tu confermi, che il compost sia una questione non di costi in assoluto, ma di circuiti economici e di organizzazione che determinano il peso economico di una tecnica. IL che ci pone di fronte all’evidenza che qualsiasi transizione presuppone una politica economica con intervento centrale pubblico
mah, anche proprio per gli esempi concreti di transizione, l’agricoltura, o per meglio dire l’agroecologia, la sua branca appunto più attenta alle questioni ecologiche e sociali, ha molto da insegnarci; tutti gli esempi “vincenti”, in particolare in America Latina, ma non solo – si veda a questo proposito il bellissimo libro di Altieri e Rosset tradotto da Aboca (https://abocashop.com/products/sulla-via-della-madre-terra?variant=35600841474202) – sono partiti in realtà dal basso, con approcci orizzontali, non da interventi centrali, e sono riusciti poi a tirarsi dietro il mondo della ricerca e appunto le politiche pubbliche; di per sé queste ultime hanno sempre approcci verticali, che non funzionano mai, in agricoltura; e lo stesso si può dire per le “soluzioni scientifiche”, sulle quali si fa tanto affidamento – almeno nei discorsi – attualmente (ingenieria genetica, “agricoltura di precisione”…);
perchè appunto in agroecologia le cose funzionano quando chi decide sono i contadini, in concertazione con le altre parti, ponendo al centro le loro esigenze e le loro conoscenze, e costruendo strategie che funzionano anche economicamente; e io ho appunto l’impressione, senza conoscere gli altri settori, che siano esempi che andrebbero forse presi molto sul serio, e imitati;
certo, le politiche pubbliche sono fondamentali (e la bellissima simulazione di transizione agroecologica per l’Europa elaborata da Iddri-SciencesPo (file:///E:/Documenti/PEDOLOGIA_07.23/BIBLIO/agroecologia/europa/IDDRI_an%20agroecologica%20europe.pdf ) da a queste un ruolo centrale), ma davvero pensiamo che la spinta propulsiva e le soluzioni possano venire (solo) da lì?