Acqua (sillabario della terra # 7)
di Giacomo Sartori
Durante le piogge il suolo si imbeve d’acqua, e poi la trattiene nei suoi pori più fini, comportandosi come un serbatoio. Le radici delle piante la succhiano mano a mano dai tubicini per le loro necessità, compresa quella di trasportare fino alle foglie gli elementi nutritivi. Perché l’acqua della terra contiene il cibo minerale di cui si nutrono i vegetali, e si prende carico della consegna a domicilio. Quindi il suo primo servizio è quello, incamerare una riserva di acqua arricchita di elementi nei suoi capillari e renderla disponibile quando serve. Alle piante, ma anche a tutti gli altri organismi viventi.
Quando i campi sono tenuti male, come di norma succede nei tempi attuali, nei quali si mira solo agli introiti immediati, invece di infiltrarsi nella terra l’acqua scorre in superficie, asportando gli strati superiori più fertili, e andando a ingrossare in modo improvviso i corsi d’acqua. Basta una pendenza da niente, nemmeno visibile, non bisogna immaginarsi erte impegnative. Pure lì i rivoli scivolano a perdifiato verso i torrenti e i fiumi, ingrossando piene improvvise che possono risultare catastrofiche, soprattutto con le piogge concentrate e molto forti che diventano ora più frequenti. Quindi la terra serve anche a fare sì che l’acqua arrivi ai corsi d’acqua con disciplinata lentezza e diluita nel tempo, per evitare le alluvioni.
L’acqua è poi restituita all’atmosfera dai suoli, per evaporazione, e dalle foglie delle piante, per traspirazione. Viene insomma rimandata al mittente. Quindi la terra assorbe l’acqua, la trattiene, la conserva, la cede all’aria, la cede alle piante, che a loro volta la liberano nell’aria, dove prima o poi andrà a formare delle nuvole. A seconda del suo stato lo fa più o meno bene. La terra in buone condizioni e con un buon contenuto di sostanza organica assorbe più acqua, ne trattiene di più, la cede più a lungo. Le terre sono insomma al centro del ciclo dell’acqua, e lo influenzano, a seconda della loro forma fisica, che più spesso dipende in primo luogo da cosa le facciamo noi.
È attraverso l’acqua in eccesso, che non può essere trattenuta, che le sostanze nocive dell’agricoltura arrivano alle falde e ai fiumi. La terra può incamerare nelle sue dispense, che non sono mai molto grandi, solo una parte dei concimi chimici. In particolare parlando dell’azoto, l’elemento più importante. Tutto il resto finisce nelle acque di profondità. Ma anche i pesticidi e gli inquinanti che non sono trattenuti dalle sostanze organiche e minerali del suolo se ne vanno via, insozzano altrove. Gli ecotossitologi si felicitano quando la terra può trattenere le sostanze nocive e fare da filtro, così le analisi delle acque dei pozzi e dei fiumi risultano meno minacciose. Non pensano che la contropartita è che resta avvelenata lei.
Troppa acqua fa male alle piante coltivate, se si eccettua il riso. In Italia moltissime pianure, comprese grandi aree della Padana, non erano utilizzabili, perché intrise d’acqua. In tante piane umide le baulature dei campi e le canalette di scolo attorno non erano sufficienti per allontanare l’acqua in eccesso. Nel corso di un paio di secoli, quando ancora non c’erano mezzi meccanici, sono stati fatti allora imponenti lavori per bonificarle con reti di canali. Tante spianate colonizzate dall’attuale agricoltura industriale erano acquitrini e zone impaludate. Ora sono lanciate a duecento all’ora grazie ai canali e alle idrovore che allontanano l’acqua di troppo.
Ma anche coltivare le colline appenniniche e prealpine presupponeva di venire a patti con l’acqua: bisognava impedirle di scorrere in superficie e fare disastri. Gli italiani diventarono quindi veri artisti in materia di raffinate tecniche di sistemazioni dei versanti, che ritroviamo raffigurate in tanti quadri rinascimentali e che erano imitate in tutta Europa. A differenza di molte altre regioni europee con morfologie più dolci e climi meno contrastati, i loro campi andavano difesi e accuditi. L’agricoltura meccanizzata ha spazzato via tutte queste armoniose opere di illuminata cura (regimazione, è il termine tecnico), lasciando che i ruscellamenti isterilissero o devastassero i terreni. È successo in pochissimi anni. Si pensava alle rese, al tutto e subito, a qualsiasi costo, non a salvaguardare la terra, non al futuro.
Il ciclo dell’acqua, come lo chiamiamo noi, si chiude insomma nella terra, che è un sottile straterello da niente. Non è però una pura questione di idraulica, come lascerebbero supporre le frecce arcuate degli schemi degli idrologi. La terra non è un semplice serbatoio con degli imbuti in entrata e dei rubinetti in uscita: tutto dipende in realtà dalle attività dei suoi abitanti, e dalle sue sostanze organiche, che sono legate a questi, e li fanno vivere. I lombrichi in particolare sono fondamentali per costruire gli aggregati del suolo che aumentano la sua capacità di accogliere le piogge e per mettere a punto la rete di canali subverticali che le drenano in profondità. Anche qui c’entra la vita e le complesse interrelazioni che la costituiscono.
Pure le radici delle piante coltivate, come quelle degli alberi, si prolungano del resto in una fittissima rete di ife fungine, le micorrize, delle quali fino a pochi anni or sono non si sapeva nulla. O meglio, non si sospettava nemmeno che esistessero. Queste capillari reti chilometriche sono ben più efficaci nell’estrarre l’acqua e gli elementi, e sono a loro volta abitate da batteri, i quali ospitano virus, e via dicendo. Quindi acqua e vita sono inestricabilmente legate. Per capirci qualcosa nelle nostre teste abbiamo bisogno di separare e compartimentare, affidandoci a distinti specialisti, nella fattispecie gli idrologi e i micologi, ma la terra è groviglio e connessioni e bilanciamenti, continuo divenire. E sintesi.
(fonte dell’immagine: RER, Bologna)