Se le grida non prevedono assonanza
di Mariasole Ariot
E l’albero morto non dà riparo, né il grido sollievo
E l’arida pietra non dà suono di acqua
T.S. Eliot
Frédéric Chopin – Nocturne in E minor Op.72 NO.1 (Hart, M.) “
(A duemilacinquecento metri di quota)
Arrivano improvvisi come i morti. La memoria del mentre camminato fino all’alba – e noi ci confondiamo una distanza, la stima di arrivare a un crocifisso: le tue ore che si muovono ansimando, le mie ombre chiaroscuri di un oscuro ribaltato. Ciò che segna e che fa segno: un lampo che fa nuca alla memoria, quando un graffio assottigliato gli somiglia, quando ancora non c’è notte che separi il prima e il dopo, quando il dopo è rimandato per riattendere che spenga, ciò che segna e che fa segno se ad accendere è un incendio imbevuto di ragioni – e si pone la domanda delle ossa inseminate: si risponde con un ghigno, la gioviale stagnazione delle cose.
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Per nozione di un sapere preparato, le tavole imbandite di ghirlande imbiondite dai capelli che speravi e non avevo, trafficare le posate come uncini per incidere la carne dei festanti: mi affastella una ragione, sragionare fino al punto di un arrivo mai deciso. Si prolungano alle cene rimandate nel cervello, ci si stende orizzontali per portata: la più triste delle cose è festeggiare.
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Altrove le parole mi diventano cornacchie. Partiti per difetto a scalare un’invasione, quando il mondo si fa mondo per gli astanti, scalatori che non hanno una tormenta e risalgono la cima come mandrie di cavalli a stato brado, e le coppie di animali che si sfregano i due musi, e gli steli l’erba calda che trasuda un temporale, e le pozze ad alta quota si riflettono di nubi: è così che mi separo, e così che mi denudo.
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Tra le millecinquento alture di persone non c’è che conclusione: borbottano i discorsi del mattino e della sera e della notte e delle vite preparate alla discesa. Loro sentono, loro testano, loro parlano, loro affannano, loro ridono, loro dicono, loro giocano, loro notano, loro tuonano, loro nascono, loro muovono, loro nel loro di una vita quando vita pure a melma non fa male.
Ma distante mi distanzio ad un angolo un po’ retto, mi sorreggo alle sassate: è l’arrivo, l’improvviso affastellarsi di presenze.
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È così che si conficca nella testa. È così che mi cominciano a brucare. Cede e sgrana e si frantuma e non mantiene il terreno come scena principale: il taglio cesareo del suono a sottosuolo. Dove l’occhio smembrato e semichiuso si riguarda dal guardare ma non può che non vedere: quel continuo mormorare dei bambini delle madri delle epoche vissute, e nessuno che si accorga che la testa si è riempita dalle rupie e dagli assalti. Bucate le pupille confuse con pistilli.
I terrestri in fila indiana continuano a montare, si corteggiano silenzio ad un silenzio: i polmoni medicati hanno case a cui tornare come arvicole che sanno il predatore. Voi avete cento porte chiuse a chiave: a me cade dalla tasca una finestra.
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Molto apprezzate. Grazie.
Grazie a lei, Rossana
Roberto Rossi Testa m’avrebbe scritto: «l’hai letta? Impara! Senti come si sposino senso e suono, senza insultare alcuno? Armonia figlia di Marte e di Venere – ma Mariasole è chirurgo e non macellaio».
Puntualmente avrei replicato: «è più Metal dei Metallari e degli Scapigliati. Dea dell’anfibologia [*Partiti per difetto a scalare un’invasione» et cetera et altera] – vanta Grazia che non posso imparare. M’inchino nell’ammirare.
[*Tra le millecinquento alture di persone non c’è che conclusione* questo è un *fuckyouall* con tanto di critica poetica NASCOSTO IN BELLA VISTA].