Un’estate con Manzoni #1 — Il Male
[Comincia oggi Un’estate con Manzoni, una serie di cinque puntate a cura di Marco Viscardi, ogni giovedì di agosto, concepite come delle immersioni in brani scelti delle opere di A.M. e già idealmente anticipate dalla riflessione di Giulia Delogu apparsa qualche giorno fa. Leggere, raccontare, commentare: il piacere puro della letteratura. Buone letture, ot].
di Marco Viscardi
Fermo e Lucia, III, 3: Il male
Lucia è ancora nel castello dell’innominato, ma il pericolo è scampato. Quello che è stato un terribile assassino, un eroe del male, ha iniziato il suo percorso di riconciliazione col bene. L’interiorità dell’uomo senza nome è in tumulto, ma anche l’anima di Lucia è ancora inquieta. Leggiamo il brano:
Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti, senza terrore, non però con giocondità.
V’ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o veduti da presso: tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla, e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: forsan et haec olim meminisse iuvabit, e che il Caro tradusse un po’ lunghettamente: “E verrà tempo / Un dì, che tante e così rie venture / Non che altro, vi saran dolce ricordo. Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d’una quiete presente con una angoscia passata, le immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste del ricordo di una certa fortezza.
Ma v’ha un’altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza, restano nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto tristo: nei quali si è conosciuta in sè una suscettibilità di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si associa così a tutte le idee: quei mali e quei pericoli, nei quali non v’è stato nessuno splendido esercizio di attività morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare senza ribrezzo, e senza vergogna, persino da chi vi si è trovato e n’è uscito innocente; e i mali di Lucia erano di questa seconda specie.
Ora rileggiamolo spezzandolo:
Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo corpo avesse bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti, senza terrore, non però con giocondità.
Qui finisce la parte, per così dire, narrativa del brano, che si trova nel terzo capitolo della parte terza del Fermo e Lucia. La protagonista, Lucia Mondella (che ha cambiato nome in corso d’opera, nelle prime pagine era una ben più rustica Lucia Zarella) è scampata alla prigionia nel castello dell’innominato, che l’aveva rapita su commissione di don Rodrigo.
L’innominato, in questa prima versione, si chiama ancora conte del Sagrato. Il soprannome gli deriva dal ricordo del primo atto di sangue commesso nello spazio sacro antistante ad una chiesa. Nel Fermo, il segno dell’infamia resta impresso sul personaggio anche dopo l’incontro con Dio e la conversione. In ogni suo gesto resta come un’ombra, il ricordo della radice di ogni male. Ma come per il cristiano, il peccato originale può essere perdonato e purificato, così nei Promessi sposi, il Conte diventa l’innominato, l’uomo senza nome: il suo anonimato è possibilità di redenzione e libertà.
Ora il conte ha già incontrato il vescovo santo, ovvero il cardinale Federigo Borromeo che si è preoccupato di sapere e ha chiesto esplicitamente se a fanciulla è rimasta intatta, ovvero se è ancora vergine o se il suo corpo è stato oltraggiato. Una domanda troppo intima per l’edizione definitiva del romanzo, e quindi cancellata.
Torniamo al testo:
V’ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o veduti da presso: tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla, e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: forsan et haec olim meminisse iuvabit, e che il Caro tradusse un po’ lunghettamente: “E verrà tempo / Un dì, che tante e così rie venture / Non che altro, vi saran dolce ricordo. Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d’una quiete presente con una angoscia passata, le immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste del ricordo di una certa fortezza.
All’improvviso le cose si mettono a tremare, c’è del jazz nell’aria. Manzoni sembra impazzito: fino a un momento fa eravamo nella stanza buia che, appena una notte prima, era di fatto una cella; e ora parliamo di cose mitologiche, di ciclopi e il narratore si concede pure una citazione latina che, se non conosci le lingue morte, sei spacciato.
Qui Manzoni si comporta come Sterne: l’autore di uno dei capolavori della letteratura settecentesca, il Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentlement, che sin dal titolo aveva destabilizzato i lettori anglofoni e poi, attraverso la traduzione francese letta e amata anche da Manzoni, quelli di tutta Europa. Non più vita e avventure, ma vita e opinioni: non percorsi per le strade del grande mondo, ma viaggi interiori, dentro il labirinto serpentino dell’anima che sfugge di continuo alle tassonomie, che si ribella alla misurazione razionale del tempo e dello spazio vivendo dentro una propria temporalità, una propria spazialità.
Il ritmo narrativo di Sterne è aperto, nel Tristram l’autore fa continue digressioni che sfociano su altre digressioni che a loro volta digrediscono… e qui, appunto, Manzoni compie una digressione che ha quasi l’incipit di una massima rassicurante. V’ha dei mali…: ci sono dei dolori, dei fastidi che una volta superati ci fanno stare meglio.
Il paragone fra le piccole sciagure quotidiane e il ricordo dei ciclopi è straniante. L’antico non è più convocato sulla pagina per esaltare le imprese dei moderni, ma per relativizzarle. Le parole di Enea si possono tradurre come: “un giorno il ricordo di queste sciagure ci gioverà”, e chissà se Manzoni ricordava che quello stesso verso era stato citato da Eleonora Pimentel Fonseca nel momento di salire al patibolo, dopo la gloriosa esperienza della rivoluzione del ’99, come testimonia il Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana di quel Vincenzo Cuoco, intellettuale centrale nei decenni dell’Italia napoleonica, che Manzoni incontrò a Milano quando era esule lì per sfuggire alla prima Restaurazione borbonica.
Il ricordo di un eroe amatissimo come Enea è grottesco e la parola autentica di Virgilio è depotenziata dalla traduzione vezzosa di Annibal Caro. L’antico non è più un ideale a cui mirare al di sopra del caos dei moderni, non ci sono più i giganti sulle cui spalle faticosamente salire: l’antico è disintegrato, scoronato, gettato nella vita quotidiana. Il verso di Virgilio/Caro serve a dire una banalità: ci sono guai che non ti toccano nel profondo e, quando sono passati, non ti lasciano che una piccola soddisfazione, un dolce ricordo destinato in fondo ad essere dimenticato. Poca roba, ma qui è l’integrità di Lucia ad essere stata insidiata.
Ma v’ha un’altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza, restano nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto tristo: nei quali si è conosciuta in sè una suscettibilità di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si associa così a tutte le idee: quei mali e quei pericoli, nei quali non v’è stato nessuno splendido esercizio di attività morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare senza ribrezzo, e senza vergogna, persino da chi vi si è trovato e n’è uscito innocente; e i mali di Lucia erano di questa seconda specie.
Dopo averci portato in giro come un romanziere del Settecento, Manzoni torna a guardare il cuore nero delle cose. La simmetria sintattica è perfetta: V’ha dei mali…. Ma v’ha un’altra specie di mali e di pericoli. Qui le cose si complicano, qui i fastidi sono diventati pericoli. Il pericolo è un dolore concreto, fisico, che non ha l’astrattezza del semplice fastidio e non accetta di farsi costringere dall’allegoria mitologica. Il pericolo riguarda sempre noi, la nostra fragilità. Sono una creatura: così Lucia si era presentata all’innominato: una cosa creata, una persona che porta dentro di sé l’immagine del suo Creatore, ma, allo stesso tempo, anche tutta la fragilità dell’umano.
Davanti a questa creatura è svelata la realtà nella sua essenza più squallida. Il disordine morale è illimitato, corruttore, impone una collusione anche se non si vorrebbe. C’è un male di cui si partecipa anche semplicemente subendolo, un male che rapisce l’innocenza di chi guarda. Ai Ciclopi, l’eroe epico può sfuggire grazie alla sua capacità di distinguere. L’uomo e il mostro restano indipendenti e divisi. Alle deformazioni dell’anima, ciò è impossibile, soprattutto quando rivelano una crisi irrisolvibile perché connaturata all’essenza dell’uomo. Senza inizio e senza fine. E offusca persino gli occhi di Lucia, che letteralmente porta luce nelle vicende del romanzo. Lucia è l’unica a guardare negli occhi il male profondo, quello connaturato nell’uomo. A Renzo tocca il male storico: carestia, rivolta, pestilenza. Dolori atroci, ma dolori di tutti, come la strage degli innocenti, dei bambini portati via dal morbo. Il tremendo episodio della madre di Cecilia che, scrostato della retorica che gli ha buttato addosso un secolo e mezzo di conformismo, è una pagina sublime e inquieta del cristiano ai limiti della rivolta contro Dio e il suo ordine nascosto.
Per capire la grandezza di Manzoni, proviamo a confrontarlo con uno scrittore suo contemporaneo: prendiamo una pagina di Domenico Guerrazzi, scrittore di idee repubblicane, e democratiche che avrebbe avuto un ruolo importante nei fatti del 1848 in Toscana. L’assedio di Firenze, pubblicato a Parigi nel 1836, racconta della fine dell’esperienza repubblicana fiorentina del 1530 ed il ritorno dei Medici al potere, con l’appoggio del Pontefice e delle truppe imperiali. Guerrazzi racconta del traditore Giovanbattista da Recanati, al soldo degli stranieri, che insidia Lucrezia fino alla tentata violenza. La donna preferisce la morte al disonore e si suicida gettandosi in Arno. La scena è descritta così:
Ah! Signori, il pianto mi toglie facoltà di raccontarvi partitamente com’ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume; come vedessimo ora apparire su le acque, ora scomparire sotto, la santissima donna, e tanta era in lei la voglia di presporre l’onestà alla vita, che quante volte l’impeto dei vortici la respinse a galla, tante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava nel fondo.
La Lucrezia di Guerrazzi è trasfigurata: non è solo una donna, ma una santissima donna. È andata oltre l’umano. Ma è difficile leggere questa pagina con ammirazione: tutto pare forzato, melodrammatico, falso fino al ridicolo. Indimenticabile la torsione che il corpo di Lucrezia fa per rigettarsi da sola in acqua quando l’impeto dei vortici la porta a galla. Non solo si è gettata a fiume, ma una volta in acqua si spinge la testa con le mani per immergerla meglio nei flussi.
Una stupidaggine! Impossibile dal punto di vista fisico e neurologico, se è vero che non possiamo proibirci di respirare! Una stupidaggine che ha senso nel registro e nella retorica del melodramma, dove la contrapposizione fra il bene e il male è assoluta, dove i gesti devono essere eclatanti, plateali. Ma Lucrezia non è una donna: è un insieme di parole, mentre il terrore di Lucia è vero, sentito, intimo. Attraverso i suoi occhi, il lettore guarda il male, le mostruosità nate da una sopraffazione della morale.
Lei ha visto il male negli occhi e il male, una volta guardato, non ci lascia liberi. Offusca lo sguardo, rende opaca la bellezza delle cose. Il male subìto si può perdonare, ma non dimenticare.