Vocazione (sillabario della terra # 6)
di Giacomo Sartori
Non so perché sono finito a occuparmi della terra. Potrei dirmi che è successo per caso, visto che l’incontro sembra essere avvenuto indipendentemente dalla mia volontà: non ho fatto nulla per andare verso di essa. Nella griglia ideologica dei miei famigliari, dalla quale a dispetto delle apparenze non mi ero ancora liberato completamente, era certo il soggetto più trito e meno dotato di appeal, meno valorizzante. E quello che mi attraeva era la scrittura, per la quale ritenevo di non avere sufficienti doti cerebrali. Se ci penso adesso mi sembra però l’approdo più consono che potesse capitarmi, l’unica cosa alla quale potessi dedicarmi. Il caso ci porta forse molto più spesso di quanto lo immaginiamo dove è necessario che andiamo. Insomma, quello che chiamiamo il caso.
La facoltà di Agraria era squarciata da una esplosione di matricole, l’anno in cui ho cominciato l’università. Nel rapido rifluire della marea delle contestazioni e delle velleità, il terrorismo si avviava verso il parossismo, con la truce cortina di mancanza di prospettive che si trascinava dietro. E certo l’agricoltura agli occhi di molti di noi veicolava sentori di libertà e non omologazione, e di comunione con la natura, agli antipodi del mondo bieco che riprendeva piede. Si parlava parecchio delle lotte campesine di molti paesi sudamericani, e il fascino di Cuba non si era ancora deteriorato. Molti gruppetti di giovani con aspirazioni agresti e libertarie erano andati a installarsi in campagna, in genere in vetusti casolari di mezzadri migrati nelle città.
Certo questi bagliori romanticheggianti hanno contato pure per me, in un periodo nel quale le offerte di studi restavano ancora limitate, e paludate. Non vedo altre ragioni che spieghino il richiamo istintivo alla radice della mia scelta di quella via. L’universo rurale che avevo incrociato di striscio nella mia infanzia era l’unico che potesse sedurmi, compensando almeno in parte la frustrazione di non potermi dedicare alla letteratura. Nei fatti proprio in quegli anni nelle campagne italiane dilagava il modello industriale agli antipodi delle rappresentazioni bucoliche: gli ultimi resti di un millenario mondo contadino venivano spazzati via, scomparendo per sempre.
In ogni caso quel primo anno gli iscritti erano dieci volte quelli che le polverose aule delle Cascine avrebbero potuto ospitare: era un degradante caos. Nella massa che derivava senza indicazioni vedevo scafati fricchettoni come contadinotti tirati a lucido, molti venivano del sud, e il vero punto in comune sembravano essere le preoccupazioni per l’alloggio e il cibo. Gli studi a quanto pare venivano dopo. Io invece avevo bisogno di mostrare a me stesso che valevo qualcosa, dopo le umiliazioni del liceo classico della mia mortifera cittadina: ci davo dentro fino a spossarmi, spaziando ben oltre i programmi, inaugurando la forsennata perseveranza che sarebbe stata la mia. Già all’inizio del secondo anno quattro matricole su cinque erano state sterminate, e erano venuti alla superficie gli alteri fiorentini, con sguardi di signorotti – alcuni erano davvero nobili – costretti all’esilio che riprendono i loro possessi. Ma insomma gli studenti restavano ancora troppi.
Tra le altre cose era quindi molto difficile trovare un docente con il quale fare la tesi. Diversi membri del collettivo redazionale del giornaletto del quale facevo parte erano approdati a uno dei due professori scopertamente di sinistra, critici dell’agrochimica e aperti ai vagheggiamenti di giustizia. E così, tramite un altro studente entrato nelle sue grazie raccontandogli i dettagli delle sue notti sessuali con due ragazze, sono finito pure io con lui. Che appunto studiava e insegnava i suoli.
Io non sapevo bene cosa fosse la terra, non avendo frequentato nessun corso che la riguardasse, e non provavo alcuna attrazione. Mi intrigava però quel professore con una barbetta avventuriera e sempre in viaggio nei paesi tropicali. In una cittadina africana s’era preso addirittura una coltellata in pancia, a quel che si diceva mentre era con una non meglio specificata donna. Ma forse sbaglio, anche l’idea della terra, senza che me ne rendessi conto mi attraeva a sé. In fondo a modo mio un po’ la conoscevo: l’avevo scoperta quando i miei genitori si erano trasferiti fuori città, come ci si imbatte in qualcosa che proprio non ci si aspettava. Dentro di me rappresentava pur sempre l’essenza delle campagne ancora mezzadrili che avevo battuto in lungo e in largo da ragazzino, oltre che l’esatto contrario di quello che incarnava la mia famiglia.
La mia tesi sperimentale non prevedeva purtroppo uscite sul terreno. Il professore sul quale avevo contato per imparare qualcosa non lo vedevo mai, visto che era sempre ai tropici, impegnato nelle sue avventure scientifiche e a prendere coltellate: mi aveva abbandonato a me stesso. Per prelevare la terra che serviva per le mie prove un altro insegnante più sedentario mi ha allora accompagnato in un territorio di ondulazioni vaste e chiarissime con un odore di paglia scaldata dal sole e di argilla secca. Era da tempo, da quando non andavo in alta montagna con mio padre, che non mi imbattevo in qualcosa di così forte, che esalava la presenza umana ma anche la potenza della natura.
Il docente sedentario e silenzioso al ritorno si è fermato per dissodare e portare via una pianta, mi sembra di ricordare che fosse un corbezzolo: ecco svelato quello che lo interessava del nostro viaggio. Ma insomma avevo messo il naso in quella scenografia di crete a perdita d’occhio che raccontava di una lotta non risolta tra gli uomini e quello che essi stessi consideravano il nemico da soggiogare. E come pegno d’amore a prima vista mi ero riportato in città un sacco di quella terra tanto simile a cemento, sulle quali avrei fatto i miei esperimenti inutili e noiosi.
Ci sono poi tornato subito dopo la laurea per un lavoretto che mi aveva affibbiato l’università, in quelle crete abbacinate e severe, e ho avuto modo di conoscerle nell’intimo. Le percorrevo a piedi, per giornate intere, infilandomi con la mia attrezzatura e la trivella manuale nelle esili macchie di vegetazione che separavano gli sterminati campi di frumento, che s’erano mangiati come voraci squali tutte le superfici non troppo abrupte, tutto lo spazio disponibile, perfino le rughe secche dei calanchi. Spesso per ingrandirsi al massimo avevano scavato a monte nell’argilla intonsa: ne ricavavano stranianti colorazioni azzurrognole. In ogni caso lì facevano affidamento solo sui concimi chimici, la terra non era che superficie sfruttabile, materia morta e stupida.
I piccoli casolari dei mezzadri erano tutti costruiti sugli apici delle creste e delle collinette, l’unica soluzione praticabile su quelle crete che strappavano le fondamenta e i muri. Erano tutti abbandonati da tempo: sembravano isolette selvagge, con i loro corteggi di scarruffata vegetazione. Spesso il tetto era crollato, e nelle stanze s’erano accampati grossi alberi, che qualche volta si affacciavano alle finestre, quasi ci tenessero a far notare che avevano preso possesso delle abitazioni. In molte stanze c’era ancora il cotto, nelle cucine i camini erano neri di fumo che aveva conservato il sentore acre dei ciocchi di quercia.
Restavano oggetti senza valore: miseri attrezzi rugginosi, bottiglie dal vetro intorbidito, qualche posata o ciotola. Reperti che richiamavano quelli che avevo conosciuto nelle campagne del nord che conoscevo io, e che mi avevano sempre colpito per il loro carico di desolazione, per il cruento abbandono che testimoniavano, avvolto da una indifferenza più violenta ancora. Del resto qualcosa mi diceva che qui la lotta per sopravvivere – prima della fuga – era stata ben più aspra.
Più che la terra in sé, che sostanzialmente non capivo, mi soggiogavano i paesaggi assolati, quell’odore di fango secco e paglia e cisti, la dittatura del cielo e del vento. La terra argillosa era però onnipresente, costituiva la pelle disidratata di quelle ondulazioni infinite condannate alla cerealicoltura senza requie o alternanze di sorta. In estate le enormi zolle angolose tagliate dai possenti aratri erano temprate dal solleone: un mare di grezzi blocchi di cemento alla deriva.
Ci sono ripassato molti anni dopo, dopo aver lavorato in luoghi di altri colori: i campi erano simili a prima, con lo loro plaghe bluastre a monte e grigio chiare a valle, e le rudi zollosità vomitate dai possenti aratri. I ruderi dei cascinali si erano però metamorfosati in lussuose ville con prati all’inglese e piscine, piccoli alberghi di lusso. Quasi una fata avesse operato un incantamento. Le tracce della civiltà contadina che avevo conosciuto io erano state definitivamente spazzate via.
Erano arrivati i ricchi stranieri, sulle macerie della civiltà contadina avevano trapiantato il lusso del capitalismo internazionale. Ora contavano solo i loro divertimenti e i piaceri, le necessità dei loro occhi avidi di controllati esotismi. I bei campi cretosi massacrati dall’agricoltura industriale, ma ancora vivi, e sempre bellissimi, quasi coscienti ora di esserlo, stavano a guardare, come aspettando il seguito.
L’estate seguente ho battuto paesaggi simili nell’estremo sud del Paese, sempre con la mia trivella metallica e la sacca di tela grezza degli strumenti. Dal punto di vista geologico erano le stesse crete, ma i dossi erano ancora più desolati, ancora più spossati, sfiniti di aridità. Si capiva che lì la lotta degli uomini era stata ancora più cruda, più implacabile. Perfino le enormi macchine agricole sembravano avere difficoltà a mettere sotto quel paesaggio tanto potente e austero. Per il momento avevano vinto anche qui, ma a un prezzo ancora più alto.
Io adesso ero però a mio agio, ero in sintonia con la terra. Ora la sentivo respirare, percepivo che stava solo attendendo, sotto la sua apparenza tramortita. Sapeva che alla lunga l’avrebbe vinta lei, la tracotanza degli uomini li avrebbe portati alla sconfitta. Non lo sapevo, ma ormai la terra mi aveva preso, non mi avrebbe più lasciato.
(l’immagine: fotografia di Gunther Tschuch, 2008)